INGAGI, il gorilla che fece l’impresa
«Il capitano Swayne si è imbattuto in un animale a cui nessuno è in grado di dare un nome. Sembra un incrocio tra un armadillo e una tartaruga, così Swayne l’ha chiamato Tortadillo».
È il 1930, sugli schermi americani sta avvenendo il passaggio dal muto al sonoro. La fiorente programmazione cinematografica garantisce sogni a buon mercato che spaziano dalla commedia rosa all’horror (non ancora codificato in quanto tale: la sua classificazione è «melodramma»), passando per i gangster movies (dal finale rigorosamente catartico e moralista), e per l’esplorazione esotica, alla scoperta di un mondo pressoché ignoto al pubblico americano.
Africa, Asia e isole del Pacifico, scrigno di misteri e culture arcaiche, diventano il set di reportage avventurosi con l’obbiettivo soprattutto di stupire gli spettatori… anche a costo di rifilare bufale clamorose. Anticipato da una robusta campagna pubblicitaria, puntella le pagine dei quotidiani americani come un «travelogue movie» («diario di viaggio») sonoro, una testimonianza della spedizione tenuta nel 1926 dagli esploratori britannici Hubert Winstead e Daniel Swayne nelle aree più recondite. «Darwin aveva ragione?», si chiede spudoratamente una pubblicità del film, che pareva più che altro una versione per adulti dei racconti di Salgari. Ma nel 1930 all’americano medio piace credere che nei lontani paradisi esotici questo genere di abomini possano accadere. Dopotutto, nel 1890 l’esploratore americano Carl Steckleman aveva riferito la testimonianza di una donna africana rapita da un gorilla nella giungla (di un luogo imprecisato, guarda un po’), la quale, rilasciata dopo alcuni giorni, aveva dichiarato di essere stata trattata dal grosso primate come una regina.
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