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Toscana in giallo
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E-book369 pagine

Toscana in giallo

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Info su questo ebook

Questi racconti, ben costruiti e ricchi di suspense, lasciano trasparire la consuetudine alla ricerca storica e cronachistica da parte dei vari autori ma anche la loro disponibilità e volontà di approfondire fatti, personaggi, situazioni e luoghi, un tutto da scoprire e riscoprire, stimolando nel contempo anche nel lettore il desiderio di conoscerli meglio. Sono narrazioni che spaziano tra città e piccoli luoghi di provincia, saltando negli archi temporali più diversi, ma sempre partendo da una serie di casi criminosi avvenuti nella nostra Regione e mai risolti. Gli autori li presentano in una forma romanzata immaginando che poteva essere successo questo o quello o più semplicemente prendendo spunto da un fatto realmente accaduto per esercitare la propria fantasia...Una serie di misteri autentici che si vuole riproporre attraverso questi racconti eccitando nel lettore la stessa curiosità che ha mosso i nostri autori, capaci nel contempo di offrire una lettura piacevole ed accattivante e aggiungendo, perché no, suspense alla suspense.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2012
ISBN9788875638245
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    Anteprima del libro

    Toscana in giallo - Giuseppe Previti

    Introduzione

    di Giuseppe Previti

    Quando si parla di gialli italiani o meglio di scrittori giallisti italiani c’è sempre una certa difficoltà nel configurare una localizzazione ben delineata. La disputa è antica, come quella sull’origine della letteratura poliziesca, almeno qui in Italia. Ma su una cosa molti sono d’accordo, l’Italia letteraria va interpretata sotto un profilo municipalistico, in un contesto locale più che secondo una tradizione unitaria. E gli esempi risalgono addirittura al XIII secolo...

    Massimo Carloni in un suo studio importante sulla storia del giallo in Italia mette molto in risalto la geografia e la tipologia urbana e provinciale, entro la quale gli autori ambientano le loro storie.

    Il vero spartiacque della letteratura gialla in Italia sarà costituita dal giallo metropolitano di Scerbanenco, ma grande influenza l’avrà pure la cosiddetta scuola bolognese con capostipite Loriano Macchiavelli, così come La donna della domenica di Fruttero e Lucentini che puntano i loro strali sulla società benestante di Torino.

    Ma in Toscana cosa è avvenuto nel frattempo? Dopo una lunga stasi oggi è presente un bel gruppo di autori di punta, contornati da un folto numero di altri scrittori che pubblicano con lodevole regolarità. In Toscana si scrive molto, e questa Regione sembra voler dare ragione a chi asserisce che non esiste un giallo italiano standard, ma piuttosto esistono tanti gialli quanti sono gli scrittori...

    In Toscana non è mai esistita una scuola vera e propria, gli autori hanno avvicinato il genere per lo più a livello di predisposizione individuale, con motivazioni abbastanza dissimili nell’approccio, pur con una certa somiglianza dei generi trattati. Ed anche per i gialli d’epoca e per quelli storici sono per lo più ambientati nella provincia toscana.

    Per un certo periodo, corrispondente agli inizi degli anni duemila, Viareggio e Montecatini erano considerate le location ideali per le vicende criminose, poi il cerchio si è allargato alle città capoluogo e anche alle località minori. La globalizzazione del crimine cancella ogni confine tra i grandi centri e quelli più piccoli.

    Ha preso molto campo la forma di letteratura dialettale, o quanto meno molto localizzata sul territorio, rivelandosi assai gradita a un pubblico vasto di lettori in tutto il Paese. Una grossa riconoscibilità e vitalità per il giallo-noir da provincia.

    D’altra parte la provincia offre tante tematiche che non si corre il rischio di essere ripetitivi. E lo possiamo ben notare in questa antologia dove si spazia nelle situazioni più varie.

    Negli anni novanta i giallisti toscani si contavano sulla punta delle dita, ma dal duemila il loro numero è notevolmente aumentato. In verità è la Toscana che è cambiata, c’è sempre stata, sì, la delinquenza, ma oggi si è sviluppata in forme più raffinate ed inquietanti legata anche a organizzazioni di provenienza extraterritoriale.

    In tutto questo gli scrittori hanno trovato un campo ben più vasto a cui ispirarsi.

    Questa raccolta spazia tra città e piccoli luoghi di provincia, non conosce limiti di tempo, ha la particolarità di partire da casi irrisolti per reinterpretarli in forma romanzata, senza la pretesa di risolvere alcunché...

    Molti gli scrittori che vi si sono cimentati senza spazi di tempi. Vi si trovano gialli storici risalenti al Medioevo o ai tempi dei Granduchi o al XVII secolo o anche agli anni dell’era fascista sono abbastanza numerosi. Così OSCAR MONTANI con Niccolò de’ Bardi e il pugno di mosche (ambientato nel Valdarno del XV secolo), SIMONE TOGNERI con La ragazza del casone, LUCIA BRUNI con La porpora e il sipario (storie legate ai tempi del Granduca), ENRICO TOZZI con Veronica Cybo (ispirato a un fatto del Seicento con proiezioni ai giorni nostri). E poi RICCARDO PARIGI e MASSIMO SOZZI con La Strega e RICCARDO CARDELLICCHIO con Omicidio a carnevale, due vicende che trovano origine nell’era fascista. E anche Sciupata di ALBERTO EVA si ispira a un fatto occorso ai tempi della Repubblica di Salò, anche in questo caso con implicazioni ai nostri giorni; Eva si inventa i collegamenti, ma lo fa con una logica che rende tutto possibile.

    Ancora una lunga serie di racconti ispirati a fatti più o meno accaduti, mai risolti. Il più vicino alla realtà è DANIELE NEPI con Il delitto del conte (apertamente connesso al caso De Robilant), e ancora Centrovasca di SUSANNA DANIELE, Fino alla fine dei giorni di Maurizio PAGNINI, Scomparso di STEFANO FIORI, Dico la verità di SERGIO CALAMANDREI, Jack Burton e il mandarino di VITO BOLLETTINO, Morte accidentale di un tessitore di LAURA VIGNALI, L’ombra nera di ROSSANA GIORGI CONSORTI, Due mani mozze di FRANCO VALLERI e sono tornato di marco vichi.

    In conclusione una Toscana ricca di misteri, con tanti casi ancora da risolvere, che i nostri autori si sono divertiti a reinterpretare, in modo più o meno fedele al reale fatto criminoso, ma comunque tutti da elogiare per impegno, lavoro di ricerca e sfoggio... di fantasia.

    GIUSEPPE PREVITI

    Sono tornato - di Marco Vichi

    Pronto?.

    Vorrei parlare con il ragionier Tombelli.

    Sono io, chi parla?.

    Ciao Carlo, sono tornato.

    Con chi parlo, scusi?. era un po’ seccato. Sua moglie stava per scolare la pasta.

    Ho voglia di venirti a trovare, non sei contento?.

    Come dice? adesso era allarmato.

    Fai finta di non riconoscermi?.

    Forse ha sbagliato numero....

    Sono Giannino, stronzo.

    Giannino chi?.

    Non ti ricordi di me? Fai uno sforzo.

    Silenzio. Nel ricevitore Giannino sentì la voce di una donna che parlava da lontano".

    Carlo, si fredda la pasta... Ma chi è?.

    Niente, arrivo subito.

    Ah, sento che ti sei sposato....

    . appena un sussurro.

    Avrai anche qualche bambino, immagino.

    Cosa vuoi? quella domanda gli era scappata di bocca, e un attimo dopo se ne pentì.

    Si comincia male, Carlo. Molto male.

    Scusa, volevo dire....

    Lasciamo perdere le chiacchiere. Sai cosa voglio.

    . sudava.

    Ci sono ancora, giusto?.

    Certo....

    Lo spero per te. C’è ancora chi sarebbe molto felice di sapere che fine hanno fatto....

    Ci sono tutti. mentiva, ma non poteva fare altrimenti.

    Mica li hai lasciati chiusi in quella borsa, vero? Sennò mi ci posso pulire il culo.

    Sì....

    Sì, cosa?.

    Cioè no... non li ho lasciati nella borsa.

    Bravo. Ora ascoltami bene. Ci vediamo domattina nel cimitero di piazzale Donatello, alle undici.

    Ma è domenica....

    E allora?.

    Avevo promesso a mia moglie e ai bambini che andavamo a... .

    Inventa una scusa, sennò vengo a bussarti a casa. Ciao.

    Aspetta!.

    Che c’è?.

    Volevo dire... si bloccò.

    Cosa?.

    Nulla. Ne parliamo con comodo domani.

    Non fare scherzi sennò mi arrabbio.

    Figurati! È tutto a posto.

    Cerca di essere puntuale. riattaccò.

    Carlo rimase almeno un minuto con il telefono in mano. Aveva la bocca così asciutta che la lingua gli si attaccava al palato. Davanti ai suoi occhi scorreva una scena di molti anni prima, immagini nitide come se avesse appena vissuto quei momenti. Quanto tempo era passato?

    Infilò le chiavi nel portone del palazzo e vide che era aperto. Da qualche giorno non chiudeva bene. Cosa aspettava l’amministratore a chiamare il fabbro? Imboccò le scale fischiettando. Abitava al quinto e ultimo piano di un palazzo antico. Cinque piani da fare a piedi, ma per lui era una cosa da nulla. Anche dopo una giornata di lavoro si sentiva fresco e riposato. Non che si spaccasse la schiena come un operaio, per fortuna, ma le sue otto ore le faceva tutte. Guadagnava anche bene. Si era appena comprato una 850 carta da zucchero, ultimo modello con accessori. L’aveva ritirata da una decina di giorni. Sessanta rate. Quando la guidava doveva stare attento a non distrarsi, perché i suoi occhi erano attirati da quel bellissimo cruscotto luccicante. Per fortuna non pagava un affitto troppo alto. Il quartiere era popolare, e l’appartamento non arrivava a cinquanta metri quadrati. Camera da letto, cucina, bagno. Abitava da solo, e per adesso andava bene così. E poi sopra di lui c’era solo il tetto, e questo gli piaceva. Ogni tanto ci andava, sul tetto. Mai di giorno, però. Davanti alla sua porta c’era un’ultima rampa di scale, sempre buia, che portava sul tetto. Si sedeva sulle tegole e guardava la città, fumando una sigaretta. In lontananza si vedevano le colline punteggiate di luci. In quei momenti si sentiva in pace con tutto il mondo, e pensando ai suoi genitori lontani quasi piangeva. Se aveva potuto studiare e cominciare una carriera che poteva portarlo lontano era solo merito loro. Avevano sempre creduto in lui, e sentirsi degno di quella fiducia era il regalo più bello.

    Al terzo piano si voltò a guardare la porta dei Giannone, e come sempre sorrise. Ci abitava una bella ragazza pugliese, con i capelli neri e gli occhi verdi. Non da sola, con i genitori e un paio di fratelli. Diciannove anni, più o meno. Maria. Quando la incrociava per le scale si salutavano, ma non si erano mai fermati a parlare. Prima o poi sarebbe successo, ne era più che sicuro. L’avrebbe invitata a cena e lei avrebbe detto di sì. Immaginava la scena. Per impressionarla l’avrebbe portata a Viareggio con l’850, anche se era inverno...

    Arrivò al suo pianerottolo con la chiave già in mano. Ripeté i gesti che faceva ogni sera quando rientrava dal lavoro. Infilò la chiave nella serratura, aprì la porta, accese la luce... Una spinta sulla schiena lo mandò a rotoloni sul pavimento dell’ingresso. Sentì alle sue spalle la porta che si richiudeva.

    "Non gridare o sei morto". Una voce giovane, un po’ rauca. Carlo si voltò senza rialzarsi, con il cuore in gola. Davanti a lui c’era un ragazzo di vent’anni, una pistola in una mano e una borsa di pelle nell’altra. Alto più o meno come lui, testa quadrata e barba di qualche giorno. Pantaloni da lavoro e un giubbotto di camoscio.

    "C’è qualcun altro in casa?". aveva lo sguardo duro, ma anche spaventato.

    "Cosa vuoi?".

    "C’è qualcun altro?". più deciso.

    "No".

    "Dov’è il bagno?".

    "Quella porta".

    Vieni con me.

    Carlo si alzò ed entrò per primo nel bagno. Il ragazzo posò la borsa su una sedia e gli disse di sdraiarsi in terra con le mani sopra la testa. Carlo obbedì. L’altro tirò giù la cerniera dei pantaloni, senza mai lasciare la pistola, e pisciò per almeno un minuto sospirando di soddisfazione. Tirò su la zip.

    "Andiamo".

    Carlo si alzò, e guidò lo sconosciuto in cucina. Nell’acquaio c’erano ancora i piatti da lavare.

    Siediti.

    Carlo si sedette. L’altro posò la borsa sopra una sedia e rimase in piedi. Senza lasciare la pistola aprì il rubinetto e aiutandosi con una mano bevve a lungo, come se non vedesse una goccia d’acqua da una settimana. Aprì il frigorifero. Prese un pezzo di formaggio e gli diede un morso. Carlo respirava con affanno.

    Cosa vuoi? riuscì a dire.

    Zitto. finì il formaggio e si guardò intorno. Prese una bottiglia di vino già aperta e si riempì un bicchiere fino all’orlo. Lo vuotò in pochi sorsi, con il piacere dipinto negli occhi. Si sedette di fronte a Carlo.

    "Aspetti qualcuno?".

    "No".

    Silenzio. Lo sconosciuto si passò più volte una mano sulla faccia, come se dovesse decidere qualcosa d’importante.

    "Come ti chiami?".

    "Carlo...".

    "E poi?".

    "Tombelli".

    "Che lavoro fai?".

    "Sono cassiere...".

    "Dove?".

    "Al Monte dei Paschi".

    Ah.... appoggiò la pistola sul tavolo, tenendola sempre in mano. Aveva l’aria pensierosa. Il suo sguardo vagava lentamente per la stanza, e ogni tanto tornava a posarsi all’improvviso su Carlo. Sembrava tormentato dai dubbi. Alla fine alzò il mento come se avesse trovato la soluzione.

    "Hai dello spago?".

    "In quel cassetto".

    Il ragazzo trovò lo spago e lo avvolse intorno alla borsa prima in un senso e poi nell’altro, finché non finì il gomitolo. Senza lasciare la pistola fece diversi nodi e li strinse forte.

    "Lascio qui la borsa per qualche giorno... e ovviamente tu non lo dirai a nessuno".

    Carlo stava immobile, in silenzio, e cercava di non fare nulla che potesse innervosire il ragazzo.

    "Hai capito cos’ho detto?".

    ".

    "Sì, cosa? Se preferisci posso ammazzarti". era calmo, ma proprio per questo faceva più paura.

    "Va bene... Tengo la borsa".

    "E...?".

    "E non lo dirò a nessuno".

    "Se mi accorgo che l’hai aperta sono cazzi".

    "Non la tocco".

    "Se fai il bravo, quando torno ti pago il servizio".

    "Eh?".

    "Trenta milioni... tutti per te".

    "Per me?".

    "Ci fai un sacco di cose con trenta milioni".

    "Sì".

    "Vieni, fammi vedere i tuoi vestiti". andarono in camera. Il tipo si era portato dietro la borsa, e la spinse sotto il letto.

    "Fai finta che non ci sia".

    "Certo...".

    "Bravo". Guardò nell’armadio, e senza pensarci troppo scelse un completo marrone che sembrava elegante. Lo buttò sul letto insieme a una camicia bianca. Appoggiò la pistola sul cassettone e si cambiò, senza mai staccare gli occhi da Carlo. Si annodò al collo una cravatta, poi scelse un paio di scarpe nere che erano costate un sacco di soldi. Sembrava un’altra persona. Indicò i vestiti che si era tolto, ammonticchiati per terra.

    "Buttali nella spazzatura".

    "Sì".

    "Adesso me ne vado. Vengo tra qualche giorno a riprendere la borsa".

    "Sì".

    "Hai tutto da guadagnare, non fare cazzate".

    "No".

    "Se cerchi di fregarmi ti spezzo le ossa una a una, poi ti taglio le palle e...".

    "Non farò nulla".

    "Lasciami finire. Dicevo... Ti taglio le palle e te le faccio mangiare. E ammazzo anche tutta la tua famiglia. Ci siamo capiti?".

    "Sì".

    Davanti alla porta d’ingresso il ragazzo si bloccò.

    "Anche se mi beccano, prima o poi verrò a riprendere la borsa".

    "Sì".

    "Non te lo scordare".

    "No".

    Il ragazzo si mise la pistola nella cintura, aprì la porta e s’incamminò giù per le scale con passo tranquillo. Carlo chiuse la porta e sentì che gli tremavano le gambe. Andò a sdraiarsi sul letto per aspettare che il cuore si calmasse. A un tratto si ricordò che sotto di lui c’era la borsa. Fece penzolare la testa giù dal materasso e la vide. Allungò una mano e la tirò fuori. Pesava più di quello che si aspettava. La alzò in aria e la scosse. Si sentiva qualcosa che si muoveva con un rumore sordo. La rimise sotto il letto e si sdraiò di nuovo. Quando suonò il telefono non rispose. A quell’ora non poteva che essere sua mamma. Non ce la faceva a parlare, l’avrebbe richiamata più tardi. Rimase a fissare il soffitto, le braccia distese lungo i fianchi e i pugni in movimento. Trenta milioni. Doveva solo tenere una borsa per qualche giorno. Quanto ci metteva a guadagnare trenta milioni? Un sacco di tempo. Potevano essere una buona caparra per comprare un appartamento, e per pagare il resto avrebbe chiesto un prestito alla banca dove lavorava. Si sentiva calmo, adesso. Anche se ormai aveva capito. Il ragazzo con la pistola era uno dei banditi che quella mattina avevano rapinato la Cassa di Risparmio di Porta al Prato. La notizia era arrivata alla sua banca subito dopo. Si parlava di una carneficina.

    Alle otto accese il televisore per guardare il telegiornale. I morti erano cinque. Un cassiere, due poliziotti e due banditi. Una rapina da seicento milioni. Il terzo malvivente era sparito nel nulla con i soldi. La polizia sospettava che fosse un certo Giannino Scifo, cugino di Santo Di Cara, uno dei rapinatori rimasti uccisi e da sempre suo compare nelle azioni criminose. Fecero vedere una fotografia... Lo riconobbe all’istante. Descrissero gli abiti che indossava il bandito, pantaloni da lavoro e un giubbotto di camoscio. La popolazione veniva invitata a segnalare chiunque somigliasse al fuggiasco... La facevano facile, quelli. Si morse le labbra. I vestiti del bandito erano ancora sul pavimento di camera sua, e i soldi erano sotto il letto. Cinque morti. Lui non aveva nessuna colpa, non aveva fatto nulla... Doveva solo tenere quella borsa e stare zitto, sennò Giannino Scifo...

    Una domenica baciata dal sole. Carlo guidava lentamente sulla strada che scendeva da Fiesole, pensando a come uscire da quel casino. Erano appena le nove. Era uscito presto perché aveva bisogno di stare un po’ da solo a riflettere. C’era poca gente in giro, non soltanto perché era domenica. Molte famiglie avevano già cominciato a passare il fine settimana al mare. Loro invece ci andavano dopo la fine delle scuole, per non distrarre troppo i bambini dallo studio. Di solito in quel periodo facevano delle brevi gite dalla mattina alla sera. A quell’ora avrebbero dovuto essere già sulla strada per Siena, e invece...

    Si asciugava di continuo la fronte. La sera prima aveva quasi litigato con sua moglie. Non perché lei non avesse creduto alla sua balla, ma perché non le andava giù che lui dovesse lavorare perfino di domenica. La scusa che aveva inventato era così assurda... Una convocazione informale del direttore della banca, per questioni urgenti e riservatissime.

    Lo so che è domenica, ma se ci pensi bene... questo significa che in quella banca io conto davvero qualcosa. Non era vero, anche se in effetti aveva un posto di rilievo. Guadagnava molto, più di quanto avesse mai sognato. Ma a renderlo veramente ricco erano stati i soldi di quella borsa.

    Dopo quella famosa sera aveva aspettato con pazienza che Scifo ritornasse. Avrebbe avuto i suoi trenta milioni e avrebbe cercato di comprarsi un appartamentino in centro, magari in quello stesso quartiere. Ma Giannino Scifo non era tornato. Lo avevano arrestato un mese dopo, per puro caso. Si ricordava ancora il telegiornale di quel giorno. Un alto funzionario di polizia era andato ad accompagnare la moglie alla stazione, e gettando uno sguardo distratto dentro le carrozze aveva visto una faccia che gli ricordava qualcuno. Mostrando il tesserino aveva detto al capotreno di non far partire il regionale, poi era corso a telefonare in questura per chiedere di mandare qualcuno in borghese. Erano saliti sulla carrozza in otto, quattro da una parte e quattro dall’altra. Lo avevano immobilizzato e portato via. Giannino si era fatto crescere la barba e portava gli occhiali da sole, ma il funzionario di polizia lo aveva riconosciuto dalla forma della testa. Carlo aveva seguito la vicenda sui giornali. Giannino Scifo era stato condannato a trent’anni, anche perché era un pregiudicato recidivo. Aveva scampato l’ergastolo perché il suo avvocato era riuscito a dimostrare senza difficoltà che lui non aveva ucciso nessuno. Ma i soldi della rapina non erano saltati fuori, e questo aggravava la sua posizione. Scifo aveva detto che in preda al panico aveva gettato la borsa nell’Arno, ma il pubblico ministero non gli aveva creduto nemmeno un po’. Trent’anni. Se li avesse fatti tutti sarebbe uscito nel duemiladodici... Invece era uscito prima. E adesso?

    Parcheggiò la Mercedes vicino allo Stadio e s’incamminò verso la passerella pedonale che scavalca la ferrovia. Aveva paura. Non solo di Scifo. Temeva che quel passato lontano potesse venire a galla e turbare la serenità della sua famiglia. Nella sua mente affioravano ricordi che aveva seppellito da anni. Non aveva mai parlato a nessuno di quei soldi. Dopo che Scifo era stato arrestato, aveva cominciato a domandarsi cosa doveva fare di quella borsa. Alla fine aveva tagliato lo spago e l’aveva aperta. La vista di tutte quelle banconote lo aveva stordito. Non poteva certo tenersi quei soldi in casa per sempre, non avrebbe avuto senso. Dovette pensarci a lungo, prima di trovare una soluzione.

    Nel giro di sei mesi aveva aperto una ventina di conti correnti e di libretti al portatore in banche diverse, sia in città che nei paesi vicini. Nessuno gli aveva fatto domande indiscrete, come del resto si aspettava. Conosceva bene la morale delle banche: ai soldi non si guarda in faccia. La cosa più difficile era stata trovare delle scuse per allontanarsi dal lavoro durante quelle operazioni. aveva comprato Buoni del Tesoro e obbligazioni, senza mai prelevare nulla. aveva lasciato passare altri sei mesi, poi aveva cominciato a convogliare lentamente i soldi su tre soli conti correnti. Ci aveva messo più di un anno.

    Poi il grande passo: aveva comprato per duecento milioni una vecchia casa colonica sopra Fiesole, e altri centocinquanta li aveva spesi per ristrutturarla. Il resto lo aveva investito in Borsa, in quel momento d’oro in cui anche le azioni di un laboratorio di lampadari sarebbero schizzate in verticale. In due anni aveva guadagnato una montagna di soldi. Aveva comprato un appartamento a Marina di Massa, due stanzette a Parigi in una via tranquilla vicino al cimitero di Père Lachaise, una barca non troppo grande, una Mercedes e una Golf per sua moglie. Eh già, con tutti quei soldi era stato facile anche trovare una moglie ricca. anche piuttosto bella, a dire il vero, figlia di un avvocato napoletano. Lei ovviamente non aveva mai saputo nulla dei suoi traffici finanziari. Solo dopo qualche anno avevano avuto il primo figlio, poi subito altri due, una femmina e un altro maschio. Chi ci pensava più a Giannino Scifo? Magari ogni tanto, ma solo vagamente...

    Attraversò la passerella e imboccò viale Mazzini. I pensieri che gli frullavano in testa non volevano saperne di fermarsi. Un brutto venerdì la Borsa era crollata, e tutta l’Italia era diventata più povera. Lui aveva dovuto vendere la barca e l’appartamento a Parigi, ma era riuscito a salvare il resto. Nel tempo aveva fatto altre operazioni finanziarie ad alto rischio, ma aveva continuato a perdere soldi, molti soldi. Alla fine, tutto quello che gli era rimasto lo aveva destinato a investimenti più tranquilli. Non che adesso fosse povero... anche soltanto con lo stipendio poteva fare una bella vita. I suoi figli avevano tutto quello che desideravano, e alla casa ci pensava una filippina. Ma se metteva insieme conti correnti e obbligazioni non raggiungeva grandi somme. A quanto poteva arrivare? Novanta, centomila euro? Seicento milioni di allora, a quanti euro corrispondevano? Cercò di fare il conto, mentre una goccia di sudore gli colava giù dalla tempia. Un paio di milioni, più o meno. Quattro miliardi, forse anche di più. Ma Scifo non poteva mica pretendere una rivalutazione del capitale, sarebbe stato assurdo. Comunque fosse, almeno trecentomila euro li avrebbe voluti... e lui in quel momento non li aveva. Per metterli insieme avrebbe dovuto vendere l’appartamento di Marina di Massa, ma solo al pensiero si sentiva avvilire. Cosa avrebbe pensato la gente che frequentava? Che Carlo Tombelli stava andando in rovina? A un tratto gli venne in mente senza una ragione la bella pugliese che stava al terzo piano, quando lui abitava ancora in quel vecchio palazzo malandato. Maria Giannone. Non ci aveva mai parlato, e quando si era trasferito a Fiesole l’aveva dimenticata in fretta. Come mai si era ricordato di lei proprio adesso?

    Era in anticipo di un’ora. Arrivò fino al Lungarno, si appoggiò con i gomiti al muretto e rimase per qualche minuto a guardare la massa di acqua marrone che scorreva tranquilla. Ma non riuscì a calmarsi. Fece un bel respiro e tornò indietro lungo il viale. Si fermò a bere una spremuta d’arancia in un bar di piazza Beccaria, per cercare di togliersi dalla bocca quel saporaccio che gli faceva pensare alla paura. Seduto all’unico tavolino fissava il vuoto, immaginando l’incontro con Scifo. Si ripeteva nella mente le frasi che avrebbe usato per calmare quel galeotto. Doveva prendere tempo. Soprattutto le parole erano importanti. Era bene trovare quelle giuste. Sarebbero bastate? Sperava di sì. Non gli mancava certo la parlantina. In vent’anni di lavoro in banca aveva imparato a convincere le persone a fare quello che non volevano. Aveva fatto carriera anche per quello. Ma Scifo apparteneva a un altro mondo, e forse non si sarebbe lasciato incantare da belle promesse. Non restava che provarci. Di certo non poteva fare a meno di andare a quell’appuntamento. Aveva una moglie e tre figli, doveva proteggerli, doveva tenerli lontani da quelle brutte cose...

    Si avviò fuori dal bar dimenticandosi di pagare, e il proprietario gli urlò dietro. Arrossì e si avvicinò al bancone balbettando scuse. Gli sembrava che tutti lo guardassero con disprezzo. Uscì sentendo quegli sguardi trapassargli la schiena e s’incamminò verso il cimitero di piazzale Donatello. Le undici meno dieci. Sarebbe arrivato puntuale.

    Vedeva quasi ogni giorno quel bubbone di roccia che spuntava come un fungo in mezzo ai viali, ricoperto di tombe e di cipressi scuri. Ci era entrato solo una volta di notte, molti anni prima, per fare una ragazzata, scavalcando il muro nel punto dove mancava una sbarra. Si ricordava soltanto che gli era sembrato molto più grande di quello che aveva sempre pensato.

    Entrò nel cimitero con il cuore che gli batteva all’impazzata e salì su per la collinetta passando tra antiche lapidi ricoperte di muschio. Non c’era nessuno. Le chiome tozze dei cipressi erano popolate di uccellini che cantavano. Arrivò in cima e si guardò intorno. Come la prima volta, gli sembrava che quella piccola collinetta di roccia fosse dieci volte più grande di quello che appariva da fuori. Sentiva passare le macchine, ma non le vedeva. Era strano. Sembrava di essere lontani dalla città, eppure...

    Tombelli?.

    Si voltò con un brivido. Nonostante fossero passati tutti quegli anni lo riconobbe all’istante. A parte le rughe non era cambiato molto. Aveva solo qualche capello bianco sulle tempie e la faccia un po’ scavata. Ma lo sguardo non aveva nulla di feroce.

    Quando sei uscito?. cercò di metterci un po’ di calore.

    Più di un anno fa. Mi hanno controllato per qualche mese, ma alla fine si sono stancati. Era vestito con un paio di jeans e un giubbotto di pelle piuttosto consumato. Aveva l’aria tranquilla, anche se si guardava intorno con attenzione.

    E in tutto questo tempo che hai fatto? disse Tombelli con un tono affettuoso, come se avesse chiesto: ‘perché non sei venuto subito da me, amico mio?’.

    Me lo voglio scordare rispose Scifo, sorridendo.

    Mi dispiace....

    Lascia perdere. Dimmi dei soldi.

    Ci sono tutti. Meno male che quando ti hanno arrestato li ho messi in banca... Non li ho mai toccati....

    Cioè? Li hai messi in banca e li hai lasciati così?.

    Che dovevo fare? Non erano mica soldi miei.... erano in piedi, immobili, uno di fronte all’altro.

    Ho passato la vita in galera per quei soldi.

    Lo so, ma se sbagliavo un investimento e perdevo tutto?.

    Potevi comprare quelle cose sicure... Come cazzo si chiamano?.

    Buoni del Tesoro.

    Ecco, quelli.

    "Non ti nego che qualche volta l’ho fatto, e mi sono anche tenuto gli interessi. Poca roba, a dire il vero. Ma mi sembrava giusto. In fondo ho salvato i tuoi soldi. Se li nascondevo sotto

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