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Hortus Mirabilis: Storie di piante immaginarie
Hortus Mirabilis: Storie di piante immaginarie
Hortus Mirabilis: Storie di piante immaginarie
E-book490 pagine10 ore

Hortus Mirabilis: Storie di piante immaginarie

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Info su questo ebook

Prefazione di Danilo Zagaria
Illustrazioni di Gabriele Operti


Benvenuti in un giardino straordinario, popolato da piante bizzarre e stupefacenti, talvolta misteriose e letali, ma tutte accomunate da una caratteristica: sono germogliate dalla fantasia di uno scrittore.
Hortus mirabilis è un’antologia di racconti di botanica inesistente: ogni capitolo una pianta, ogni pianta una storia firmata da una penna italiana.
Le illustrazioni a colori che accompagnano ognuno dei tredici racconti danno vita, pagina dopo pagina, a una galleria di meraviglie naturali in cui perdersi per riscoprire la forza immaginifica del regno vegetale.

«Quando la creatività di un autore dà voce al cuore weird di una pianta, il risultato è spiazzante e splendidamente ibrido. Le piante delle opere brevi [raccolte in questo volume] sconvolgono la vita dei protagonisti, colonizzandola con la loro presenza perturbante, che spesso contiene la speranza, o la minaccia, di un futuro diverso dal solito, caratterizzato da una profonda stranezza.»
Dalla prefazione di Danilo Zagaria
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2021
ISBN9788831982344
Hortus Mirabilis: Storie di piante immaginarie

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    Anteprima del libro

    Hortus Mirabilis - AA. VV.

    Hortus Mirabilis. Storie di piante immaginarie

    © Maria Gaia Belli, Andrea Cassini, Diletta Crudeli, Elisa Emiliani, Maurizio Ferrero, Natalia Guerrieri, Beatrice La Tella, Michela Lazzaroni, Francesco Morgante, Gabriele Operti, Lucrezia Pei, Ilaria Petrarca, Anita Renchifiori, Ornella Soncini, Axa Lydia Vallotto, Danilo Zagaria

    Logo Moscabianca Edizioni realizzato da Veronica Carratello

    © 2021 Moscabianca Edizioni

    ISBN 978-88-319-8234-4

    www.moscabiancaedizioni.it

    info@moscabiancaedizioni.it

    Hortus Mirabilis. Storie di piante immaginarie

    Indice

    Lasciatevi infestare. Prefazione di Danilo Zagaria

    Elisa Emiliani. Il chiostro

    Axa Lydia Vallotto. Babilonia nel cielo

    Natalia Guerrieri. Skógur

    Ilaria Petrarca. Il manuale di giardinaggio di Aubrey

    Maria Gaia Belli. Il matrimonio

    Lucrezia Pei e Ornella Soncini. Così inizia il mondo

    Maurizio Ferrero. Scie nella neve

    Beatrice La Tella. Memoria esterna

    Diletta Crudeli. Il tè delle tigri

    Francesco Morgante. M’ama non m’ama

    Michela Lazzaroni. Una storia già scritta

    Anita Renchifiori. Una persona speciale

    Andrea Cassini. Rapporto sulla guerra tra anemocore e mirmecofile nell’ecosistema di Sylph

    Biografie

    Editor

    Danilo Zagaria

    Lasciatevi infestare

    Prefazione di Danilo Zagaria

    Per definizione una pianta è considerata infestante quando non ha valore commerciale ed è in grado di danneggiare orti, campi coltivati, risaie. Sono infestanti le erbacce, le cosiddette malerbe, cioè tutte quelle specie che siamo soliti estirpare da vasi, aiuole e giardini con sonore imprecazioni. Sono piante che danno fastidio, che confondono, che occupano, che soffocano e che crescono senza una logica, diffondendosi dove possono, tra le mattonelle spaccate e negli scampoli di terriccio fra una coltura e l’altra. Epurando la definizione dal suo significato commerciale, valido in agricoltura ma decisamente meno utile per il nostro immaginario, resta la natura nociva e parassitica delle piante infestanti, la loro capacità di perturbare. In altre parole, la loro anima weird.

    Il termine infestante deriva dal latino infestus, infesto. È un aggettivo desueto, il cui utilizzo è scemato nel corso del tempo perché gli preferiamo ostile o nemico. Un’entità infesta è dannosa, ci minaccia con la sua stessa presenza e, ancor di più, ci terrorizza con la sua volontà di diffondersi, di propagarsi, spesso in modo indefesso e rapido. I virus pandemici sono infesti, così come lo sono gli xenomorfi della saga di Alien.

    Nella mia mente anche tutte le piante sono infeste, e lo sono per due motivi. Primo, perché sono straordinarie specie colonizzatrici, capaci di spostarsi in modo incredibilmente efficace per raggiungere luoghi lontani, siano questi una minuscola isola in mezzo all’oceano o il giardino incolto che sta dall’altra parte di una strada cittadina. Secondo, perché forse ancor più degli animali e di altre forme di vita detengono un potere prodigioso: sono in grado di insediarsi nel nostro immaginario e scombinarlo, proprio come una radice spacca l’asfalto di un marciapiede e fa inciampare un pedone dopo l’altro.

    Fin dagli albori della nostra storia non abbiamo fatto altro che combattere una lunga e silenziosa battaglia contro il mondo vegetale. Le piante sono state vittime del nostro fuoco, delle nostre lame, delle macchine industriali e delle sostanze chimiche, in tempi recenti della nostra tecnologia genetica.

    Da quando siamo scesi dagli alberi per iniziare a camminare, la foresta ha cambiato progressivamente significato, trasformandosi in luogo selvaggio e mitico (di cui l’Eden cristiano, l’Arcadia dei greci e il Bosco delle fiabe sono soltanto alcuni esempi). La città, al contrario, si è fatta tana degli uomini, spazio dove le piante sono tenute a bada da eserciti di giardinieri, impegnati a confinarle in punti specifici e a ricacciarle indietro quando conquistano troppo spazio, diventando un fastidio per le attività umane. Le tagliamo, le coltiviamo, le selezioniamo, le scegliamo, le strappiamo, le potiamo e le spostiamo.

    Si tratta comunque di una battaglia continua in cui siamo destinati alla sconfitta: nonostante gli sforzi dei nuovi architetti green, che si impegnano a portare il verde e il selvatico presenti all’esterno dentro alle nostre case, il futuro è vegetale. Basta osservare un qualunque video o fotografia urbex che mostri una villa o una fabbrica abbandonate. Basta guardare le decadenti città del futuro, disegnate da illustratori e fumettisti e raccontate da letteratura e cinema sci-fi: si sono quasi sempre arrese all’assalto di piante, liane e felci.

    Ma la guerra alle piante non è soltanto una metafora. Durante il conflitto in Vietnam le forze armate statunitensi impiegarono una vasta gamma di agenti defolianti, il più noto dei quali è l’agente arancio. Non troppo diverso da un comune erbicida, questo composto venne utilizzato per liberare vaste aree del territorio vietnamita, avvelenando immense distese di giungla intricata, il più prezioso degli alleati per i guerriglieri. I vietcong, come hanno fatto tutte le forze irregolari e native nel corso della storia reale e fittizia – dai guerrieri giaguaro precolombiani agli alieni di Avatar, dalle squadre rivoluzionarie di Che Guevara ai partigiani della Resistenza –, si fondono con la vegetazione, diventando parte integrante del territorio che vogliono difendere. Aiutati anche dai cosiddetti Rome Plow, enormi bulldozer corazzati, gli americani distrussero ampie porzioni di foresta pluviale vietnamita, aggiungendo ai crimini di guerra una lunga lista di malefatte ambientali, che spesso costituiscono lo scempio non visto dei conflitti contemporanei.

    Quando non siamo impegnati a combattere le piante con falci, erbicidi e mezzi pesanti, siamo soliti sviluppare tecniche e strategie per selezionarle con cura e per disciplinarne la crescita. Limitiamo la loro natura weird, la loro capacità di stupirci e scombinare i piani.

    Una pianta utile o bella, infatti, è in genere una pianta che, per così dire, sta alle nostre regole, crescendo dove noi lo consentiamo e nei modi che noi abbiamo deciso. In principio lo abbiamo fatto per scegliere le varietà più adatte a essere domesticate e coltivate, poi ci abbiamo preso gusto e le piante sono diventate un passatempo, addirittura un’arte.

    Ecco emergere quindi giardini curatissimi, con aiuole obbedienti e ordinate, vasi fioriti e alberi costantemente potati. In Giappone hanno miniaturizzato piante ad alto fusto, costringendone i rami in posizioni specifiche col fil di ferro e le radici a crescere in minuscoli contenitori. L’arte dei bonsai, in effetti, rappresenta l’acme del nostro desiderio di contenimento del mondo vegetale: un pino che cresce su una scrivania, non più grande di una lampada, ci ricorda ogni giorno che siamo padroni non soltanto della sua esistenza ma anche delle sinuosità che il suo tronco può assumere. La pianta, per così dire, si piega al nostro volere.

    Ma l’anima infestante di ogni pianta è ben lontano dall’essere sopita. È in ogni germoglio, in ogni minuscola radichetta, in ogni seme che prende il volo in una giornata ventosa. Come dicevamo poc’anzi, il potere sovversivo di ogni pianta resiste, ed è più forte del nostro ingegno bellico, scientifico e agronomico.

    I tredici racconti che compongono questa raccolta letteraria – animata da illustrazioni capaci di esaltare la natura aggrovigliante e ribelle delle specie immaginarie protagoniste di ogni storia –, ne sono una prova. Quando la creatività di un autore dà voce al cuore weird di una pianta, il risultato è spiazzante e splendidamente ibrido. Le piante delle opere brevi che seguono sono aliene, parassite, magiche, inquietanti, senzienti e simbionti. Tutte sconvolgono la vita dei protagonisti, colonizzandola con la loro presenza perturbante, che spesso contiene la speranza, o la minaccia, di un futuro diverso dal solito, caratterizzato da una profonda stranezza.

    In queste vicende le piante sono al centro, come una pianta magica è al centro di una delle prime storie mai raccontate, l’Epopea di Gilgamesh.

    Queste storie sono ancora più bizzarre di quelle popolate da animali fantastici. È una peculiarità che già si coglie nel bestiario più raffinato e fantasioso che si possa leggere, il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero. In quel campionario di esseri improbabili, i più bislacchi sono proprio quelli che mescolano mondo animale e vegetale: la nota mandragora (che anche Harry Potter è chiamato a maneggiare con attenzione in libri e film) e lo strambo borametz, l’unione fra un agnello e una pianta che secondo le leggende cresceva nelle steppe asiatiche abitate dai tartari.

    Dotare una pianta di facoltà che siamo soliti associare al mondo animale – in primo luogo la volontà – è un’operazione classica, che esalta ogni vegetale e ne fa un essere straordinariamente inquietante o comunque ben più alieno di qualunque ibrido animale, anche nel caso in cui siano gli esseri umani ad assumere sembianze vegetali. I volti rugosi degli Ent di Tolkien, l’appeal da insetto stecco dell’asticello di Newt Scamander, gli uomini vegetali di Arcimboldo e la Poison Ivy rivale di Batman sono soltanto alcuni fra gli esempi che il mondo delle lettere, del cinema e dei fumetti ha regalato al nostro immaginario.

    È curioso che in ambito scientifico i sistemi di classificazione, e quindi di separazione, delle specie siano nati proprio in campo botanico. Un po’ fu dovuto al fatto che le piante erano più accessibili e facili da studiare rispetto agli animali, un po’ perché senza cacciagione si può vivere ma senza i frutti della terra una civiltà fa davvero fatica ad andare avanti.

    Fu un giovane naturalista svedese di nome Linneo a definire, agli inizi del Settecento, un metodo per classificare le specie vegetali e per inserirle poi in raggruppamenti tassonomici concentrici, simili a delle matrioske russe. Analizzando e contando il numero di stami e pistilli presenti in alcune specie, il padre della tassonomia fondò un sistema che, a grandi linee, è utilizzato ancora oggi e ci consente di mettere ordine in quel gran putiferio che è il mondo della vita.

    Il concetto di specie è utile, semplice e dà un senso a ciò che ci circonda, sebbene non sia poi così definito o facile da applicare come potrebbe sembrare a chi non ha mai provato a classificare insetti grandi quanto un’unghia o fili di piante erbacee che a un occhio non esperto paiono tutti uguali fra loro. Tuttavia oggi, soprattutto in campo filosofico, si parla sempre più spesso della crisi della specie, ennesima barriera che dovrebbe essere demolita per poter descrivere, e poi esperire, un mondo meno settario, in cui sia la relazione fra le varie forma di vita a dominare e non la soggettività di ciascun individuo.

    Se poi guardiamo alla scienza e alle ultime scoperte in diversi campi, ci accorgiamo che il pianeta sul quale viviamo altro non è che una gigantesca ragnatela di reti in cui le forme di vita e i materiali abiotici sono interconnessi in modi così profondi che sfidano la nostra capacità di comprensione. Stiamo analizzando sempre più nel dettaglio, ad esempio, l’incredibile rete che gli alberi di una foresta creano fra loro nel sottosuolo con l’aiuto dei funghi. Il Wood Wide Web, così viene chiamata, è una rete talmente complessa da ricordare le società umane e quelle di alcuni insetti sociali come api e formiche. I boschi, sostiene la scienziata Suzanne Simard, sono «una grande società antica e intricata».

    In tempi di crisi ecologica come quelli che stiamo vivendo abbiamo bisogno del potere straniante del weird, grazie al quale è possibile compiere una straordinaria manovra: deformare il mondo per mostrare meglio chi siamo, dove viviamo, con chi sopravviviamo e che cosa non sta funzionando. Le opere weird mettono in crisi le specie, abbattono le barriere e ci raccontano di chimere fantastiche, entità che ci conducono alle domande fondamentali sulla nostra identità e sul ruolo che ricopriamo nell’universo.

    Insieme ad alcuni studi scientifici e a libri divulgativi possono fare la differenza, dando origine a un nuovo modo di guardare a quel regno vegetale che siamo soliti sfruttare, estirpare, manipolare e calpestare senza pensarci troppo sopra. Dopo un libro di Antoine Volodine come Terminus radioso – in cui il fondatore del post-esotismo elenca un’infinità di piante inesistenti, fra cui la malguardia, la pipigrilla, la berlingotta – potrebbe essere quindi opportuno leggere L’incredibile viaggio delle piante di Stefano Mancuso o Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici di Katia Astafieff, volumi che raccontano le eccezionali capacità delle piante di colonizzare nuovi ambienti, infestarli e diventare inseparabili compagne delle nostre esistenze.

    Ma potrebbe essere altresì stimolante alternare la perturbante storia di una donna che si fa vegetale, quella raccontata nel romanzo La vegetariana della scrittrice sud-coreana Han Kang, alle proposte contenute in Flower Power, libro in cui la giornalista Alessandra Viola spiega la necessità di estendere alcuni diritti fondamentali anche al mondo vegetale per evitare la catastrofe ecologica.

    Dalle piante mitiche di Robert Graves alle sequoie di Tiziano Fratus, dalle metamorfosi descritte da Ovidio al romanzo arboreo Il sussurro del mondo di Richard Powers il passo è breve. E la camminata nei boschi narrativi celebrata da Umberto Eco sembra portare proprio qui, a Hortus Mirabilis, i cui racconti paiono stati scritti, con buona pace di Linneo, seguendo l’invito sovversivo della filosofa americana Donna Haraway: «Generare parentele nell’imprevedibilità della parentela». Sono l’ennesima connessione simbiontica di una ramificata fito-bibliografia che sta lentamente ma inesorabilmente portando le piante a colonizzarci – o meglio, infestarci –, ancora una volta.

    Aracnomagnolia

    Elisa Emiliani

    Il chiostro

    Alle amicizie che muoiono e rinascono

    Giorno 1, metà settembre, ancora caldo, nuovo lavoro

    Ho comprato una Moleskine dopo secoli e ho pensato di usarla per ricordare. L’ho presa in una cartoleria storica dove da ragazzina compravo pupazzetti da attaccare allo zaino di scuola.

    È strano essere tornata dopo tanti anni, qui è tutto piccolo, familiare e remoto. La notte c’è un silenzio spaventoso e di giorno quando giro per strada ho continuamente la sensazione di riconoscere vecchi compagni di classe, amici di famiglia, primi amori. Ma non ho parlato con nessuno, a parte il personale della scuola di musica.

    Oggi avevo la prima lezione, una bambina di undici anni così minuta che fa fatica a reggere il flauto, però ha talento, si vede subito. Credo che sia andata bene, perché si è iscritta per tutto l’anno.

    Avere un contratto a lungo termine, proprio qui dove ho imparato a suonare, è incredibile. Dopo il diploma al conservatorio, è il successo professionale più importante che abbia ottenuto. Ma non è per questo che ho comprato la Moleskine.

    Nadia, la stabilità economica ti ha già dato alla testa e non hai ancora ricevuto la prima busta paga.

    No, ho deciso di scrivere perché, anziché festeggiare come dovrei, non riesco a scrollarmi di dosso un senso di nostalgia e tristezza. Neanche con questa bottiglia di bianco quasi finita.

    Allora analizziamo. È successo qualcosa? No. Sto rimuginando su qualche commento maldestro che può avermi inimicato colleghi o segretarie il primo giorno di lavoro? No, sono stata stranamente composta, educata e adulta. E allora cos’è che non va?

    (Questa penna d’acciaio non si può mordicchiare).

    È qualcosa nel chiostro. Ce l’ho davanti agli occhi, appena oltre la parete giallo sole e la tenda dell’Ikea del mio nuovo salotto, traslucido stampato sulla retina e nella memoria, appena sotto la soglia della coscienza.

    (Dovrei alzarmi e far bollire l’acqua per una tisana; invece penso che finirò il vino).

    Il chiostro della scuola di musica è un angolo di giungla in centro città, nascosto dalle pareti scrostate di un edificio storico che nessuno ha i soldi per comprare o ristrutturare. Non si direbbe, passando per la strada, che dietro al portone rosso ci sia un giardino selvatico grande quanto un piccolo parco.

    Nel porticato si fanno i saggi estivi di musica, da sempre.

    Oggi prima della lezione ero lì per rilassarmi e notavo che, rispetto a vent’anni fa, le pareti sono più scalcinate, le palme hanno invaso metà del giardino e le passiflore hanno conquistato le grondaie. Non è un posto spiacevole, però. Non è sporco. Anzi, dà una sensazione di secco, polveroso ma pulito, luminoso. Gli accumuli di foglie secche ammorbidiscono lo stacco fra muri e selciato, creando una sorta di armonia con le erbacce che spaccano il cemento dei vialetti.

    Ho fatto il giro del portico, che nella parte opposta rispetto alla scuola di musica è ingombro di roba vecchia, sedie, un divano, cornici. Tutto accatastato. Ho fatto il giro e nell’angolo più remoto, quello che resta in ombra quasi tutto il tempo, c’era una pianta che non avevo mai visto. Non che sia un’esperta di botanica, non mi sono mai interessata al regno vegetale, quindi è perfettamente normale che non l’abbia riconosciuta. Quello che voglio dire è che non l’avevo mai vista lì, nel chiostro. Quindi deve essere cresciuta dopo che mi sono trasferita fuori città.

    Sarà perché sono single a trentacinque anni e dopo un decennio di precariato e ansia ho finalmente un buon contratto. Un miscuglio ingarbugliato di sollievo e solitudine. Dovrei prendere un gatto, adesso che me lo posso permettere. È la tensione che cala, è capitato anche a una mia amica, quando le hanno fatto il contratto a tempo indeterminato ha pianto come una bambina, mi ha detto. Quindi ora vai a dormire, Nadia, nella camera da letto del tuo bilocale arredato, e non ti stressare. Ti senti così perché ancora non ci credi, è tutta lì la tua inquietudine. Piano piano ti ci abituerai, riuscirai a credere di meritarlo, sì, proprio tu, grazie all’impegno e alla costanza e ai sacrifici.

    Giorno 2

    La mente umana non è fatta per ricordare i sogni, ma gli incubi sono un’altra storia.

    Erano un paio di settimane che era morto qualcuno di molto vicino a me. Chi, non saprei dirlo. Non era un piangere continuo, perché dopo due settimane non sarebbe più sostenibile. Ero calma, finché qualche piccolo dettaglio mi provocava singhiozzi incontrollabili. Non ho mai pianto tanto nel sonno.

    Oggi sono tornata alla scuola di musica. C’è un collega, insegnante di pianoforte, tecnica perfetta ed espressione anche, che potrebbe avermi guardata.

    Non so, al momento sono più per il gatto. In ogni caso non un musicista, mai un musicista. È già sufficiente dover accettare i miei, di fallimenti (l’audizione per l’orchestra sinfonica della rai è un incubo ricorrente molto peggiore di quello di stanotte).

    Dopo le lezioni sono andata nel chiostro a guardare la pianta. L’ho fatto anche se non volevo, nel senso che mi sembrava una cosa idiota e volevo provare a me stessa di essere più forte di una fissazione, ma è stato come quando non ti ricordi se hai chiuso la macchina o spento la luce.

    Così sono andata a guardare la pianta.

    A fine estate nel chiostro ci sono i gechi lungo i muri e i merli zampettano tra le foglie secche che nessuno raccoglie da almeno un paio d’anni. La pianta si erge sopra questo tappeto marrone cangiante di foglie cadute, carnose e lucide e che, attaccate alla pianta, sono di un verde intenso, oppure giallo cupo. Sembra che sia stata potata, in passato, perché i rami più bassi sono a un paio di metri d’altezza, ma che ultimamente sia cresciuta indisturbata, allungandosi fin sotto i portici, seguendo l’ombra più che il sole.

    Ero lì impalata quando ho notato che qualcosa mi stava solleticando la mano. Ho guardato bene e ho trovato un piccolo ragno che ci zampettava sopra.

    Non ho paura dei ragni – mai avuta, perché uccidono le zanzare e quindi li considero amici. Però ho visto che stava tessendo una tela, un filo sottile che arrivava alla mia mano, e su questo filo di ragnatela scivolavano decine di altri minuscoli ragni. Allora mi sono fatta prendere dall’agitazione, ho scosso la mano e ho fatto un salto indietro. Mi è venuto anche un brivido, ma non l’impulso di scappare.

    Mi sono riavvicinata e ho visto che il filo di ragnatela era ancora lì, e i ragni lo stavano risalendo. Alcuni erano caduti sull’asfalto del portico e stavano correndo verso il cortile, si tuffavano nel tappeto di foglie.

    Il filo scendeva da un fiore di quella pianta. Un grande fiore ovale, appena dischiuso, come una coppa. Blu notte e macchiato di bianco al centro, avvolto in un velo biancastro. È lì che tornavano i ragni.

    Foglia: colore verde cupo o giallo ocra; 15-20 centimetri di lunghezza, 5 di larghezza, forma affusolata, oleosa, rigida quando secca, lucida quando attaccata al ramo.

    Fiore: anche questo di forma affusolata, di colore blu scuro, con al centro una macchia bianca dai contorni frastagliati, che riverbera sui petali. Aperto sembra un fiore di loto, chiuso è fusiforme. Sempre, avvolto in una sottile ragnatela come tulle.

    Altezza della pianta: più alta dell’edificio, direi tra i 5 e i 7 metri.

    Giorno 3

    Sogno di cui ricordo solo una frase: «Gli alberi creano il vento». Tutto il resto è svanito. Deve avere delle radici profonde, questa frase, per essermi rimasta in testa. Ha un sentore d’infanzia ma non la so collocare con chiarezza.

    Vorrei andare a ballare in qualche posto affollato, appiccicata ad altri corpi, e scacciare i pensieri con le pulsazioni della goa minimale (piccolo guilty pleasure: tutti i musicisti classici, o insegnanti di musica classica, dovrebbero ballare la goa minimale). Ma in questa città c’è solo un disco pub per adolescenti. Così continuo a prendere appunti e a bere troppo vino.

    Di solito suonare aiuta, è una pratica meditativa oltre che il mio lavoro. Ma non ho voglia di suonare e non mi sento obbligata a farlo. Tanto non devo preparare nessun grande concerto, no?

    Ho cercato su Google i sintomi della depressione: di sicuro ho l’insonnia, la mancanza di desiderio sessuale credo sia dettata più che altro dall’istinto di sopravvivenza, dolori fisici non tanto ma perdita di energie un po’ sì. Però non ho difficoltà di concentrazione e il mio peso non è cambiato. Non credo di essere depressa. In ogni caso la depressione non spiegherebbe perché sono attratta da una pianta piena di ragni quando il solo pensarci mi fa venire voglia di piangere.

    Ecco, appunto. Forse è perché la scuola di musica mi ricorda Maria Sole. Perché non ho più avuto un’amica come lei. Eravamo bambine ma in effetti non ho davvero legato con nessun altro, dopo. Single e senza amici. Forse dovrei esserlo, depressa.

    Maria Sole suonava il pianoforte, ci eravamo conosciute a scuola di musica perché le nostre insegnanti volevano che preparassimo i saggi insieme. Lei aveva un anno meno di me, mi pare. Frequentavamo scuole diverse. Sole è stata la prima coetanea che non abbia odiato o disprezzato. Suonava meglio di me. Mi spronava costantemente e a me piaceva. Facevamo sempre questi giochi di fantasia in cui suonavamo insieme come soliste in giro per il mondo. Eravamo alle medie, quindi non li chiamavamo giochi, ma lo erano. Fingevamo di essere ospiti in un programma televisivo per parlare delle nostre composizioni.

    Era tutto molto patetico, ma la forza della sua convinzione teneva insieme quelle fantasie e io l’amavo, quindi le davo corda e proponevo a mia volta sempre nuovi giochi. Una volta avevamo una band e sfondavamo nel mondo del rock. Suonammo davvero qualche pezzo dei Jethro Tull, poi tornammo con sollievo alla musica classica. Qualche anno fa ho ripreso ad ascoltarli, i Jethro Tull. Non li ho mai più suonati, però.

    Poi ho finito le medie e mia madre ha trovato un lavoro a Milano, mio padre aspettava solo che dessi l’esame per completare il trasloco e raggiungerla. Sole si è ammalata. Non ricordo di cosa, ma lei aveva paura ed era stranissimo vederla così. Allora i giochi sono cambiati.

    Sole aveva perso interesse per la musica, preferiva leggere fumetti giapponesi o libri fantasy, e le storie che immaginavamo hanno iniziato a popolarsi di esseri fatati, demoni, mezzi demoni, armi magiche. Non ricordo per quanto sia andata avanti, ma ricordo quando è finita.

    (Versato un altro bicchiere di vino ma vorrei avere del rum. Mi tremano le mani, che di solito sono fermissime. Devo spingere sul foglio con la penna per riuscire a scrivere. Non è paura, è solo che non pensavo a queste cose da tanti di quegli anni che sembra un’altra vita e i ricordi emergono da un abisso come filamenti che compongono un disegno sfocato).

    Sole voleva giocare alla reincarnazione. Mi metteva a disagio, perché sapevo che era malata. Tanto a disagio che non ne parlavo con nessuno, perché sospettavo che sapendolo gli adulti avrebbero fatto qualcosa, anche se non sapevo cosa. Mi limitai a non andare più a dormire da lei. Superato l’esame di terza media me ne andai a Milano. Non ho ricordi di Sole dopo quella volta.

    Io dissi qualcosa di normale. Oddio, normale, qualcosa del tipo che mi volevo reincarnare in un gatto, o un altro animale che mi piaceva. Era la prima cosa che mi era venuta in mente, non significava nulla per me.

    Lei mi guardò serissima, disse che le sarebbe piaciuto reincarnarsi in una pianta e iniziò a descrivere una magnolia. Lo sapevo perché ce n’era una nel giardino di mia nonna. La magnolia di Sole però aveva i fiori blu macchiati di bianco, e dentro i fiori nascevano ragni.

    «Ma non esiste una pianta così!» le avevo detto.

    Lei aveva risposto qualcosa che mi aveva colpito molto. Ma non ricordo cosa. La mia immaginazione adulta mi spinge a ricordare: «Non ancora». Ma non credo che avesse detto davvero così. Sono troppo stanca, è tardi, ho freddo. Non mi ricordo.

    Giorno 7

    I genitori di Sole vivono ancora qui. Li ho trovati su Facebook, mi sono sentita un po’ stalker ma gli ho scritto. Si ricordano di me, sono felici che abbia continuato a suonare il flauto. Mi hanno scritto subito che Sole è mancata poco dopo la mia partenza per Milano.

    E con questo?, mi sono detta. Il fatto che sia morta non prova niente, ma per favore, non farmi ridere. Povera Sole. Io avevo già smesso di pensarci, quando è morta. Mi stavo trasferendo a Milano, avevo una nuova cameretta, un corso estivo di flauto, le vacanze e poi la nuova scuola. In questa nuova città c’era il liceo musicale. Forse a volte la sfioravo con la mente, come un ricordo d’infanzia troncato di netto.

    E adesso, il fatto che sia vero o no importa relativamente. Basta che possa essere vero, anche se fosse una possibilità su un milione. Si può negare che esista una possibilità su un milione che sia vero?

    Forse è ipocrita che Sole mi manchi adesso più di allora, perché adesso non ho amici e la sua memoria è così indifesa; posso immaginare qualunque cosa di lei, non si può opporre. Nella mia mente, Sole può essere tutto ciò di cui ho bisogno.

    Mi hanno invitato da loro, i suoi genitori, e ci sono andata. L’appartamento non è molto diverso da come lo ricordavo, se non per il fatto che i mobili una volta nuovi ora sono datati. Dalle finestre entra ancora una bella luce, però. Me la ricordo sempre luminosa, la casa di Sole. Anche nei pomeriggi d’inverno, quando fa buio alle cinque, c’erano lampade a piantana, lampadine appese alle librerie, abat-jour, candele profumate.

    Quello che non mi aspettavo, che mi ha colpito, è che avessero voglia di parlarne, smania persino. Come quando parlo dell’ultimo amante diventato ossessione con la nuova amica di circostanza, finché la poveretta non ne può più e io non vedo l’ora di incontrare qualcun altro per ricominciare a parlarne daccapo. Certo, non è la stessa cosa, ma la smania mi è sembrata simile.

    Me ne sono andata con la sensazione di aver fatto del bene, ascoltandoli.

    Non ho detto niente della pianta. Ho pensato che una possibilità su un milione non fosse abbastanza.

    Giorno 15 (credo), inizio ottobre, giacca di pelle e stivali

    Non ero mai stata al museo di botanica. È molto curato, e il giardino è un gioiello. Ci sono andata pensando di imparare qualcosa sul regno vegetale dopo qualche ricerca piuttosto frustrante su Wikipedia. Sono stata anche in libreria, senza sapere davvero cosa cercare. Ho preso un libro su reincarnazione e metempsicosi. Ho l’impressione che la commessa mi abbia guardato storto, ma non mi sono giustificata (sto migliorando sul controllo degli impulsi). Pare che reincarnarsi in un animale o in una pianta sia una specie di punizione per una vita peccaminosa, ma non è il caso di Sole. Non ne ha neanche avuto il tempo. Mi chiedo come sarebbe rincontrarla qui, se fosse viva, in età adulta.

    Per un po’ mi sono aggirata nel giardino del museo, poi sono entrata, ho letto tutte le didascalie sulle teche, fatto incetta di opuscoli di ogni tipo, finché non ho involontariamente attirato l’attenzione del curatore.

    No, non è vecchio, e sì, è carino. Forse un piccolo museo di provincia può avere un curatore giovane e carino. Si chiama Roberto Malpezzi, ha degli occhiali con la montatura nera grossa, capelli castani ricci, un corpo asciutto e un abbigliamento sportivo. Quando non lavora fa escursioni, anche in grotta. Delle piante sa quasi tutto, ha una laurea in Scienze naturali e ha scritto una tesi di botanica di cui non ho capito nulla.

    Tutto questo me lo raccontava mentre io lo guardavo (spero non a bocca aperta) con una dozzina di opuscoli in mano e gli occhi probabilmente sgranati.

    «Di dove sei?» mi chiede lui. «Non hai un accento romagnolo».

    Devo aver balbettato qualcosa sul vivere fuori per parecchi anni.

    Per la prima volta nella mia vita le cose sono andate lisce e, come senza sforzo, seguendo una volontà comune, alla fine del suo turno ci siamo incontrati in una caffetteria poco distante.

    Il caffè è poi diventato un bicchiere di Porto, e quasi mi dimenticavo perché fossi lì. Mi piace questo Roberto, non credevo che qualcuno potesse piacermi di nuovo così, è stata una bella sensazione.

    «Nel chiostro della scuola di musica c’è una pianta», gli dico a un certo punto, perché mi sembra che la conversazione languisca e non voglio che succeda. Lo scopo della mia visita al museo sembra distante, ora, ma lui si blocca con una pizzetta a metà strada tra il tavolino e la bocca.

    «Una pianta che non ho mai visto», continuo, «anche se non me ne intendo».

    Lui rimette la pizzetta nel piatto. «Per questo sei venuta al museo».

    «Beh, sì». Sono imbarazzata, anche se non capisco perché. Sto arrossendo, ne sono sicura. Odio arrossire.

    «Ho capito a cosa ti riferisci, fiori blu in cui crescono ragni, vero?»

    Io annuisco.

    «Per quanto ne so è un esemplare unico», dice lui. «C’è stato un periodo in cui m’incuriosiva parecchio. Ho anche proposto un progetto di ricerca in università, ma a quanto pare la facoltà non è interessata a varietà minori di Magnoliacee».

    «In che senso?»

    «Ci sono ricerche più interessanti da finanziare, pubblicabili, con un impatto di qualche tipo. Non lo so, non ho mai capito le logiche dietro alle borse di ricerca. Sarà per questo che non ne ho mai vinta una».

    «E il museo? Non finanzierebbe la ricerca?»

    Lui mi guarda, ha un bel sorriso, un po’ imbarazzato. «Il museo ha a malapena i soldi per pagare il mio stipendio. Che non è astronomico, ti assicuro».

    «Ah. Anche il mio. Non è astronomico, voglio dire».

    Ridacchiamo e finiamo il Porto. Ne berrei un altro, e lo berrei con lui, ma vorrei che la decisione fosse sua, ho paura di impormi, per una volta che trovo una persona carina non voglio che pensi che sono appiccicosa, terribilmente sola nonché una concertista fallita e pure sovrappeso. Brutta, grassa e fallita.

    Passa la cameriera, lui mi guarda, io annuisco, lui ordina il secondo giro.

    «Ho provato a prelevare i semi e piantarli altrove. Non lo dire in giro, ma ho provato anche col giardino botanico del museo. Niente, non hanno attecchito. Ho provato con le talee, niente».

    «Secondo te quanto è vecchia, la pianta?»

    «Non molto. Credo abbia circa venti, venticinque anni. Come mai ti interessa? Voglio dire, di solito alla gente non importa molto delle piante in generale».

    «No, niente. Era così, per parlare».

    Lui mi guarda in modo strano, io mi nascondo dietro il calice di Porto.

    Abbiamo continuato a chiacchierare, ci siamo scambiati i numeri di telefono. Sono tornata a casa. Adesso scrivo tutto sul diario come un’adolescente. Ma che ti devo dire. Ho paura di dimenticarmi, altrimenti. Certo che, Sole, potevi scegliere una pianta più bellina.

    Giorno 30 (circa), metà ottobre, casa, felpa e tisana

    È solo un mese e la mia identità sta già cambiando. Non credevo che sarebbe successo così in fretta. Lavoro, appartamento. Sto frequentando Roberto, siamo andati a cena un paio di volte. Mi sento terribilmente adulta. Mio padre diceva che nessuno diventa mai davvero adulto. Beh, a me sembra di sì, invece. Se non fosse per la pianta: quella è l’unica cosa che ancora non quadra.

    Sto vivendo questa vita perfetta e penso che invece Sole è bloccata in un chiostro. Sì, me ne rendo conto. È ridicolo, ma anche triste. E non grottesco, quello no. Forse ha voluto diventare una pianta per affondare le radici nella terra. L’ho pensato l’altro giorno, allora sono andata in un negozio di cristalli, incensi, statue del Buddha (capito la tipologia?) e ho preso delle pietre di amazzonite, di un bel verde acqua con delle venature più scure.

    Adesso la sera fa buio abbastanza presto, così quando ho finito con le lezioni sono passata dal cortile anziché dall’uscita principale. Nel chiostro non c’era nessuno, tirava un po’ di vento che agitava le chiome degli alberi più alti. Mi sono infilata sotto la pianta e ho scavato dei piccoli buchi attorno alle radici per seppellirci i cristalli. La ragazza del negozio ha detto che l’amazzonite armonizza il quarto e il quinto chakra, dovrebbe servire a favorire la comunicazione empatica. Non so se sia vero, comunque ho piazzato i cristalli e mi sono allontanata un attimo, sedendomi nella parte del portico più vicina al tronco.

    Era quasi buio, quindi non ne posso essere sicura, ma ho avuto l’impressione che dalle foglie calassero ragnatele sottilissime e che tanti minuscoli ragni andassero a controllare. Senza suoni, né odori, quasi invisibili, eppure sapevo che stavano scendendo dalla pianta.

    «Sole?» ho provato a chiamare. La mia voce è entrata roca nel silenzio, sgraziata. Mi è scappato un risolino d’imbarazzo. Posso sempre dire che sto chiamando un gatto, ho pensato. «Sole», ho detto sottovoce. «Sono io, Nadia».

    La scuola di musica ormai aveva chiuso da un pezzo, vedevo le luci che si spegnevano anche in segreteria e pian piano non ci furono altri suoni che quelli dei merli tra le foglie secche. Era buio, ma non freddo, ed ero da sola nel chiostro. L’edificio era deserto. Il cielo si vedeva appena, oltre le fronde, ma sembrava limpido e pieno di stelle quanto lo può essere un cielo in città.

    Ho preso il flauto, l’ho montato senza neanche accorgermene e ho iniziato a suonare. Piano, note basse, una delle ballate che facevamo insieme, Sole e io, tanti anni fa.

    Mese 2, novembre, tutto impastato di nebbia

    Stanotte mi sono svegliata di soprassalto, mi battevano i denti e avevo dei brividi profondi. Non mi ricordo come sia successo, ma ero abbracciata al tronco della pianta. Mi sono alzata con la schiena accartocciata e dei braccialetti di ragnatela ai polsi. Sono saltata via dal tronco fin sotto il portico. Ero immobile

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