Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Giallo siciliano
Giallo siciliano
Giallo siciliano
E-book374 pagine7 ore

Giallo siciliano

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Narrativa - racconti (295 pagine) - Quindici racconti gialli ambientati negli scenari mozzafiato della Sicilia, scritti da quindici autori siciliani doc. Fra delitti, indagini e misteri, il lettore potrà compiere uno straordinario viaggio alla scoperta dei profumi più penetranti della Sicilia...


Quindici autori, tutti siciliani doc a cui abbiamo fatto il test del DNA, in questa antologia danno vita a quindici racconti gialli ambientati tra i faraglioni di Aci Trezza e la Siracusa di Cicerone, tra il barocco della Val di Noto e il Cassaro di Palermo, tra il mar delle Eolie e i calanchi gessosi del Platani, tra il “Bellini” di Catania e le vanedde dei paesini, tra le anse dell’Anapo e la Valle di Pantalica, per raccontare una terra solare e complicatissima, la Sicilia, e per raccontarsi. Un viaggio alla scoperta dei profumi più penetranti dell’isola, tra luoghi noti e meno noti, accompagnati da personaggi di carta che si vorrebbe conoscere davvero, fosse solo per gustare un rosolio al ficodindia o vedere il mare di Polifemo incendiarsi al tramonto, tra barche tirate a secco e rezze abbandonate sulla rena infuocata.


Roberto Mistretta: vincitore della 40° edizione del Premio Alberto Tedeschi Giallo Mondadori con La profezia degli incappucciati, primo siciliano ad aggiudicarsi tale riconoscimento, vive e lavora a Mussomeli (Cl), la Villabosco dei suoi romanzi.

Laureato in Giornalismo, scrive per il quotidiano La Sicilia. Ha curato l’inchiesta sul Giallo siciliano con interviste a Santo Piazzese, Gaetano Savatteri, Domenico Cacopardo, Andrea Camilleri e altri autori.

È autore del radiodramma Onkel Binnu sulla cattura di Bernardo Provenzano, trasmesso con successo dalla WDR di Colonia.

È autore dei volumi: Giudici di frontiera, con prefazione di Giancarlo De Cataldo; Il miracolo di don Puglisi; Rosario Livatino: l’uomo, il giudice, il credente.

È autore della serie del maresciallo Saverio Bonanno tradotta con successo in Austria, Germania e Svizzera. Con Todaro ha pubblicato il romanzo Sordide note infernali; Già autore Cairo, con Frilli Editori ha pubblicato: Il maresciallo Bonanno/Un’indagine siciliana; Il canto dell’upupa e Il bacio della mantide.

LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2022
ISBN9788825420425
Giallo siciliano

Leggi altro di Roberto Mistretta

Correlato a Giallo siciliano

Ebook correlati

Gialli per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Giallo siciliano

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Giallo siciliano - Roberto Mistretta

    Introduzione

    Roberto Mistretta

    Voi siculi state spaccando. E se si facesse un’antologia di racconti gialli ambientati in Sicilia, con protagonisti siciliani e autori siculi?

    Una proposta nata per caso. Ma si sa che le migliori idee vengono fuori così.

    Era il 14 maggio e con Franco Forte, che di libri e di gialli se ne intende, commentavamo la pubblicazione sul Giallo Mondadori del racconto Le pietre sanno aspettare di Giorgio Lupo. Da poche settimane era stato anche reso noto il nome del vincitore del Premio Alberto Tedeschi 2021, un’altra siciliana doc, Maria Elisa Aloisi. Ed era prossimo ad arrivare in libreria un romanzo storico ambientato nella Ragusa degli anni ‘30, L’uranio di Mussolini, di cui è co-autore, con Franco Forte, il sicilianissimo Vincenzo Vizzini. Tutte opere che avevo letto in anteprima con partecipata goduria, diverse tra loro ma ambientate in Sicilia e con un colore dominante.

    E non poteva essere diversamente.

    A ben pensarci, infatti, da sempre nell’isola il giallo ha una valenza poliedrica che prescinde dai delitti di carta. Una valenza ricca di sfumature dispiegate nelle sue variegate tonalità, a cominciare da un pregiato marmo, il giallo di Sicilia, che dà calore a basiliche e residenze nobiliari, mentre profumi inebrianti e sapori decisi declinano nell’ambra di vini dai nomi evocativi, come Cerasuolo, Marzaiolo, Inzolia, Sciannacarau, che allietano il palato e sanno di terra e di sole. All’oro liquido invece hanno rubato corposità il profumatissimo olio d’oliva e l’incredibile miele di zagara. Oro che s’aggruma in sapide scaglie nello Scaluni, il caciocavallo ragusano, le cui origini risalgono al Cinquecento, o nel Picurinu sicano, cantato perfino da Omero. Ma proiettando appena lo sguardo nell’entroterra, dove si annidano vallate sinuose coronate da catene montuose, ci si ritrova inondati e travolti da un mare giallo di grano e di zolfo.

    Ex feudi e pirrere.

    Sul cobalto liquido delle coste, invece, svettano possenti colonne dorate e vestigia di civiltà del passato che risplendono nel tramonto e sublimano il senso d’accoglienza di una terra crocevia di popoli. Una terra dal cuore grande, la Sicilia, dove tra lo spumeggiare del mare di Ulisse e le fontane di lava del Mongibello, il colore dell’oro domina da sempre.

    Anche nella storia della letteratura gialla non si può trascendere dall’isola.

    Si deve infatti a Luigi Capuana quello che probabilmente è il primo romanzo del genere che prende abbrivio da un omicidio, Il marchese di Roccaverdina, pubblicato nel 1900 e ambientato nell’immaginaria Spaccaforno. E proprio in questa terra baciata dal sole ha avuto i natali nel 1892, ad Agrigento, Ezio D’Errico, il Simenon italiano letto ancora oggi, padre del commissario Emilio Richard, capo della Seconda Brigata Mobile della Surêté di Parigi.

    Qui è nato a Castrogiovanni (l’attuale Enna), nel 1921, il fecondo scrittore Franco Cannarozzo, che dietro suggerimento di Alberto Tedeschi, direttore della collana dei Gialli Mondadori, assunse lo pseudonimo di Franco Enna, padre del commissario Federico Sartori e vero precursore del giallo di provincia, ambientato nel paesaggio siciliano.

    E sorvolando sulle opere di Sciascia, che fanno caso a sé, a cominciare da Il giorno della civetta pubblicato nel 1961, nell’ultimo quarto di secolo il successo planetario del commissario Montalbano di Camilleri ha fatto assurgere l’isola a location privilegiata per il giallo d’autore. Davvero affollato è diventato quindi nel tempo l’elenco di autori che si sono dedicati al romanzo con crimini da risolvere e malacarne da scovare. Talmente vasto che correremmo il rischio di scordare qualcuno. Proprio per non fare torti citiamo per tutti un autore sui generis che non abbisogna di presentazioni, Gesualdo Bufalino, Premio Strega 1988 con le Menzogne della notte, che alla bella età di 71 anni diede alle stampe un giallo metafisico spiazzante già dal titolo: Qui pro quo.

    Dopo avere sorpreso il mondo letterario con Dicerie dell’untore (Premio Campiello nel 1981, ma anche all’origine di tale tardivo esordio si nasconde un piccolo giallo con protagonista la lungimiranza di Sciascia e di Elvira Sellerio e la loro leggendaria scommessa), lo scrittore di Comiso si divertì a stravolgere le regole del giallo canonico. Qui pro quo, infatti, è un divertissement, narrato con l’inconfondibile cifra stilistica di un autore che ha lasciato le sue orme impresse a fondo nella narrativa mondiale made in Sicily, un giallo dove la fa da padrone la pantomima degli equivoci, seppure si agganci alla tradizione classica del poliziesco e non manchino un delitto da risolvere con le indagini e i depistaggi.

    Gialli siculi, dunque, nel solco di una solida tradizione sdoganata a livelli altissimi, per raccontare antropologicamente un modo di essere, di pensare e di intendersi a cenni.

    Di un popolo, di una terra, di un’isola unica nel suo genere.

    Quindici autori, tutti siciliani doc, in questa antologia danno vita a quindici racconti ambientati tra i faraglioni di Aci Trezza e la Siracusa di Cicerone, tra il barocco del Val di Noto e il Cassaro di Palermo, tra il mar delle Eolie e i calanchi gessosi del Platani, tra il Bellini di Catania e le vanedde dei paesini, tra le anse dell’Anapo e gli ipogei di Termini Imerese, per raccontarsi e raccontare una terra solare e complicatissima, la Sicilia. Un viaggio alla scoperta dei profumi più penetranti dell’isola, tra luoghi noti e meno noti, accompagnati da personaggi di carta che si vorrebbe conoscere davvero, fosse solo per gustare un rosolio al ficodindia o vedere il mare di Polifemo incendiarsi al tramonto, tra barche tirate a secco e rezze abbandonate sulla rena infuocata.

    Buona lettura, dunque. Anzi, buon viaggio nella terra del sole.

    Roberto Mistretta

    Villa Scabrosa

    Maria Elisa Aloisi

    Maria Elisa Aloisi, nata a Lentini (Sr), è un avvocato penalista. Vive a Catania con il marito e i suoi tre pastori tedeschi. È vincitrice del Premio Tedeschi del Giallo Mondadori 2021 con Il canto della falena. Col romanzo d’esordio Fiutando il vento, edito da Tralerighe Libri, è vincitrice del Premio Letterario il Borgo Italiano (2019), sezione romanzo inedito, e del Premio Tettuccio di Montecatini Terme (2020), sezione romanzo edito. Insieme al suo cane Argo cura una rubrica di libri per Il Giornale delle Buone Notizie e collabora come redattrice per Mangialibri e Thrillernord.

    Da principio non era chiamata così. Si chiamava Villa Lava.

    Sua eccellenza Don Ignazio aveva voluto che sorgesse sulla sciara per dimenticare per sempre la devastante eruzione del secolo precedente e il successivo terremoto che avevano distrutto Catania. Aveva deciso che dovesse rappresentare il simbolo della tenacia, del coraggio, della voglia caparbia di rinascita e per questo Villa Lava doveva risorgere dalle ceneri della città.

    Era circondata da un magnifico parco e da viali delimitati da file di cipressi; i giardini profumavano dei fiori più belli del Mediterraneo ed erano colorati da piante esotiche fatte arrivare dall’Oriente; ovunque c’erano cascate e giochi d’acqua. Don Ignazio aveva perfino fatto deviare il corso del fiume Amenano per creare laghetti popolati da pesci variopinti e da uccelli acquatici che volavano sotto archi di lava e dedali di grotticelle.

    Sua Eccellenza ci ospitava a Villa Lava tutte le estati. Io e mia cugina Ludovica non vedevamo l’ora che arrivasse la bella stagione e sognavamo per tutto l’inverno le passeggiate al Laberinto e i balli e la musica della Marina di Catania.

    Orfana fin da bambina, ero stata accolta in casa di mio zio, il Conte Calderà. Con sua figlia, Ludovica, eravamo cresciute come sorelle. Ero la maggiore tra le due, più grande di un paio d’anni. Anche lei aveva perso la madre e il reciproco affetto cercava di colmare quei nostri lutti irreparabili.

    Alla Villa ci attendeva Vincenzo Tornabene, il pupillo di sua Eccellenza Don Ignazio; anche lui, finite le lezioni al Convitto Cutelli, il collegio per i giovani nobili dove studiava durante l’anno, faceva ritorno alla residenza estiva.

    I giardini di Villa Lava allora diventavano luoghi misteriosi da esplorare e le settimane trascorrevano veloci, tra gite in barca e passeggiate a cavallo.

    Noi tre eravamo inseparabili. Uniti fin dall’infanzia, senza quasi rendercene conto, eravamo diventati adulti: lui un giovane dal brillante futuro, noi ragazze da marito con cuore e testa pieni di sogni. Così, in un continuo ripetersi di giochi, di mesi, di stagioni, di fantasticherie, ci eravamo ritrovati anche quell’anno e, come in un eterno ritorno, sedevamo in riva al lago all’ora di merenda.

    L’aria era carica del profumo dell’oleandro e dei gelsomini d’Arabia e ci fiaccava il caldo di un pomeriggio afoso. Vincenzo suonava il marranzano e le sue note vibranti si confondevano con il frinire dei grilli e delle cicale. Quel marranzano lo aveva visto in mano al garzone della tenuta della Varanna, venuto alla villa insieme al fattore per portare la frutta e i prodotti degli orti quando, aspettando che il massaro finisse le sue incombenze, si era seduto a cavalcioni su un muretto a secco in giardino e aveva iniziato a pizzicarlo. Vincenzo, incuriosito, si era avvicinato e dopo un po’ gli aveva chiesto di lasciarglielo provare. Il ragazzo lo aveva accontentato e, andandosene, glielo aveva perfino regalato. Vincenzo non se ne separava mai.

    – Smettila di suonare quel coso – lo rimproverò a un tratto Ludovica, insofferente. – Ha un suono ossessivo. Diglielo anche tu, Anna.

    Alzò gli occhi al cielo e sbuffò, mentre sistemava un boccolo ribelle della parrucca.

    Lui sorrise imbarazzato e lo ripose in tasca.

    – Non badarle, Vincenzo – dissi. – Oggi Ludovica è di cattivo umore. Io invece trovo che il suono sia davvero gradevole.

    Nessuno dei due però, distratti dall’arrivo di Mariolina, badò alle mie parole.

    La donna, che nella villa svolgeva il ruolo di governante, arrivava scortata da un bel giovanotto che reggeva un vassoio di paste di mandorla appena sfornate, delle quali Vincenzo era ghiotto. Mariolina, che lo sapeva, non gliele faceva mancare mai. Io e Ludovica invece preferivamo altri dolci ma, quando li preparava, ci divertivamo a darle una mano in cucina.

    Mentre Vincenzo assaggiava quelle golosità, Mariolina ci presentò il ragazzo.

    – Signorini, questo è mio figlio Antonio. È venuto a trovarmi per festeggiare la sua patente di sensale di agrumi – disse con fierezza.

    Mariolina traboccava di orgoglio per quel figlio e in più occasioni avevamo avuto modo di sentirla parlare di lui.

    – Sabbinirica – salutò Antonio Tripi e, dopo aver posato il vassoio per terra, per nulla intimidito dal nostro rango, infilò i pollici nelle tasche del panciotto di tela e ci fissò con insolenza. Notai che mia cugina ricambiava il suo sguardo, sfrontata e con strani occhi da predatrice. Ne fui contrariata: non mi piaceva che desse confidenza a quel ragazzo spocchioso e mi riproposi di farglielo notare. Ma poi, distratta da altro, me ne dimenticai.

    Me ne rammentai però qualche mese dopo. Ludovica stava poco bene e io andai a cercarla nelle sue stanze. La trovai immersa nella lettura di un romanzo di Madeleine de Scudery. Non approvavo letture tanto frivole, ma feci finta di nulla. Avevo preso in cucina una bella arancia, il suo frutto preferito, sperando che le venisse un po’ di appetito.

    – Se indovini quanti spicchi ha, si avvererà un tuo desiderio – le dissi porgendogliela.

    La prese tra le mani, poi chiuse gli occhi.

    – Dodici! – esclamò.

    – Vediamo se ci hai azzeccato – le risposi stando allo scherzo e iniziando a sbucciare il frutto.

    Ludovica aveva indovinato. Scoppiò a ridere, quando glielo dissi. Poi abbassando la voce mi confidò: – Voglio Antonio Tripi.

    – Spero tu stia scherzando – dissi tornando seria. Lei fece spallucce e cambiò discorso.

    – Facciamo un gioco – propose.

    Si affacciò sulla verandina della camera e mi indicò un grosso vaso nel quale era stato piantato un alberello di limoni. Si chinò a esaminare il terriccio: – Qui c’è spazio sufficiente, piantiamoci una fava ciascuno – disse.

    La guardai incuriosita, non capivo la ragione di quella proposta. Lei fece un risolino malizioso: – È un gioco, me l’ha insegnato Santa, la nuova cameriera. Dice che se una ragazza da marito pianta una fava e dopo due, al massimo tre settimane, spunta un germoglio, entro l’anno troverà marito. Dai, vai giù in dispensa e prendine un paio.

    Risi, ma per distrarla l’assecondai.

    Così piantammo una fava ciascuno. Solo la fava di Ludovica germogliò e il giugno successivo mia cugina andò in sposa, ma certo non ad Antonio Tripi.

    A nulla erano valse le sue rimostranze per un matrimonio non voluto, le lacrime, le minacce di uccidersi, di farsi suora. Così era stato stabilito e non le era rimasto che chinare il capo e ubbidire.

    Salì sulla carrozza che doveva portarla in chiesa. Simile a una sonnambula si sedette sulla destra, come voleva la consuetudine; la zia Tina, la sorella del padre, alla sua sinistra, al posto che sarebbe toccato alla buonanima di sua madre. Io le sedevo di fronte.

    Ludovica per l’occasione indossava un giubbetto di raso a maniche larghe sopra una gonna celeste decorata con dei nastri sull’orlo. Il capo era coperto da un velo bianco, finemente ricamato, trattenuto da una ghirlanda di zagara.

    Era la sposa più incantevole che si fosse mai vista a Catania e la più disperata.

    Le altre carrozze seguivano la nostra. Erano rilucenti di dorature e chiuse da tende di velluto pregiato. Sulla serpa sedevano i cocchieri in livrea e dietro la cupola stavano dritti i lacchè. Andavano per prime quelle che trasportavano le donne, in ordine a seconda del grado di parentela, e a seguire quelle degli uomini.

    Quando la nostra carrozza si fermò davanti alla cattedrale, Ludovica mi afferrò la mano e mi guardò con occhi febbricitanti.

    – Anna – sussurrò.

    Non potevo fare nulla per lei.

    – Vai – le risposi ricambiando la stretta – lui ti attende.

    Lei varcò la soglia della chiesa al braccio di suo padre e percorse la navata centrale con lo sguardo basso e il passo lento di chi si reca al patibolo, mentre dalle canne dell’organo nella cantoria si alzavano le note di una marcia nuziale. Giunta all’altare, con il volto terreo, tese la mano tremante a Vincenzo Tornabene, che la stava aspettando.

    Presi posto accanto a mio zio, il Conte Calderà. Più in là riconobbi Consalvo Tornabene, il fratello cadetto di Vincenzo. Lui non frequentava mai la nostra compagnia e lo avevo visto di rado. Era un giovane irrequieto, noto per la disdicevole condotta e per le scorribande notturne nelle bettole più malfamate di Catania. Correva voce che, a breve, avrebbe dovuto prendere i voti, dal momento che suo fratello, in qualità di primogenito, aveva ereditato tutto il patrimonio di famiglia. Immaginai fosse quello il motivo del suo volto adombrato, inappropriato in quel clima di festa.

    Durante la cerimonia, gli sposi secondo la tradizione tenevano in mano un cero. Il sagrestano, finito il rito, li prendeva per spegnerli entrambi con un soffio. Il momento era molto atteso perché una superstizione voleva che se una delle due candele si fosse spenta per prima, sarebbe stato un presagio di morte per uno degli sposi.

    Quel giorno, prima che la benedizione fosse compiuta, il cero stretto tra le dita affusolate di Vincenzo si spense. Così, all’improvviso, senza che un solo alito di vento potesse giustificare l’accaduto.

    Un mormorio di sgomento serpeggiò tra le navate della chiesa.

    – Fora malocchio, intra Maria – sentii sussurrare alle mie spalle. –Fora malocchio, intra Maria.

    Mi voltai d’istinto e in quel momento credetti di vedere Antonio Tripi che lasciava la chiesa.

    I festeggiamenti della sera e dei giorni successivi però spazzarono via ogni inquietudine.

    Gli sposi avrebbero trascorso il resto dell’estate a Villa Lava e anch’io ero stata invitata a restare.

    Ludovica sembrava essersi rassegnata. Vincenzo con lei era molto paziente e le riservava mille attenzioni.

    Una notte, all’inizio di luglio, un paio d’ore dopo l’Ave Maria, il ronzio delle zanzare e il caldo appiccicoso di scirocco mi tenevano insonne. Alla fine, spazientita, scalciai via le lenzuola e mi alzai. L’arsura mi bruciava la gola, avevo bisogno di qualcosa di dissetante. Accesi una candela e, badando a non fare rumore, scesi scalza al piano di sotto ma, arrivata nei pressi delle cucine, mi bloccai: il bagliore di una candela filtrava attraverso lo spiraglio dell’uscio rimasto accostato. Doveva esserci qualcuno all’interno, perché Mariolina, prima di ritirarsi nella sua camera, badava che tutti i lumi fossero spenti. Temetti che il servo avesse dimenticato di sprangare il portone che dava sul giardino e che dei ladri si fossero introdotti nell’abitazione. Pensai di gridare, di chiedere aiuto, o forse sarebbe stato più saggio tornare in camera e serrarmi all’interno. Tesi l’orecchio: si udivano strani rumori. La curiosità allora prevalse sulla paura. Soffiai sulla candela e piombai nel buio. Il corridoio era rischiarato dal riflesso algido della luna che penetrava dalle vetrate, attenuando l’oscurità. Aspettai qualche istante affinché gli occhi si abituassero alla penombra. Mi avvicinai e spiai attraverso la fessura: Ludovica stava reclinata sul tavolo e ansimava, la camicia da notte alzata sulle natiche mentre Antonio Tripi la possedeva da dietro.

    Mi ritrassi bruscamente contro il muro, facendomi il segno della croce. Mi morsi le labbra per trattenere un urlo di dolore: nel tirarmi indietro avevo fatto oscillare la candela e della cera bollente mi era caduta sul dorso nudo del piede.

    Attesi che il respiro e il battito ritornassero regolari e, con la mente in tumulto, feci ritorno nella mia camera, attenta a non fare rumore.

    Sapevo che l’indomani avrei dovuto affrontare mia cugina. Avrei dovuto dirle che sapevo della sua tresca con Tripi, che esigevo che lei chiudesse quella relazione ignobile, altrimenti sarei stata costretta a informare suo padre. Sì, avrei dovuto svergognarla, violare il suo onore, ma forse così le avrei risparmiato la vita.

    Invece tacqui e mi nascosi dietro un silenzio complice e vigliacco.

    Nei giorni successivi restai spesso in disparte, cercavo di evitarla perché non riuscivo a sopportarne lo sguardo.

    Un sabato mattina, però, scesi come di consueto nelle cucine: era il giorno della settimana in cui si preparavano i dolci e non volevo mancare. Ludovica era già all’opera insieme a Mariolina, bisbigliavano tra loro, sembravano confabulare qualcosa. L’atteggiamento era intimo e me ne indignai. Mi schiarii la gola e salutai per palesare la mia presenza, ma mi risposero a stento. Malgrado ciò volli insistere, mi avvicinai e iniziai a darmi da fare, ma ribollivo: dare confidenza a quel modo a una domestica, la madre del proprio amante! Mia cugina doveva essere impazzita e temetti che il resto della servitù iniziasse a mormorare. Disgustata, dopo un po’ uscii dalla stanza, in silenzio. Loro, prese dalle chiacchiere, non se ne accorsero neanche.

    Poi giunse quel terribile pomeriggio.

    Eravamo sedute all’ombra di una pergola di glicine in terrazza. Da qualche settimana soggiornava alla villa Consalvo Tornabene. A settembre sarebbe entrato come novizio al monastero dei Benedettini e suo fratello lo aveva invitato per trascorrere insieme un po’ di tempo prima che prendesse i voti. In attesa che Mariolina facesse portare la limonata e le solite paste, mia cugina, Consalvo e io giocavamo a carte, mentre Vincenzo leggeva distrattamente un libro.

    Quando la cameriera arrivò con bevande e dolci su un vassoio d’argento, Ludovica, dopo averla congedata, iniziò a servirci.

    Vincenzo, senza alzare lo sguardo dalla pagina, prese il bicchiere che sua moglie gli porgeva, bevve un sorso, lo poggiò sul tavolo. A tentoni afferrò una pasta di mandorla dal piattino dei dolci, le diede un morso e lentamente finì di mangiarla. Portò il tovagliolo alla bocca e lo premette sulle labbra per pulirle dalle briciole, poi bevve ancora.

    – Un’altra pasta? – gli domandò Ludovica.

    – Sì, grazie. Ne prenderò ancora una.

    Osservavo mia cugina comportarsi da moglie devota e disprezzavo la sua ipocrisia, ma feci ancora una volta finta di nulla. Terminata la limonata, Consalvo iniziò a rimescolare le carte e a dividerle.

    – Sembrano irresistibili, dall’aspetto – disse riferendosi alle paste. – A causa della mia malattia, come sapete, non posso nemmeno assaggiarle.

    – Vedrai, stasera ti consolerai con il timballo – scherzai.

    – Sfortunatamente non potrò esagerare neanche con quello. – Sospirò e rivolse uno sguardo invidioso verso suo fratello, che continuava a mangiare indifferente.

    Nel frattempo, Ludovica era tornata a sedersi, cercava un po’ di frescura muovendo l’aria ferma con il ventaglio. Prese le carte e, dopo averle guardate, le poggiò soddisfatta sul tavolo.

    – Tocca a te – mi invitò.

    Probabilmente pensava di avere una buona mano, ma mi aveva sottovalutata.

    Stavo per aggiudicarmi la partita quando Vincenzo cominciò a tossire.

    – Bevi un po’ di tè, ti sarà andata di traverso qualche briciola – gli suggerii.

    Non mi rispose, ma emise un rantolo strozzato. Poi si aggrappò alla tovaglia rovesciando vassoio, boccale e bicchieri e si raggomitolò per terra in preda agli spasmi.

    Mi alzai allarmata per correre in suo aiuto, mi chinai su di lui e mi accorsi che il viso era cianotico.

    – Vincenzo! – urlai. Ludovica e Consalvo intanto erano balzati in piedi. Mi girai verso di loro: – Chiamate aiuto!

    Vincenzo, boccheggiante, rimaneva piegato su se stesso. Una tosse violenta e profonda gli squassava il petto. Gli occhi sembravano usciti dalle orbite. Iniziò a schiumare sangue dalla bocca e dal naso e si accasciò sul fianco, mentre il corpo si contorceva, percorso da convulsioni che da forti diventarono man mano meno frequenti, finché rimase immobile.

    Solo allora avvertii la presenza di Consalvo accanto a me.

    – Che fai ancora qui? – gli dissi esasperata. – Avevo detto di chiamare aiuto.

    Non mi degnò di risposta, si abbassò sul fratello e gli tastò il polso.

    – Non serve. Ormai è morto. Chiamate padre Paolo – disse – che porti l’olio santo.

    Qualcuno lo aveva avvelenato. Biscotti al cianuro, decretò il medico, avendone riconosciuto subito il tipico odore e confermando l’ipotesi dopo averli esaminati accuratamente.

    Chi era stato? Chi aveva ucciso Vincenzo?

    Antonio per eliminare il suo rivale?

    O forse era stata Ludovica?

    Sì, doveva essere stata lei per togliersi di torno quel marito scomodo, solo così avrebbe potuto soddisfare meglio le sue bramosie.

    O forse erano stati tutti e due insieme? Impossibile stabilirlo, ma dal momento che il sospetto costituisce un frammento di prova, io li accusai entrambi, denunciando non solo il veneficio, ma anche l’adulterio.

    Il giorno del giudizio era arrivato. Il presidente fece portare gli imputati nell’aula delle Assise.

    Ludovica, sebbene fosse pallida, teneva la testa alta e il busto eretto, ostinata nella sua alterigia, ma appariva evidente che i giorni di prigionia dovevano averla sfinita. Il viso di Antonio Tripi non mostrava più l’antica spavalderia, cancellata dal trattamento subito dai suoi carcerieri per estorcergli la verità.

    Mariolina sedeva su una panca di legno tra il pubblico, teneva il capo chino, coperto da uno scialle nero chiuso sul petto. Tra le mani aveva un rosario e andava mormorando una giaculatoria.

    – Come vi dichiarate? – domandò il giudice.

    – Non colpevole – risposero uno per volta.

    Il magistrato, sistematasi la toga sulle spalle, disse: – Signori della giuria, gli imputati sono incriminati per aver avvelenato il barone Vincenzo Tornabene il giorno quattordici luglio, in Catania. Rispetto all’accusa si sono dichiarati innocenti. Ora è vostro dovere giungere al verdetto. Parola alle parti.

    Il pubblico accusatore a quel punto si alzò in piedi e si rivolse all’auditorio: – Siamo davanti a un caso di omicidio. La baronessa Ludovica Tornabene, moglie adultera, in combutta con il suo amante, Antonio Tripi, ha assassinato il barone per eliminare un marito ingombrante e poter godere indisturbata dei suoi possedimenti. Questo è il movente e i fatti, come udirete per bocca dei testimoni, sono incontrovertibili.

    Invitata dunque a sedere al banco per deporre, dietro richiesta del giudice alzai la mano e, guardando il crocifisso, con voce ferma pronunciai la formula di rito: – Giuro davanti a Dio e agli uomini di dire la verità.

    – Confermate le vostre dichiarazioni precedenti? – mi domandò il magistrato dell’accusa.

    Rivolsi uno sguardo a mia cugina. Adesso il bel volto di Ludovica era segnato da una nuova ruga e gli occhi, un tempo vividi e neri, erano supplicanti. Ogni traccia di orgoglio era stata cancellata dalla paura.

    – Sì. Confermo ogni parola – dissi.

    – Cosa vedeste la notte dell’uno luglio scorso quando scendeste nelle cucine?

    – Mia cugina, la baronessa Tornabene, consumava un amplesso con Tripi.

    Un mormorio di sgomento risuonò tra la folla.

    – Silenzio – tuonò il presidente – o faccio sgomberare l’aula!

    – E cosa accadde nei giorni successivi? – continuò a domandare il pubblico accusatore.

    – La mattina del quattordici luglio, prima dell’orario di desinare, non trovai mia cugina nelle sue stanze. A volte si esercitava al pianoforte, a quell’ora, ma non sentii alcuna melodia provenire dalla camera della musica. A quel punto, la cercai nella biblioteca e poi nel parco, ma ancora niente. Pensai allora di trovarla nelle cucine, perché il sabato ci divertivamo a preparare i biscotti sotto il controllo di Mariolina, la nostra governante. Il quattordici luglio era per l’appunto un sabato e difatti è lì che la trovai.

    – Era da sola?

    – No, era insieme a Mariolina. Stavano già preparando l’occorrente per le paste e mi davano le spalle. Quando si accorsero della mia presenza, trasalirono. Mi scusai per averle spaventate, mi avvicinai e proposi di aiutarle.

    – Notaste qualcosa di strano?

    – Quando terminammo di preparare, vidi mia cugina trafficare con qualcosa. Avvedendosi che la stavo osservando, la nascose nelle tasche del grembiule. Lì per lì non ci badai più di tanto, perché fui distratta dall’odore dell’impasto.

    – Spiegatevi meglio, che odore aveva?

    – La pasta di mandorla aveva un profumo diverso dal solito, non era dolciastro, bensì odorava di mandorle amare, al punto che chiesi loro se avessero cambiato ricetta.

    – E cosa risposero?

    – Che no, si trattava della solita ricetta. A quel punto, incuriosita, cercai di assaggiare, ma mia cugina mi bloccò bruscamente: – Che fai? – mi rimproverò picchiandomi sulla mano con la quale avevo afferrato il cucchiaio: –Sono per Vincenzo. A te non piacciono le mandorle. – Poi, resasi conto che la sua reazione era stata eccessiva, mi prese a braccetto e mi trascinò fuori dalla stanza, dopo avermi proposto di fare una passeggiata lasciando che Mariolina finisse di preparare. Il giorno dopo l’omicidio, però, ripensai all’accaduto e mi domandai cosa avesse nascosto in tasca Ludovica; andai nelle sue stanze. Trovai una boccettina in un cassetto della toletta: era vuota ma odorava ancora di mandorle amare.

    – Dice il falso! – urlò Ludovica, alzandosi in piedi e tentando un’ultima disperata difesa. – Non so nulla di quella boccetta. È una spergiura!

    Su cenno del presidente, una guardia l’afferrò per le spalle e la costrinse a tornare seduta.

    A quel punto Mariolina si levò tra la folla: – Basta, vi supplico, interrompete questo supplizio! – urlò. – Sono stata io. Confesso. L’ho ucciso io!

    I gendarmi allora la presero di forza per trascinarla fuori dall’aula, ma Mariolina sembrava impazzita, cercava di divincolarsi e continuava a gridare: – Sono stata io, ho avvelenato io il barone Tornabene!

    Riportato l’ordine, lanciai uno sguardo dolente verso i giurati: – Quello appena udito è lo strazio della madre. È giustificabile, si autoaccusa per salvare suo figlio. Anch’io sono rammaricata per quanto accaduto, da settimane porto con me questo fardello. Ma non potevo rendermi complice di tali misfatti restando nel silenzio. Quella che ho riferito è tutta la verità.

    Conclusa la sfilata dei testimoni, il pubblico accusatore si alzò dallo scranno puntando il dito inquisitore verso i due imputati: – Signori giudici – disse – oggi siamo qui per fare luce su un esecrabile delitto – e, a conclusione della sua requisitoria, sentenziò: – E perché giustizia sia fatta.

    – Giustizia! – gli fece eco il popolo presente in aula.

    E giustizia fu fatta: Ludovica e Antonio dondolarono dalla forca mentre i loro corpi scandivano il tempo con l’oscillazione regolare di un pendolo.

    Intanto la nostra vita era cambiata.

    Mio zio, oppresso dalla vergogna, non osava più uscire di casa. Erano bastati pochi mesi per fare di lui un vecchio stanco e silenzioso che restava seduto tutto il giorno nella sua poltrona.

    Gli ero rimasta solo io. Io che avevo sempre dato e non avevo avuto niente. Non una famiglia, non una casa, né un uomo che mi avesse mai amata.

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1