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CANTAMI O DIVA DELL’OKRA

IL MONDO HA LA FORTUNA DI AVERE POESIE DEDICATE ALL’OKRA, cosa che non mi sorprende per nulla. I versi spaziano dall’assurdo (elucubrazioni sulla sua consistenza mucillaginosa e il carattere polarizzante) alla riverenza (riflessioni sull’okra come totem di sopravvivenza fino all’ultima strofa), entrambe sincere e meritate. L’okra non capita per caso; o bisogna trovarsi dove la si apprezza del tutto o la si deve far entrare nella propria vita intenzionalmente perché ci si rende conto di non poter essere davvero se stessi senza questo ortaggio singolare e perfetto.

«Ogni volta che mi compare davanti, sento una connessione con i miei avi. Davvero, è una cosa così profonda», mi dice durante una recente telefonata Pierre Thiam, chef e autore del libro di cucina di prossima uscita Simply West African. Ci siamo incontrati la prima volta qualche anno fa e quando mi disse che l’okra era il suo cibo preferito, gli mostrai lo stelo fiorito di okra che ho tatuato sulla parte posteriore del mio braccio sinistro. Così cominciò tra noi un dialogo che spero continuerà a lungo. «L’okra è spirituale, ed è per questo che non è per tutti – afferma Thiam –. Molti ne sentono il richiamo ma in pochi rispondono. Così mi viene da pensare quando vedo gente che non ama l’okra. Mi dico “ah, peccato ma così ce n’è di più per me”».

Prendere coscienza di me è prendere coscienza della terra. Meravigliarsi di cardamomo nero, cannella, okra fritta.–Estratto da “Lost Jewels” di Megha Rao (2022)

La scia genetica e geografica dell’okra è tanto scivolosa quanto il suo interno. Questo membro della famiglia della malva (che include ibisco, altea, cotone e malvone) era un tempo inserito nel genere Hibiscus prima di essere riclassificato come Abelmoschus nel XVIII secolo. E nonostante un tempo si ritenesse comunemente che la genesi dell’okra risalisse all’Africa Occidentale, Jessica B. Harris (autrice e storica del cibo, la figura professionale più vicina a una okra-ologa che possa esistere) ha scritto in un articolo per 64 Parishes che la Valle dell’Alto Nilo nell’Africa nordorientale (Etiopia, Sudan ed Eritrea dei giorni nostri), dove l’okra cresce selvaggia e spontanea, è più probabilmente il suo punto d’origine – anche se i ricercatori del Sud Est asiatico sicuramente avrebbero qualcosa da ridire. Vishwesh Bhatt, uno chef di stanza a Oxford, nel Mississippi (ma nato nel Gujarat in India) confessa nel suo volume del 2022 I Am From Here che per molto tempo era stato convinto che l’okra fosse nativa dell’India.

«Una volta ho avuto una discussione con un amico senegalese (e ho perso). Ma il mio errore è comprensibile, perché l’okra è un ingrediente molto comune in tutta l’India». E per dare ragione a Bhatt, nel 2021 l’India ha prodotto il 59.7% dell’okra mondiale, e la defunta storica culinaria Karen Hess scrisse una volta che l’okra era arrivata in India «così presto da essere effettivamente considerata quasi autoctona».

Oh l’okra è amata in lungo e in largo,Oh la puoi mangiare bollita o fritta,Oh sia viscida che croccante dentro,Oh una volta ho conosciuto un uomo che morìSenza okra–Estratto da “To Okra” di Roy Blount Jr. (1976)

A un certo punto l’okra arrivò in Egitto dove la sua presenza come coltura venne documentata nel 1216 dal botanico, farmacista e teologo nato in Spagna Ahmad bin Muhammad bin Mufarrij bin Abdillah. Il suo allievo Ibn al-Baytar continuò a parlarne citando poi una fonte anonima che sosteneva avesse ben poche proprietà nutritive, che rendesse il sangue “cattivo”, fosse adatta solo per individui di “indole litigiosa”, e che questi problemi si potessero evitare con “molte spezie piccanti” (sia) è un dato storico vecchio di secoli, quasi un giudizio popolare su coloro che la consumano così come sull’ingrediente stesso.

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