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Le tradizioni popolari della Sardegna
Le tradizioni popolari della Sardegna
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E-book326 pagine4 ore

Le tradizioni popolari della Sardegna

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Credenze popolari, scaramanzie e devozione religiosa: l’affresco unico di un’isola magica dalle origini ai giorni nostri

In Sardegna la natura selvaggia, il mare cristallino, la cultura e le tradizioni del passato si accavallano e si intrecciano fino a formare un affascinante e unico rifugio dell’anima. Le leggende e i miti sono ancora profondamente radicati nella cultura dell’isola fino a compenetrare i costumi dei suoi abitanti e far apparire leggenda la vita stessa. Feste pagane diventate poi cristiane, superstizioni legate alla vita agricola e al raccolto: l’origine di alcune tra le molte tradizioni si perdevano nella notte dei tempi. Dolores Turchi, attraverso le testimonianze dei più anziani e i documenti recuperati in anni di ricerche e studi, ha raccolto e ricostruito una mappatura ideale della geografia dei riti e delle feste di uno dei luoghi più straordinari, non solo del Mediterraneo. Credenze popolari, scaramanzie travestite da devozione religiosa, il risultato è un magnifico e disteso affresco di vita agro-pastorale in cui il bene e il male si intrecciano e convivono formando il tessuto dell’umana esistenza. Un mondo in cui fede e magia si fondono e fanno da supporto alla vita quotidiana. Oltre duemila anni di un patrimonio straordinario, un’eredità unica che appartiene per sempre a chi la vuole conoscere.

Un’isola in cui fede e tradizione si fondono e le leggende hanno radici antiche

- Tracce di ierodulia e prostituzione sacra in Sardegna
- La magia dei cavalli verdi
- Chere: il ritorno delle anime
- Un racconto popolare ricorda il dio fenicio Eshmun
- I misteriosi labirinti sardi
- Le acque salutari e gli antri paurosi
- I giardini di Adone e il nennere sardo
- Tracce di lupercalia ad Orgosolo
- La Sardegna era l’Atlantide di Platone?
- I sacrifici umani per la richiesta della pioggia
- Un giuramento terrificante in Barbagia
- Il solstizio d’estate e i riti per la festa di S. Giovanni
- Su Babbu Mannu
…e tanti altri argomenti
Dolores Turchi
Studiosa di tradizioni popolari, vive a Oliena (NU). Dirige il semestrale di cultura «Sardegna mediterranea» e collabora con giornali e riviste stranieri. Con la Newton Compton ha pubblicato Leggende e racconti popolari della Sardegna; Samugheo; Lo sciamanesimo in Sardegna; Maschere, miti e feste della Sardegna; Le tradizioni popolari della Sardegna e ha curato Tradizioni popolari di Sardegna di Grazia Deledda.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2016
ISBN9788822702289
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    Anteprima del libro

    Le tradizioni popolari della Sardegna - Dolores Turchi

    Introduzione

    Un saggio africano del Mali, Hampate Ba, disse una volta una frase che in Africa si pronuncia molto spesso: «Ogni volta che muore un vecchio è tutta una biblioteca che va in fiamme». L’antropologo giapponese Obayashi Taryo gli fa eco quando afferma: «La morte di un anziano segna la fine di una leggenda e sta a significare che un altro rito annuale cadrà nell’oblio».

    Nello Zambia si dice che un villaggio senza vecchi è come una casa rosicchiata dalle termiti.

    Tanti modi di dire stanno a significare come in tutto il mondo sia riconosciuta la saggezza data dalla somma di esperienze di cui i vecchi sono depositari. Ma i vecchi non sono solo i custodi delle tradizioni secolari, essi rappresentano anche, coi continui riferimenti alle cose del tempo andato, l’anello di congiunzione tra passato e presente e il collegamento tra i vivi e i morti, in una circolarità cosmica che va dalla vita alla morte e dalla morte alla vita.

    Durante la vecchiaia la vita interiore spesso si fa più intensa, la memoria pregressa più viva e si comincia a guardare con occhio nostalgico al tempo andato. È allora che i vecchi sentono il bisogno di trasmettere i racconti che a loro furono trasmessi durante la fanciullezza, quasi a non voler interrompere quel filo invisibile che lega le generazioni.

    Anche in Sardegna, come in Africa, le leggende e i miti sono l’anima del popolo il quale quando racconta fa sì che la leggenda si fonda con la vita e la compenetri in modo tale da far apparire leggenda la vita stessa.

    In questo lavoro ho cercato di snellire le testimonianze dirette di alcuni vecchi che riassumono nella loro affabulazione la coralità di un popolo credente che manifesta la sua anima elementare, la sua fede e le sue superstizioni attraverso i racconti.

    Può sorprendere il continuo avvicendarsi tra storia e leggenda, ma quest’ultima subentra là dove i fatti storici sono carenti e dove si vuole dimostrare come la tradizione abbia portato avanti sotto forma di leggenda, che poi leggenda non è, avvenimenti che con certezza possono ben essere inseriti a completamento di una visione d’insieme e di una conoscenza che sta alla base di tanta nostra cultura orale.

    Anche i vecchi sardi, gli ultra ottantenni, sono tante biblioteche; e poiché sono gli unici depositari di quella cultura orale densa di racconti, di proverbi e di modi di dire attraverso i quali la vita assume colore e spessore, possiamo affermare con sicurezza che dopo la loro morte rimarrà ben poco se non provvediamo a farci trasmettere il loro bagaglio di conoscenze. Per questo il detto africano è così attuale e sconcertante per noi.

    Le tradizioni che ancora erano vive nel periodo tra le due guerre mondiali si conservano ora solo nella memoria delle persone anziane, attraverso racconti a metà strada tra storia e mito e inevitabilmente, con la morte di questi, scompariranno totalmente, travolte dal tempo che passa.

    Dopo una serie di interviste a ottantenni e novantenni ho cercato di ricostruire il loro mondo attraverso questo lavoro, che ha lo scrupolo e la precisione del documento nel riferire notizie e particolari, date ed episodi storici e nello stesso tempo la narrazione gradevole del racconto nel voler amalgamare il tutto dando il quadro di un ambiente quale era alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del secolo scorso.

    A questo mondo si contrappongono i tempi odierni, rappresentati dai giovani, spesso in antitesi, in uno scontro tra vecchio e nuovo che serve a evidenziare ancor più una società agro-pastorale che fino al periodo delle due guerre aveva vissuto in un immobilismo secolare e che ora, con l’avvento della tecnologia, è destinata a scomparire.

    In questi brani spesso la vita si fa leggenda non perché il microcosmo abbia del leggendario, ma perché la vita era vissuta in una dimensione fuori dalla nostra portata.

    È qui rappresentato un mondo di gente povera, mossa da sentimenti diversi, in particolare vecchi pieni di saggezza e di filosofia della vita, sempre con un occhio al passato, intenti a rievocare lontane tradizioni in un disteso affresco di vita agro-pastorale in cui il bene e il male si intrecciano e convivono formando il tessuto dell’umana esistenza. Un mondo in cui fede e magia si fondono e fanno da supporto alla vita quotidiana.

    Oggi la società sarda è molto mutata, i giovani non sono dissimili da quelli degli altri paesi europei e anche il loro modo di pensare si è uniformato ai modelli proposti dai mass media, per cui le tradizioni e i modi di dire di un tempo riescono per loro poco comprensibili.

    Ciò che sorprende maggiormente è il fatto che tante credenze, consuetudini, e soprattutto superstizioni della vecchia società, che si ritenevano tipicamente sarde, si scopre, attraverso la lettura degli scrittori classici, che erano già presenti anche tra i romani e i greci e che si potrebbero estendere a quasi tutti i popoli del Mediterraneo. Basta leggere Ovidio per averne la conferma; e ci sorprende ancor più il fatto che non sono bastati duemila anni per sconfiggere certe credenze, se lo stesso Ovidio le dà per antichissime ai suoi tempi e non sa con esattezza donde abbiano avuto origine. Forse per questa ragione si è sempre detto «tutto il mondo è paese». Non a caso nella Bibbia troviamo scritta una frase valida per certi versi ancora oggi: «Non c’è nulla di nuovo sotto il sole».

    Ci si domanderà perché rievocare tradizioni che non hanno alcun senso nel mondo moderno. La risposta la dà la vita stessa nel suo ciclo di morte e rinascita. La continuità che c’è sempre stata tra passato e presente proseguirà con le generazioni future; pertanto è bene che i giovani conoscano quella che è stata la vita dei loro progenitori, le difficoltà, le ansie e le paure, onde poter affrontare con più consapevolezza i tempi nuovi e per non spezzare quel filo invisibile che sempre ha legato il passato al presente.

    Dolores Turchi

    Tracce di ierodulia e prostituzione sacra in Sardegna

    La ierodulia, ovvero quel culto particolare dedicato ad Astarte, che si espletava sotto forma di prostituzione sacra in onore della dea dell’amore fecondo, è esistita anche in Sardegna? Alcuni indizi sembrano confermarlo. D’altra parte il culto ad Astarte nell’isola è ampiamente documentato dai reperti rinvenuti durante gli scavi.

    Gli ieroduli (da hierós, che in lingua greca significa sacro, e dùlos, ovvero schiavo) erano i servi e le serve della divinità addetti al servizio nel tempio. La servitù maschile era addetta alle libagioni e a preparare i sacrifici, quella femminile doveva curare gli arredi sacri, partecipare alle danze e, quando era necessario, praticare la prostituzione in onore della dea della fecondità. Gli ieroduli risiedevano stabilmente presso il santuario.

    Uno di questi santuari, famosi nell’antichità, si trovava in Sicilia. Strabone ci informa che era situato sull’alta collina di Erice e che era venerato più di qualunque altro. Afferma che un tempo era pieno di schiave sacre che venivano donate ad Astarte Ericina dalla Sicilia e da molti altri luoghi. Ai suoi tempi però era disabitato, segno, questo, che l’istituzione era già in declino (Strabone scriveva pochi decenni prima della nascita di Cristo)¹.

    I proventi della ierodulia andavano ad arricchire il tesoro del tempio. Tale pratica era assai nota anche in Grecia. A Corinto, nel tempio di Afrodite Urania, si trovavano più di mille ierodule. Anche in Sardegna si suppone che vi fosse un tempio destinato a questo culto, presso l’antica Karalis (Cagliari), a giudicare da una dedica ad Astarte Ericina rinvenuta poco distante dalla città, sul Capo Sant’Elia².

    Strettamente legata alla ierodulia era la prostituzione sacra che ogni donna doveva praticare con uno straniero una volta nella sua vita. Il danaro ricevuto come compenso veniva deposto ai piedi della dea.

    Quest’atto era considerato un sacrificio al quale non ci si doveva sottrarre se si voleva beneficiare di prole abbondante e sana. La pratica era largamente diffusa nell’Asia Minore, nella Mesopotamia, nella Siria, e soprattutto tra i fenici che la portarono nelle loro colonie, specialmente a Cipro.

    Pare che anche gli ebrei venissero spesso attratti da questi riti.

    Nell’Antico Testamento i profeti invitano più volte il popolo d’Israele a non contaminarsi con gli abominevoli culti di Astarte e minacciano orrende punizioni verso coloro che prostituiscono le proprie figliole presso il tempio della dea.

    Nel Levitico (17,7) si legge: «Ed essi (i figlioli d’Israele, n.d.a.) non offriranno più i loro sacrifici ai demoni, ai quali sogliono prostituirsi. Questa sarà per loro una legge perpetua, di generazione in generazione».

    Nel Deuteronomio (23,18) viene replicato: «Non porterai nella casa dell’Eterno, del tuo Dio, la mercede d’una meretrice… per sciogliere qualsivoglia voto, poiché son cose abominevoli per l’Eterno, ch’è il tuo Dio».

    Nel libro dei Re, quando si parla di Giosia che distrugge l’idolatria penetrata in mezzo al suo popolo, sta scritto: «Trasse fuori dalla casa dell’Eterno l’idolo di Astarte, che trasportò fuori di Gerusalemme… l’arse presso il torrente Kidron, lo ridusse in cenere e ne gettò la cenere sui sepolcri della gente del popolo. Demolì le case di quelli che si prostituivano, le quali si trovavano nella casa dell’Eterno e dove le donne tessevano le tende per Astarte» (ii Re, 23,6-7).

    Secondo alcuni studiosi questa forma di prostituzione traeva origine da antichi riti di iniziazione cui le ragazze dovevano sottoporsi. C’è chi ne ricerca l’origine nei riti di prelibazione connessi a concezioni magiche, ove si riteneva pericoloso per l’uomo il contatto col sangue, per cui la deflorazione era affidata a persone che si credevano dotate di poteri neutralizzanti, come gli sciamani in alcune società o i capi tribù in altre. Non è improbabile che fosse legato a questo concetto il fatto che le donne babilonesi, prima di sposarsi, si facessero deflorare da uno straniero presso il tempio della dea, forse credendo di liberare in tal modo dalla contaminazione del sangue i loro mariti, ma obbedendo comunque a un tabù iniziale di cui non si aveva più coscienza.

    Scrive Erodoto nel i libro delle sue Storie:

    L’uso più riprovevole dei Babilonesi è il seguente. Ogni donna indigena deve, per una volta nella sua vita, prendere posto nel santuario di Afrodite ed unirsi ad uno straniero. Molte che, orgogliose della loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi alle altre, si recano presso il santuario su cocchi coperti e vi rimangono con grande seguito di servi. Ma la maggior parte fanno così: seggono in folla nel recinto di Afrodite con sul capo una corona di corda. Le une vengono, le altre vanno. Corrono fra loro in ogni senso passaggi tracciati da funi, dove gli stranieri circolano e salgono. E quando una donna ha preso posto non ritorna a casa finché uno straniero, gettatole del denaro sulle ginocchia, non le si unisca fuori del santuario. E deve soltanto dirle nell’atto di gettarle il denaro «Ti chiamo in nome della Dea Mylitta». Gli assiri chiamano Mylitta Afrodite. La somma è quale che sia: non c’è pericolo che venga rifiutata: la donna non ne ha il diritto. E questo denaro diviene sacro. Ella segue il primo che glielo getta e non rifiuta nessuno. Dopo essersi unita la donna ha compiuto i suoi obblighi religiosi verso la Dea, se ne torna a casa, e in seguito non potrai darle una somma così grande da conquistarla.³

    In tempi più recenti, tra le popolazioni semite, la prostituzione sacra venne a poco a poco mitigata e le ragazze che non volevano più praticarla deponevano sull’altare di Astarte, come pegno sostitutivo, le proprie trecce. Questa offerta è durata fino a tempi molto recenti, specie in Sardegna, senza che se ne conoscesse più il significato.

    Ancora agli inizi del Novecento capitava spesso che, per voto, le ragazze si tagliassero le trecce e le deponessero ai piedi di sant’Anna, considerata la protettrice delle partorienti e invocata come Mamma Manna, la Gran Madre.

    Tale voto era considerato una forma di sacrificio, perché ci si privava di qualcosa di bello e di caro, appartenuto al proprio corpo, e poi deposto ai piedi della statua.

    Le trecce, che in genere le ragazze portavano avvolte intorno alla testa, probabilmente ricordavano molto da vicino la corona di corda intrecciata che avevano le giovani babilonesi quando si recavano al tempio di Militta, in segno di sottomissione alla dea dell’amore fecondo che le avrebbe compensate di quel sacrificio con sana e numerosa prole. Essere sterili era infatti la peggiore disgrazia che potesse capitare a una donna.

    Di solito in ambiente fenicio Astarte, quale dea dell’amore fecondo, veniva rappresentata nuda, nell’atto di premersi i seni con entrambe le mani. Rappresentazioni di questo tipo sono state trovate anche in Sardegna. A Efeso, ai tempi di Paolo, era ancora fiorente il grande santuario di Afrodite, la Grande Madre degli Efesini, che veniva raffigurata con un gran numero di mammelle, in qualità di dea nutrice.

    Le tracce della ierodulia, che quasi certamente fu portata anche in Sardegna con la fondazione delle prime città fenice, possono essere rintracciate in alcune particolari credenze che attualmente vengono spacciate per superstizioni, ma che certamente un tempo avevano un significato ben preciso.

    Se durante il periodo dell’accoppiamento le pecore rifiutavano il maschio, il pastore sardo, nei primi decenni del secolo scorso, cercava ancora strane soluzioni per ovviare a questo inconveniente che avrebbe compromesso la produttività del suo gregge e conseguentemente l’economia pastorale, con riflessi negativi per la famiglia e la comunità.

    In questi casi il rimedio classico consisteva nell’andare a chiedere a una giovane prostituta sa vranda, vale a dire il grembiule, un indumento cioè che fosse stato a contatto col suo corpo. Tale indumento veniva disteso per terra, nell’ovile, in un varco dove le bestie venivano fatte passare.

    Il calpestio e quindi il contatto con questa veste avrebbe fatto sì che le pecore non respingessero più il maschio⁴.

    A Galtellì si aggiunge che talvolta poteva essere sufficiente anche il grembiule di una giovane vedova considerata di facili costumi⁵.

    Utilizzare per questa operazione l’indumento di una persona giovane disposta a prostituirsi, e chiedere proprio quell’indumento che ricopre il ventre, cioè quella parte del corpo preposta alla procreazione, poteva sembrare ai pastori il modo migliore per proseguire, attraverso la magia simpatica, una sorta di prostituzione simbolica i cui effetti dovevano essere pari a quelli della prostituzione rituale che in tempi lontani si praticava presso il tempio della dea.

    Quanto questo culto dovesse essere necessario per la fertilità della terra e per la riproduzione degli esseri viventi ce lo rivelano molte fonti.

    Negli antichi testi sacri babilonesi, quando si parla della discesa di Ishtar (Astarte) agli inferi per riprendersi il proprio amante Tammuz, sta scritto che man mano che la dea scendeva nell’Arallu (il regno dei morti), la fecondità veniva a mancare sulla terra: «da quando la Signora Ishtar era discesa nel paese senza ritorno, il toro non si appressava più alla giovenca né l’asino all’asina; l’uomo non si accoppiava più alla donna incontrata sulla via. L’uomo si addormentava nelle sue camere e la serva sul proprio giaciglio»⁶.

    Una usanza della Baronia, ma conosciuta e praticata anche in vari paesi della Barbagia, sembra rimandare ugualmente al rito della prostituzione sacra. Quando una donna non riusciva a portare a compimento nessuna gravidanza, le veniva consigliato di mettersi indosso unu pinzu, un indumento di una ragazza madre nota per la sua libertà sessuale. Così facendo ben difficilmente avrebbe abortito⁷.

    «Quando ero molto giovane», racconta una informatrice, «conobbi a Lula una donna alla quale i figli morivano dopo qualche giorno di vita. Non trovando alcun rimedio si rivolse a una vecchia orassionarja che le consigliò di chiedere in prestito sa ’estedda ’e unu burdu (il camicino di un bimbo bastardo, n.d.a.), e di farla indossare al suo bimbo appena fosse nato. In questa maniera riuscì a salvare gli ultimi tre figli»⁸. Indossare il camicino o la cuffietta d’un bimbo bastardo era come mettere indosso al bimbo in pericolo un talismano. Forse il bimbo bastardo, in tempi lontani, era considerato sacro alla dea, in quanto frutto d’un amore fecondo, ovvero di una sorta di prostituzione sacra praticata dalla madre.

    Il bimbo era dunque benedetto, quindi in grado di trasmettere la salute a coloro che indossavano i suoi indumenti.

    Viene il sospetto che il sacrificio dei bambini primogeniti, fatto nel mondo fenicio-punico alla dea Tanit, che era poi l’altro aspetto di Astarte, potesse mascherare, sotto il pretesto di voto religioso, una motivazione ben più profonda: il dubbio o la certezza che il primo figlio fosse il frutto della prostituzione sacra, e pertanto doveva essere sacrificato alla dea alla quale apparteneva. In Sardegna sono stati trovati vari tophet, presso gli stanziamenti fenicio-punici, che testimoniano il sacrificio dei primogeniti.

    Sotto questa ottica risulterebbe più comprensibile la carica di sacralità e la potenza salutifera che veniva attribuita al bimbo bastardo.

    Tale bimbo, anticamente, non era emarginato, come è avvenuto in tempi più recenti, dopo l’avvento del cristianesimo. Basti pensare che molti eroi del mondo greco e orientale erano ritenuti figli di dèi e di donne mortali e spesso erano considerati semidei.

    Indossare perciò l’indumento di un bambino spurio poteva essere la lontana eco della fecondità e della salute che la dea prometteva ai suoi fedeli.

    Può essere ricollegabile a questa antica credenza l’usanza, che ancora persiste a Oliena, per cui una giovane madre regala all’amica appena sposata la cuffietta appartenuta al suo primo nato. Oggi tale gesto viene interpretato come un segno di buon augurio per la fecondità della nuova sposa. La cuffietta si regala in genere a una persona cara, all’amica del cuore, a una sorella, a una stretta parente⁹.

    Nel gesto si potrebbe ravvisare il relitto di questo culto fertilistico perpetuato in modo totalmente inconscio. È interessante notare anche che sas orassionarjas che consigliavano queste pratiche venivano chiamate, a seconda della zona, deinas, maghiarjas o bruxas ed erano in genere ritenute donne dai facili costumi.

    Benché temute, erano ricercate per le arti magiche e terapeutiche di cui si credevano depositarie, ma erano tenute ai margini della società proprio per la disinvoltura con la quale trattavano le persone dell’altro sesso.

    Il termine bruxa in Barbagia e nel Logudoro indicava la donna di facili costumi, ma nel Campidano aveva il significato di indovina, cioè di colei che in Barbagia veniva detta deina o diina (dal latino divinus).

    Michelangelo Pira, spiegando il significato della parola bruxa, scrive: «È chiaro che siamo ancora nel campo del sacro, nel quale cadono anche il demonio e il sesso»¹⁰.

    Le deinas e le orassionarjas della Barbagia venivano spesso chiamate bruxas per spregio, volendo sottolineare che alla qualità di indovine e guaritrici abbinavano anche quella di prostitute. Nel Campidano esiste anche il termine bruxu, al maschile, sempre col significato di indovino.

    Se l’attività del bruxu e della bruxa viene inquadrata in una sorta di prosecuzione inconscia, dettata più dalla consuetudine che dalla consapevolezza dell’antico culto, non è difficile vedere in queste persone una certa continuità di sacerdozio maschile e femminile protrattosi nel tempo, in modo del tutto sotterraneo.

    È interessante notare anche che per ottenere la trasmissione delle formule magiche usate per guarire certi mali, la persona che viene investita di tale prerogativa deve voler bene alle capre, non deve mai maltrattarle, altrimenti le formule apprese non avranno efficacia¹¹.

    Quando si parla di capre si pensa in genere all’animale che porta questo nome. È però opportuno ricordare che anche le donne molto libere sessualmente vengono, con termine spregiativo, definite capre¹².

    Il Wagner riporta nel suo dizionario i termini kraba e krabitta come corrispondenti a donna leggera e puttana.

    Egli scrive anche che col termine male krabinu sia in nuorese che in campidanese si designa la libidine.

    A Cagliari e nel circondario, per definire una prostituta, si usa ancora la frase craba de appizzu ’e monti (capra di montagna), che sembrerebbe un’inconscia rievocazione del Capo Sant’Elia, dove si presume sorgesse il santuario di Astarte.

    Le bruxas furono sempre considerate delle potenti guaritrici. Infatti nella concezione dei fenici la prostituzione sacra non era solo la promessa della fecondità necessaria per la propagazione della specie, ma era anche una promessa di salute del corpo, quale premio divino per il sacrificio effettuato, giacché la salute è il presupposto necessario perché la fecondità si verifichi.

    A Samugheo, raccontano i vecchi, le medicine più efficaci per guarire da alcuni mali potevano farle solo le donne ritenute di facili costumi, meglio ancora se possedevano qualche figlio bastardo¹³.

    Oltre un secolo e mezzo fa, il padre Bresciani così scriveva:

    […] mentr’io era in Sardegna mi fu narrato un’usanza di certi villaggi a’ monti, il cui senso io non seppi mai penetrare; e ancora che strana oltremodo mi paresse, pur tuttavia io credetti sempre che dovesse covare in seno qualche misterioso concetto. Egli avviene adunque, che ove ammali qualche persona assai gravemente, e sienlesi applicati indarno i più efficaci rimedi dell’arte, uno della famiglia esce tacitamente di casa, e va secreto, che altri nol vegga, verso la casa d’una qualche femmina che nella Terra abbia voce e nota d’impudica: ed ivi presso il limitare dell’uscio di costei raccoglie di terra alcune petruzze che la mala donna dee per certo aver tocco e calcato co’ suoi piedi; se le serra in mano, come se perle e gemme preziose fossero, e dato volta ritorna all’infermo, e le dette petruzze gli pone sul petto, avendo per indubitato che il tocco de’ pie’ di quella femmina scostumata abbia loro inserto cotanta virtù da guarir del suo male.¹⁴

    Il Bresciani, che conosceva bene le pratiche delle antiche religioni orientali, intravvede in modo chiaro donde possa trarre origine una simile credenza:

    Che rimane adunque per ispiegare sì bizzarro proposito? A mio credere i Sardi non ne sanno più discorrere le cagioni; ma cotesto è un pretto avanzo di fenicia superstizione.

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