Una sterzata obbligatoria
è stata abbastanza stazionaria. Ma la crisi del Covid-19 ha dato all’azienda l’occasione di smontarsi e ricostruirsi, giusto in tempo per il suo debutto sulla Fortune 500
UBER NON È MAI STATA un’azienda come le altre. Anticonformista dalla nascita, andare oltre le regole è sempre stato il suo business model, con il suo atteggiamento alla ‘prova a prendermi’ verso i regolatori locali. Si è espansa globalmente molto prima di saturare il mercato di casa propria. Ha perso denaro con la stessa velocità con cui l’ha raccolto. Ha cambiato il suo Ceo e gran parte del suo team di manager, e anche il board, ancora prima di quotarsi in Borsa. Adesso, nel suo primo anno di eleggibilità e al suo 11esimo anno di esistenza, Uber si è unita alla Fortune 500. Dati i devastanti effetti sulle entrate da parte di una pandemia globale che ha tagliato il suo trasporto passeggeri dell’80%, Uber potrebbe tranquillamente uscire dalla lista il prossimo anno: anche questo non sarebbe un fenomeno tipico.
Effettivamente, come risultato della crisi, Uber è stata costretta a un reset ancor più traumatico di quello causato dalla cacciata del suo volubile Ceo, Travis Kalanick, nel 2017. All’inizio dell’anno, l’azienda ha anticipato come l’unica attività profittevole sarebbe stata quella del trasporto passeggeri. Il business di food delivery di Uber Eats, in rapida crescita, perdeva fiumi di denaro. Gli esperimenti, dalle macchine a guida autonoma
