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DAHMER, una storia di abbandoni

«Le registrazioni dell’autopsia del 1994 di Jeffrey Dahmer hanno rivelato che gli ufficiali tennero il corpo del serial killer ammanettato alle caviglie per tutta la procedura, “tale era la paura di quest’uomo” secondo il patologo Robert Huntington» (Milwaukee Journal – AP, 17 marzo 1995), capace di uccidere gli amanti di una notte, conservarli nel letto per uno–due giorni, quindi eliminarli; oppure macellarne il cadavere, custodirne il teschio e lo scheletro nell’armadio (il modo di dire torna in questo caso alla sua terribile letteralità) e il resto in frigo; infine mangiarne alcuni organi per portare una parte di essi sempre con sé. Moltiplicato 17.

21 maggio 1960, Milwaukee. Sia pure dopo una difficile gravidanza, Joyce Annette Flint, moglie di Lionel Herbert Dahmer, diede alla luce il suo primogenito, Jeffrey. La famiglia lo aveva molto desiderato e finalmente eccolo lì, un bel bambino biondo che sembrava incarnare il classico tipo Wasp (White Anglo-Saxon Protestant ovvero, tradotto più liberamente: media borghesia bianca puritana). Giocava felice e fiducioso nei confronti del mondo circostante con animaletti di peluche e blocchetti di legno e nel corso della sua infanzia ebbe anche un cane, Frisky. A parte un po’ troppe infezioni a orecchie e gola, visse tranquillo e felice quanto può esserlo un individuo occidentale senza problemi economici a partire dai suoi primi anni di vita (almeno fino a sei), anche se alcune fonti biografiche parlarono poi di violenze sessuali da parte di un vicino, fatto sempre negato sia da Jeffrey nelle sue testimonianze che da Lionel nel libro autobiografico , una preziosa fonte d’informazione di prima mano (da maneggiare però con cura, dati i desideri di autoassoluzione più o meno involontari in esso contenuti). Dal momento in cui, nel 1966, la famiglia si trasferì a Doylestown, in Ohio, le cose però cambiarono in peggio: il padre sempre troppo lontano per lavoro (aveva completato il dottorato di ricerca alla Iowa State University e ottenuto un posto come chimico ad Akron) e la madre depressa e ipocondriaca (al punto da trascorrere molte ore della giornata a letto, dall’abusare di farmaci e da tentare addirittura il suicidio) ebbero effetti negativi sul carattere. Erano lontani i tempi in cui la famigliola faceva tutt’uno con un’idea di esistenza unita e una visione del mondo positiva: (L. Dahmer, ). Assai più prossimo al prosieguo dell’esistenza del bambino risulterà purtroppo un altro ricordo: quando era più piccolo, a quattro anni, suo padre spazzò via da sotto la loro casa i resti di alcuni animaletti morti. Mentre Lionel li raccoglieva, il figlio pareva . L’associazione più facile che nasce pensando ai due eventi è la classica lotta fra Bene (l’uccello curato e guarito) e Male (le ossa dei piccoli animali morti): la fascinazione verso l’oscurità sarà evidentemente quella che prevarrà. Una delle cause fu forse il fatto che Lionel si interessava di tassidermia e coinvolgeva (in maniera assai ingenua per un adulto) il piccolo nella scelta degli animali morti da conservare e soprattutto nelle operazioni, scientifiche ma decisamente , che avvenivano dopo: questi saranno i momenti che il futuro serial killer conserverà nella propria memoria come i più intimi col padre. Li trasporrà nei suoi crimini avvolgendoli di un’aura positiva con un processo mentale incomprensibile persino a lui, ma in cui la parte da leone la farà il desiderio del genitore di mostrargli la propria ragione di vita (la passione per la scienza): il bambino ne venne contagiato in modo fortemente distorto, manco Lionel fosse Mengele. Ma riprendiamo il filo della cronologia: nel 1966, ancora, nasce il fratello David (e ciò implicitamente significherà, come accade di solito, un notevole spostamento di attenzione dei genitori verso il piccolo). Jeffrey, intanto, stava frequentando la prima elementare, ma secondo suo padre .

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