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L'Amarillion
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E-book447 pagine

L'Amarillion

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Info su questo ebook

L’epica e vittoriosa battaglia nella fortezza di Kaer-Dun che ha permesso a Ivain, legittimo erede del Regno Dardanide, di recuperare la “Gemma Celeste”, sembra aver eliminato tutti gli ostacoli per la riconquista del trono. Tuttavia le Forze del Male non sono annientate. La loro arma segreta è l’Amarillion, dal potere immenso e devastante. Arcani sortilegi e forze oscure congiurano contro di lui. Ivain deve affrontare il momento più buio della sua esistenza e conoscere l’amaro sapore della disfatta, poiché il nemico che gli si oppone incarna l’essenza del Male e la sua magia non ha limiti.

Il secondo libro del Ciclo Dardanide, pubblicato nella Fantacollana Nord nel 2002 con il titolo Il Sigillo Nero, riprende la vicenda di Ivain e la sua lotta per la riconquista del trono, narrate ne L’ultimo Regno Oscuro(2019). Una storia più travagliata e drammatica della precedente, ma ancora più ricca di avventure ed eroiche imprese che lo vedono protagonista. La sua è una lotta senza tregua contro un nemico determinato a distruggerlo, ma neppure quando tutto sembra perduto Ivain è disposto ad arrendersi.
Anche questo secondo capitolo, revisionato e con il nuovo titolo L’Amarillion, è riproposto in digitale e in veste grafica rinnovata. E per scoprire se Ivain, alla fine, riuscirà a riconquistare il proprio regno occorrerà attendere il terzo e conclusivo libro del Ciclo dal titolo La corona del destino, di prossima pubblicazione.

L'AUTRICE
Morgan Fairy è lo pseudonimo con cui Angela Pesce Fassio firma i suoi romance Fantasy. Nata ad Asti, dove risiede tuttora, è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria.
L’autrice coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le permettono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
I suoi libri hanno riscosso successo e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2019
ISBN9788834156339
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    Anteprima del libro

    L'Amarillion - Morgan Fairy

    Morgan Fairy

    L’Amarillion

    Romanzo

    L’Amarillion

    I edizione digitale: luglio 2019

    Copyright © 2019 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 9788834156339

    Immagini di copertina:

    Modello: Asdrall

    Fotografo: Mirco Mecacci

    Foto stock: 123rf | Microstocker2

    Progetto grafico: Consuelo Baviera

    Sito web

    Facebook

    Edizione digitale: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    1

    Arrancava da un’eternità in quella landa selvaggia, sotto un sole implacabile, senza sapere dove stava andando, né perché si trovava lì.

    Nonostante lo sfinimento continuava a muoversi, consapevole che se avesse ceduto e si fosse fermato sarebbe stata la fine.

    La luce gli feriva gli occhi, il caldo e la sete lo tormentavano, ma la cosa peggiore era il vuoto che aveva nella mente: l’assenza di ricordi, d’informazioni, di punti di riferimento che gli avrebbero consentito di darsi un nome, una collocazione in quel tempo e in quello spazio, di essere qualcuno. Invece era un individuo privo d’identità che brancolava come un cieco in quel deserto infuocato e che probabilmente sarebbe morto senza conoscere la ragione che l’aveva condotto incontro a quel destino crudele.

    Le gambe gli cedettero a metà del pendio pietroso. Cercò d’aggrapparsi alle rocce per trattenere la caduta, ma riuscì solo a ferirsi le mani. Le pietre slittarono sotto di lui e lo trascinarono verso il basso. Rotolò per interminabili minuti e, quando raggiunse il fondo, l’impatto fu così violento da stordirlo. Contuso e ammaccato, respirando a fatica, restò immobile. Il suo corpo era contorto in una posizione quasi grottesca e mezzo sepolto dai detriti. Fu tentato d’abbandonarsi e lasciarsi morire, ma qualcosa glielo impedì. Ignorando le fitte di lancinante sofferenza si liberò a poco a poco e si trascinò verso uno sperone roccioso, lasciandosi dietro una striscia di sangue. Appoggiato alla roccia, cercò di placare l’ansito affannoso. Affrontare l’impervio sentiero non era stata una buona idea e aveva solo peggiorato la situazione. Quello stupido incidente lo costringeva a fermarsi e forse, all’indomani, non avrebbe avuto la forza di rimettersi in cammino.

    Scrutò il cielo abbagliante e vide degli avvoltoi che volavano in cerchio sopra di lui. Un amaro sogghigno gli stirò le labbra screpolate: avevano sentito l’odore della morte ed erano arrivati. Levò il pugno contro di essi con un gesto di collera impotente, poi lo lasciò ricadere avvilito. Era inutile ribellarsi, compiangersi, imprecare contro la sorte e contro Dio: se era giunta la sua ora, la morte l’avrebbe preso comunque.

    Sprofondò in un torpore febbricitante, mentre le ore si trascinavano lentamente e il sole scendeva dietro l’orizzonte dentellato di montagne e accendeva il cielo di bagliori incandescenti. Gli avvoltoi, appollaiati sulle rocce, attendevano pazienti. Il buio arrivò repentino, fugando anche l’ultimo barlume di luce diurna. L’uomo giaceva sempre nella stessa posizione e il suo respiro era così lieve da risultare impercettibile.

    Lo scorpione uscì dal suo nido fra le pietre ancora calde e zampettò veloce verso la figura immobile. Raggiunse la mano abbandonata sul terreno e si fermò. Esitò qualche attimo, poi salì sulle dita incrostate di polvere e sangue, chiaramente intenzionato ad arrampicarsi lungo il braccio. Fu allora che l’uomo si mosse nel sonno. Uno scatto improvviso, provocato da una reazione incontrollata dei nervi. Lo scorpione si sentì minacciato e lo punse. Bruscamente destato dalla dolorosa trafittura, l’uomo fece appena in tempo a veder scomparire lo scorpione in una fenditura e capì d’esser perduto. Il veleno l’avrebbe ucciso molto prima della sete.

    Fra breve sarebbe stato un cadavere e gli avvoltoi avrebbero avuto il loro pasto. Nonostante l’oscurità e il velo che gli offuscava la vista, riuscì a scorgerne le sagome. Dalla gola riarsa gli uscì un suono simile a un singhiozzo. Con un guizzo d’inutile rabbia afferrò un sasso e lo scagliò contro il più vicino, ma senza colpirlo. L’avvoltoio sbatté appena le ali e non se ne andò. Sapeva che la preda morente non costituiva una minaccia.

    «Andatevene, maledetti!» gridò l’uomo con voce rauca. «Andate via e lasciatemi in pace!»

    Il grido infranse il silenzio ed echeggiò nella gola, rimbalzando fra le rocce amplificato. Con sua grande sorpresa gli avvoltoi spiccarono il volo e se ne andarono. Ricadde sul fianco. Il veleno si stava diffondendo nel suo corpo. Aveva quasi perso la sensibilità ed entro poche ore sarebbe morto tra spasmi atroci. Il delirio non tardò a sopraggiungere e con esso delle visioni prive di significato. Ombre che si agitavano intorno a lui e protendevano le braccia, lo chiamavano… O era il sibilo del vento? Emise un gemito.

    Poi, dall’oscurità, emerse una figura.

    Apparve così d’improvviso che sembrò materializzarsi dal nulla. Era poco più di un’ombra e il mantello fluttuava a ogni passo.

    In mano teneva un lungo bastone col quale tastava il terreno per saggiarne la sicurezza. L’uomo cercò di alzare le braccia, ma scoprì di non potersi muovere. Volle gridargli d’andarsene, ma non gli uscì la voce. Atterrito, fissò la sconcertante apparizione che veniva verso di lui: un uomo o un demone scaturito dalle voragini degli Inferi? Non fu in grado di darsi una risposta e non poté impedirgli di accovacciarsi accanto a lui e di toccarlo. La bava gli colava dalla bocca e il respiro era ridotto a un rantolo. Avvertì appena il tocco delle sue mani, il suono della sua voce cantilenante che lo rassicurava, poi precipitò nell’incoscienza.

    Un debole chiarore illuminava la grotta.

    Il vecchio eremita, accovacciato sui talloni, attizzò il fuoco e appese al gancio del treppiede un pentolino. Mentre ne rimestava il contenuto, si girò a dare un’occhiata al suo ospite addormentato, facendo un cenno appena percettibile col capo. Le sue condizioni stavano migliorando e fra non molto si sarebbe svegliato, probabilmente affamato.

    Fuori stava facendo buio, ma a occidente il cielo conservava ancora un vago bagliore del tramonto e riflessi incandescenti danzavano sulle pareti.

    L’eremita posò il mestolino di legno e andò a prendere degli ingredienti da aggiungere alla zuppa. La sua dimora aveva ben poche comodità, ma lui non aveva molte esigenze e viveva nel totale disprezzo dei beni materiali, dedicandosi alla meditazione e all’ascesi come i saggi dei tempi passati. Lasciò ricadere un pizzico di erbe profumate nel pentolino e le rimescolò. Di solito si nutriva di bacche e radici che raccoglieva sugli arbusti che crescevano nel deserto, ma il suo ospite aveva bisogno di cibo più nutriente ed era per lui che cucinava quella minestra. C’erano voluti giorni per fargli espellere il veleno e aveva quasi disperato di riuscire a salvarlo, ma ora stava guarendo ed era soddisfatto del proprio successo. Restituire alla vita una creatura era una sensazione gratificante. Un balbettio confuso attirò la sua attenzione. Si avvicinò al giovane e si mise a osservarlo. I suoi occhi si muovevano sotto le palpebre e a tratti contraeva le dita, ma non accennava a svegliarsi. Scosse il capo perplesso. Come doveva interpretare quei segni?

    L’uomo senza identità non era consapevole della preoccupazione destata nel suo salvatore. Non si era neppure reso conto d’aver balbettato qualche incoerente parola. L’unica percezione che aveva era quella di galleggiare come un tappo di sughero su una superficie liquida e di essere sospinto un po’ di qua e un po’ di là da una corrente d’origine ignota.

    Era circondato dal silenzio, ma non era solo.

    La presenza se ne stava annidata in qualche oscuro recesso e non lo disturbava, almeno per ora.

    Aspettava, ma che cosa?

    Ancora quel dondolio soporifero.

    Era come ritrovarsi nel grembo materno, immerso in un bozzolo protettivo. Voleva restare lì per sempre e abbandonarsi, lasciarsi sprofondare nell’oblio e svanire nel buio come uno spettro.

    Svegliati! Svegliati! Gli fu ordinato all’improvviso.

    Il suo spirito sussultò a quel richiamo imperioso. Tentò d’ignorarlo, ma senza riuscirvi.

    Ubbidisci, è tempo di agire!

    Si scosse suo malgrado dal torpore. Chi sei?

    Al momento opportuno lo saprai. Per ora ti basti sapere che ti ho ridato la vita e mi devi obbedienza. Adesso sono il tuo padrone.

    Dimmi almeno chi sono. Questo vuoto mi è insopportabile.

    Non ancora. Accontentati di essere vivo e svegliati. Te l’ordino!

    Il comando fu così prepotente da indurlo ad aprire subito gli occhi. Nello stesso istante gli tornò la sensibilità e i suoi sensi ripresero a funzionare con perfetta efficienza, forse ancor meglio di prima. Nel vedere il vecchio reagì con un moto di sorpresa.

    «Bentornato tra i vivi», lo salutò l’eremita con un sorriso.

    «Era tua la voce che ho sentito poco fa?» domandò guardandosi intorno.

    «No, ma forse hai sognato.»

    Scosse il capo confuso. «Non sembrava un sogno, però… poteva anche esserlo. O forse qualche demone si è impossessato di me.»

    L’eremita ridacchiò. «Con tutto il veleno che avevi in corpo qualsiasi demone, se la sarebbe data a gambe, te lo assicuro.» Gli porse una ciotola. «Bevi, ti farà bene.»

    Obbedì e il liquido fresco, leggermente aspro, placò la sua arsura. «Grazie. Mi puoi dire che posto è questo?»

    «È la mia modesta dimora, nel deserto a nord del Korasan. Mi chiamo Azarel, e tu?»

    Il giovane si prese il capo fra le mani. «Non lo so. Non riesco a ricordare niente, neanche come sono arrivato quaggiù. L’unica cosa che so è che vagavo là fuori senza sapere dove andare.»

    «Non te la prendere; la memoria ti tornerà», gli assicurò Azarel. «Succede sempre, e magari dopo rimpiangerai d’averla ritrovata.»

    «Hai voglia di scherzare, ma non è una situazione piacevole. E poi ogni tanto sento delle strane voci che mi ronzano in testa. Specie una, che pretende di darmi ordini. Dimmi, sto diventando pazzo?»

    «No. No, sta tranquillo. Cerca di non pensarci adesso. Hai fame? Ti ho preparato qualcosa da mangiare.»

    «Sì, mangerei volentieri.»

    Azarel si alzò, andò a prendere il pentolino e ne versò il contenuto in una ciotola, poi tornò e gliela diede. «Questa zuppa ti ridarà forza», disse con un sorriso.

    «Grazie», rispose l’uomo senza nome, «per la zuppa e per avermi salvato la vita.»

    «Non devi ringraziarmi. Ho fatto ciò che dovevo. È nostro dovere aiutare il prossimo, così è scritto.»

    Il vecchio era gentile e pieno di premure, pensò. L’aveva salvato e gli era riconoscente, ma non credeva che gli sarebbe stato d’aiuto nel modo che desiderava. Comunque, per il momento, avrebbe accettato la situazione e aspettato. Prima o poi, ne era certo, sarebbero arrivate le risposte ai mille interrogativi che lo assillavano.

    Una notte fu svegliato dal comando dell’entità.

    Il bagliore vermiglio delle braci languenti brillava nel buio della grotta. Azarel dormiva a poca distanza. Non poté vederlo, ma sentì il suo quieto russare. Capì che la presenza voleva qualcosa. Non fece domande e aspettò.

    Non dovette attendere a lungo.

    Uccidi il vecchio! Fallo adesso!

    Ne fu sgomento. Perché?

    Uccidilo!

    Il comando fu seguito da una serie di lancinanti fitte al capo. Portò le mani alle tempie, piegandosi su se stesso. Doveva obbedire, non aveva scelta.

    Lo farò.

    Il dolore scomparve. Si mosse silenzioso nel buio e si avvicinò all’eremita. Le sue grandi mani circondarono il collo esile e i pollici premettero sulla carotide con forza. Lo sentì sussultare e agitarsi, ma non allentò la stretta. Era debole e non lottò a lungo. Solo quando rimase inerte, senza vita, lo lasciò e sedette sui talloni col respiro affrettato. Era stato facile, fin troppo. Ora il vecchio giaceva come un mucchietto di stracci davanti a lui, che aveva soffocato nel sonno il suo respiro, che l’aveva tradito. Avvertì una costrizione al petto. Un’altra vita troncata. Un altro sacrificio in nome di… di che cosa?

    Preparati a partire. Il cammino è lungo e devi metterti subito in viaggio. Affrettati!

    Obbedì senza esitare, temendo di ricevere un’altra punizione. Infilò in una bisaccia qualche provvista, riempì d’acqua un otre e prese il bastone appartenuto all’eremita. Lasciò la grotta al levar del sole e non si girò indietro.

    Si trovò ad affrontare di nuovo il deserto in cui aveva rischiato di morire, ma almeno questa volta aveva una guida e non avrebbe corso il rischio di smarrirsi.

    Si affidò interamente all’entità e procedette nella direzione che di volta in volta gli veniva indicata. La presenza era pressante, continua. Anche nei momenti in cui non comunicava ne poteva avvertire tutto il potere e aveva paura. Ignorava cosa fosse e perché si stesse servendo di lui, ma non osò fare domande. Aveva detto d’avergli ridato la vita, ma non come né per quale motivo. D’altronde il solo pensiero lo atterriva e preferiva non soffermarsi a considerare ciò che l’affermazione implicava. Ma continuava a porsi interrogativi su se stesso, scavando nel proprio intimo alla ricerca di risposte che non trovava.

    Venne la notte e si fermò in un avvallamento tra formazioni rocciose. Accese un fuoco con degli sterpi e sedette per mangiare un boccone. Si strinse nel mantello con un brivido, mentre scrutava attorno con inquietudine. Le rocce incombevano su di lui, scure e quasi minacciose, stranamente familiari. Frugò nella propria mente alla ricerca d’un indizio che potesse aiutarlo a ricordare, ma come sempre incontrò il nulla, il vuoto che ormai ben conosceva. Era stata la morte a cancellare la sua memoria?

    La risposta giunse inaspettata. Sì.

    Dimmi chi sono! supplicò. Sto impazzendo, non lo capisci?

    Non ancora. Non adesso. Hai un compito da svolgere, prima di conoscere la verità.

    Devi darmi delle spiegazioni. Ho il diritto di sapere. Sono un uomo, non una marionetta che puoi manovrare a tuo piacimento!

    La pausa che seguì fu così lunga da fargli temere che non gli avrebbe dato risposta. Si irrigidì, aspettando di sentire le fitte di dolore, ma non accadde. Invece tornò a comunicare.

    Devi rubare il Sigillo Nero che si trova nella Torre del Silenzio.

    Per farne cosa?

    Lo consegnerai a qualcuno che ne farà l’uso più appropriato. È un talismano assai potente e servirà ai nostri scopi.

    Nostri? Vorrai dire ai tuoi!

    No, servirà anche a te. Lo scoprirai non appena riavrai la memoria e saprai chi sei, cosa sei. Adesso basta parlare. Devi dormire. Dormi!

    Crollò addormentato, cullato dall’eterna, monotona litania del vento.

    Era notte ormai, ma Ildegarda non si mosse. Scrutava nel buio con ansia febbrile, incurante del vento gelido che la sferzava.

    Ogni giorno la giovane principessa si recava sulle mura nella speranza di veder tornare Aiglant, del quale da tempo non aveva più notizie. Non aveva mantenuto la promessa di tornare prima che nascesse il loro bambino ed era svanito nel nulla. Nessuno sapeva quale fine avesse fatto. Ildegarda però continuava ad aspettarlo, anche se ogni giorno che passava le sue speranze si facevano più deboli. Ormai era l’unica a credere ancora nel suo ritorno. A palazzo tutti, incluso suo padre, la compiangevano per come si ostinava a restare aggrappata a quell’esile filo. Mostrarsi fiduciosa e serena diventava sempre più difficile, tuttavia s’imponeva di esserlo. Lo doveva a se stessa e a suo figlio. Da quale fonte attingesse tanta forza non lo sapeva, ma per amore di Aiglant sarebbe andata avanti finché non avesse conosciuto la verità.

    Si strinse nel mantello foderato di pelliccia. Gli occhi le dolevano ed era ormai intirizzita, ma rifiutava di lasciare il suo posto d’osservazione. Non poteva credere che anche quel giorno si sarebbe concluso con un’ennesima delusione.

    «Mia signora, vieni via, ti prego. Vuoi prenderti un malanno?» L’esortò l’ancella.

    Ildegarda si voltò. «Per favore, Ichilda, lasciami restare ancora un po’. Solo pochi minuti.»

    «Tuo padre vuole parlarti. Sai che s’inquieterà se arriverai in ritardo.»

    «Non me ne voglio andare», dichiarò ostinata. «Lui potrebbe arrivare da un istante all’altro.»

    «Non arriverà, mia signora. Non oggi, almeno. Vieni via…» La prese per un braccio e cercò di trarla verso la scala.

    Ildegarda non riusciva a staccarsi dai bastioni, ma l’insistenza di Ichilda ebbe la meglio e si decise a seguirla. Scesero e attraversarono il cortile spazzato dal vento e rischiarato dalle torce per dirigersi verso l’ingresso del palazzo. Ne varcarono frettolosamente la soglia e le due guardie richiusero la porta massiccia dietro di loro. Il fuoco ardeva nel grande camino e nei bracieri diffondendo un gradevole tepore. I servi incaricati di accendere le candele s’inchinarono al suo passaggio.

    Ildegarda si attardò davanti al camino per riscaldarsi, ma Ichilda la sollecitò a sbrigarsi e con un sospiro rassegnato le obbedì.

    Percorsero lunghi corridoi fiocamente illuminati, dove gli armigeri montavano la guardia giorno e notte. Mai come in quel momento il palazzo le parve tetro, quasi opprimente nella sua austerità. Quando arrivarono agli appartamenti privati del re, le guardie la salutarono e le aprirono la porta. Ichilda le fece un cenno e si ritirò.

    Con una lieve esitazione Ildegarda varcò la soglia della stanza sobriamente arredata e avanzò lentamente. Il fuoco era spento e anche nei bracieri le fiamme languivano. Faceva freddo, ma il re non sembrava accorgersene. Seduto al tavolo da lavoro, Teodorico era sommerso dalle scartoffie e stava leggendo un documento.

    «Ah, eccoti qua, finalmente!» le disse senza alzare il capo. «Sei di nuovo stata a far da sentinella sulle mura?»

    Il tono di scherno la ferì, ma preferì ignorarlo. «C’è qualcosa che mi devi dire, padre?» domandò.

    Il re alzò lo sguardo. «Sì, ed è una cosa importante. Non ti vuoi sedere?»

    Ildegarda gli sedette di fronte, mentre lui si attardava a riordinare le carte. Trascorsero alcuni istanti di silenzio; un’attesa che le parve interminabile e che a un certo punto la indusse a sollecitarlo. «Allora, posso sapere di che si tratta?»

    Teodorico sospirò e si appoggiò alla spalliera dello scranno. «Ho preso una decisione riguardo al tuo futuro. Ormai sono più di due anni che tuo marito Aiglant se n’è andato e durante tutto questo tempo non abbiamo avuto sue notizie. Anche se mi spiace dirlo, temo che lo si debba considerare morto e credo che tu debba metterti il cuore in pace.»

    «Aiglant non è morto!» protestò lei.

    «Anch’io vorrei che fosse così, ma non c’è altra spiegazione che giustifichi il suo silenzio. Devi rassegnarti e accettare la realtà.»

    «Quale realtà? Non vi sono prove che mio marito sia morto e mi rifiuto di darlo per scontato solo perché non ha mandato notizie! Forse c’è qualcosa che gli impedisce di tornare, ma lo farà, lo so. Non appena potrà, tornerà a casa.»

    «Ildegarda, ti avverto che sono sul punto di perdere la pazienza! Ti ho lasciato fare, ti ho appoggiato perché so quanto lo ami, ma adesso devi smetterla d’illuderti e pensare a tuo figlio, a te stessa. Tu hai bisogno d’un marito e il bambino deve avere un padre.»

    «Che cosa?» fece lei con voce soffocata.

    «Devi risposarti, figliola, e ho già trovato l’uomo che fa al caso nostro. Il principe Aymaro d’Arville arriverà fra qualche giorno e per Natale daremo l’annuncio ufficiale del matrimonio.»

    «Hai organizzato tutto senza nemmeno consultarmi!»

    «Ho dovuto, perché ti saresti sicuramente opposta. Credimi, l’ho fatto per il tuo bene. Aymaro d’Arville è un buon partito e ti renderà felice.»

    «Come hai potuto farmi questo?» esclamò Ildegarda alzandosi e arretrando. «Non ne avevi il diritto!»

    «Lo avevo, invece, poiché sono tuo padre e, fino a prova contraria, sono anche il tuo re e mi devi obbedienza.»

    «Non sposerò Aymaro né altri se prima non mi porterai la prova inconfutabile che Aiglant è morto!»

    «Ormai è deciso e farai bene ad abituarti all’idea fin da subito. Sei sempre stata una brava figliola ubbidiente e sono certo che dopo averci riflettuto, capirai di non avere scelta.»

    «Mi stai dicendo che se non ti obbedirò mi rinchiuderai in convento?»

    «No, non arriverò a questo, ma potrei segregarti nella torre per qualche tempo, almeno finché non sarai più ragionevole.»

    «In tal caso farò come vuoi», rispose abbassando il capo.

    Teodorico sorrise e le si avvicinò per abbracciarla. «Brava, bambina!» La baciò sulla fronte e aggiunse: «Non avere quell’aria infelice. Se ben ricordi anche quando dovevi sposare Aiglant non eri contenta, ma poi t’innamorasti di lui. Il principe Aymaro è un bell’uomo. Sono certo che saprà conquistarti.»

    «Sì, padre.»

    «Ora va, tuo figlio ti aspetta.»

    Ildegarda s’inchinò e uscì. Camminò come una sonnambula fino alle sue stanze e quando le raggiunse, vi si chiuse e scoppiò in lacrime. Suo padre era stato duro e irremovibile come non mai, ma si sbagliava se s’illudeva che lei cedesse. Non era più una ragazzina e non si sarebbe sottomessa al suo capriccio. Era certa che Aiglant fosse vivo e l’avrebbe aspettato per il resto della sua vita.

    2

    L’uomo senza identità si svegliò verso l’alba.

    Non avvertì alcun segno della presenza e provò quasi un senso d’abbandono e di solitudine. Anche se gli faceva paura, essa rappresentava l’unico legame col suo passato, col suo nome, con la famiglia che certo aveva. Forse c’era una donna che attendeva il suo ritorno, magari persino dei figli. Pur di ritrovare se stesso era pronto ad assecondare in tutto il suo volere.

    Si preparò dopo aver mangiato qualcosa e mentre stava per incamminarsi la voce misteriosa si fece di nuovo sentire per dargli istruzioni.

    Il disco rosso del sole si levò sul deserto illuminandone la figura leggermente ricurva. La sua ombra si proiettava sulla distesa ondulata di dune e ogni suo passo sollevava nubi di polvere color ocra che il vento disperdeva.

    Avanzò per tutto il giorno senza concedersi soste, con la sensazione che l’orizzonte continuasse ad allontanarsi, vuoto, falso e sfuggente come i miraggi che danzavano fra le sabbie mutevoli e insidiose.

    Sul far del tramonto, superata una cresta di dune, si trovò di fronte a una visione che lo fece rabbrividire nonostante il caldo: una distesa ancora più desolata di ciottoli neri come il carbone. Dovunque spingesse lo sguardo non vide altro che una pietraia sconfinata su cui tremolavano, nella loro eterna danza, gli spettri dei miraggi. La contemplò sgomento, assalito da una paura primordiale. Il vento soffiò, gonfiandogli il mantello, mentre muoveva i primi passi nella sassaia.

    Il sole scomparve e ombre color ametista scesero sulla nera pianura. Fu allora che scorse la piccola luce tremolante in distanza; l’unico punto luminoso per tutto lo spazio che il suo sguardo poteva abbracciare.

    Scrutò quel lume palpitante come una stella remota nelle profondità del cosmo. Un bivacco, o forse un segnale. Non era possibile scorgere nient’altro che la minuscola luce scintillante nel buio, ma era come se fosse stata accesa per guidarlo e s’incamminò verso di essa. Le pietre erano ricoperte da un leggero strato di polvere che il vento sollevava e corrugava creando uno strano effetto liquido. Sotto quel velo impalpabile in costante movimento credette di intravedere dei bagliori, brevi guizzi di luce che destarono il suo stupore. Sassi che brillavano nella notte e in distanza una luce solitaria, un faro per guidare il viandante smarrito nella landa ostile e desolata.

    Dovette camminare a lungo e mentre avanzava, ebbe la sensazione che la fiammella si allontanasse, poiché a tratti rimpiccioliva come inghiottita dal muro di tenebre. Lo attribuì a un falso gioco di prospettiva e proseguì, malgrado l’inquietudine non l’abbandonasse. Il bagliore divenne via via più intenso finché, giunto a pochi passi di distanza, assunse una tonalità verdastra. Rabbrividì nel vedere che la fonte della luce non era un fuoco, ma una costruzione. Il solitario monumento si ergeva di fronte a lui diffondendo una luminosità spettrale, arcana e misteriosa. Alzò il capo e ne scrutò l’altezza. Svettava per almeno ottocento piedi ed era cilindrica, sormontata da una cupola tondeggiante. Non aveva ornamenti, fregi, iscrizioni e nemmeno scanalature: la superficie era perfettamente liscia. Era così assurda e inquietante che lui, senza rendersene conto, arretrò di qualche passo.

    La Torre del Silenzio.

    Sembra che non ci sia nessuno.

    Non lasciarti ingannare dall’apparenza. Entra, ma sii cauto.

    Vincendo la propria riluttanza si avvicinò all’adito buio che si spalancava alla base della torre. Fece un passo per varcare la soglia e venne letteralmente risucchiato dentro. Un’ignota forza lo afferrò e lo trascinò verso l’alto. Fu preso dal panico e lottò per opporsi, ma inutilmente. Agitò braccia e gambe come una marionetta, cercando un appiglio a cui aggrapparsi per frenare la vertiginosa salita, ma incontrò soltanto il nulla. Le sue urla silenziose rimbalzarono sulle pareti come sassi lanciati contro un muro di gomma. Il vortice lo portò sempre più su, fino alla cupola, dove finalmente la folle ascesa ebbe fine. Con un tonfo ricadde su una superficie solida, brillante come cristallo.

    Restò immobile qualche attimo per riprendersi e guardarsi attorno. L’ambiente in cui si trovava era immerso nella luce verde. Strane ramificazioni cristalline salivano dal pavimento e fuoruscivano dalle pareti, lanciandosi fino al soffitto e creando strani disegni. A tratti le superfici si corrugavano e lasciavano intravedere forme guizzanti e argentee. Sembrava di essere in un acquario, o in una foresta sommersa. Mentre continuava la sua esplorazione visiva posò lo sguardo su una coppa di vetro cangiante, sorretta da uno stelo sottile come quello d’un fiore, al cui interno si trovava un cristallo del nero più profondo. Era quello l’oggetto che era venuto a cercare.

    Sì, prendilo. Io ti dirò come fare per non svegliare il Custode.

    Obbedì e si avvicinò alla coppa seguendo le istruzioni dell’entità, evitando anche soltanto di sfiorare le stalattiti di cristallo che s’intrecciavano fitte a protezione del talismano. Il tratto era breve, ma gli parve non finisse mai. Il cuore gli martellava e gocciole di sudore brillavano sul suo volto teso per lo sforzo della concentrazione. In certi punti il passaggio era così stretto da obbligarlo a mettersi di fianco e a trattenere il fiato. In altri dovette muoversi strisciando come una serpe. Alla fine ogni ostacolo fu superato e allungò una mano per afferrare il Sigillo. Lo prese con una rapida mossa e si ritrasse appena un istante prima che la coppa si richiudesse con uno scatto. Si concesse qualche attimo per riprender fiato e placare il battito del cuore, poi guardò il cristallo nero. Sembrava uno dei ciottoli della pianura. Era opaco, ma al suo interno scintillavano sprazzi di luce colorala, simili a fulmini in un cielo tempestoso. Avvertì un leggero pulsare e il riflesso di un potere oscuro che lo fece rabbrividire. Lo infilò in un sacchetto che aveva appeso alla cintura e si guardò attorno alla ricerca d’una via d’uscita. Si accorse allora che stava succedendo qualcosa e fu afferrato dalla paura. Le ramificazioni cristalline si frantumarono una dopo l’altra con silenziose esplosioni di luce, pareti, soffitto e pavimento s’incrinarono. L’intera struttura della torre si ripiegò su se stessa, disintegrandosi, sbriciolandosi. Atterrito, si rese conto che la superficie vitrea su cui posava i piedi si sgretolava e non poté far nulla per impedire la propria caduta. Precipitò nel vuoto e nelle tenebre, preda di vortici d’energia impazzita. A malapena si rese conto che a quella velocità si sarebbe sfracellato al suolo, ma a pochi istanti dall’atterraggio qualcosa – qualcuno – rallentò il suo volo e lo fece posare dolcemente. Stordito e frastornato, con le gambe tremanti, si voltò a guardare quel che restava della torre: solo poche macerie che conservavano ancora un debole riflesso della luminescenza verde ma che si stavano disfacendo sotto i suoi occhi, finché non rimase altro che polvere.

    Che cos’è successo?

    È opera del Sigillo Nero. Il suo potere l’ha distrutta. Te l’avevo detto che è un talismano potente.

    Vuoi dire che può distruggere qualsiasi cosa?

    Praticamente sì. E si alimenta dell’energia generata dal sole, dagli astri, dalle creature viventi e… da altri talismani. Soprattutto da questi ultimi.

    E spaventoso!

    Sì, ma assai utile.

    Che cosa devo farne adesso?

    Qualcuno sta venendo a prenderlo. Eccolo, sta arrivando…

    Scandagliò con lo sguardo nel buio. Non vedo nessuno.

    Alza gli occhi e lo vedrai.

    Lo fece e vide una grande ombra alata planare sopra di lui. L’aria prodotta dal rapido spostamento gli soffiò sul volto mentre l’uccello si posava con eleganza al suolo e ripiegava le ali dai riflessi d’acciaio brunito. Ebbe appena il tempo di ammirarne la bellezza aerodinamica che avvenne una trasformazione. Restò senza fiato nell’assistere al prodigio e pochi istanti dopo fissò sbalordito l’uomo alto e muscoloso che aveva davanti. Lo guardò stirarsi e flettere i muscoli, muovere il capo da una parte e dall’altra, e poi si ritrovò fissato a sua volta.

    «Ho bisogno di qualcosa da mettermi addosso», gli disse.

    Si mise a frugare nella sacca trafugata all’eremita e trovò una tunica logora e un paio di brache sdrucite che gli diede. «Temo di non avere di meglio da offrirti.»

    L’altro sorrise nel prenderli. «Vanno benissimo», rispose indossandoli. Non appena vestito tornò a guardarlo. «Mi chiamo Eldred. Il mio nome non ti dice niente?»

    Scosse il capo rabbrividendo. «Come potrebbe? Non so nemmeno chi sono io!»

    Uno strano, inquietante sorriso increspò le labbra di Eldred. «Credo sia arrivato il momento di far luce sulla tua identità e su molte altre cose. Ma prima dammi il Sigillo.»

    Arretrò di un passo davanti alla mano tesa. «Che cosa intendi farne? Io ho visto il terribile potere di questo talismano e…»

    Devi darglielo! intervenne l’entità. Era questo il patto.

    Sentì l’ondata di collera minacciosa, tutta la furia che si sarebbe scatenata contro di lui se si fosse ostinato nel rifiuto, e ancora una volta cedette. Prese il sacchetto e lo diede a Eldred. Era impotente di fronte alla forza della magia dei due esseri, e vulnerabile.

    Se ne rese conto ancor più quando la sua mente fu invasa e sommersa dalla marea dei ricordi; un flusso violento, inarrestabile, turbinoso come un’onda di piena. L’impatto lo stordì, facendolo vacillare. Si strinse il capo tra le mani, mentre in pochi attimi riviveva tutta la sua vita e ritrovava i volti delle persone che aveva amato, che aveva odiato, combattuto e ucciso. Sua madre, la regina Alinor, che aveva tramato e ingannato per conquistare il trono per sé e per lui. Ildegarda, la sua sposa burgunda, e Ivain d’Austrasia, il re senza corona che l’aveva ucciso nella cripta della remota fortezza sulle montagne, dopo che erano fuggiti da Kaer-Dun e dai Veglianti. Si agitò in balia della tempesta dei ricordi ripercorrendo le vie del suo passato, dall’infanzia alla maturità, fino a rivivere l’istante fatale della propria morte, l’agonia e infine il nulla, il limbo ovattato nel quale era stato immerso, il sonno da cui era stato ridestato da… dalla cosa innominabile che ora dominava la sua mente e la sua volontà.

    Era la creatura dal potere oscuro e terribile che era stato sul punto di liberare…

    Lambacus e Aiglant uscirono finalmente dalle tenebrose gallerie e si trovarono in una grande cripta polverosa in cui le ragnatele formavano cortine di notevole consistenza e spessore. Si fermarono esitanti di fronte all’ostacolo, intimoriti dal buio fitto che la fiamma della torcia non riusciva a penetrare, ma la forza che li aveva guidati fin lì esercitò pressioni sulla loro volontà e li spinse ad andare avanti ed essi non poterono che obbedire al comando imperioso. Lottarono per lacerare quella barriera elastica e resistente e non s’accorsero del pericolo, della presenza minacciosa che stava per aggredirli. Essendo il più vicino, fu Lambacus a cadere vittima del gigantesco aracnide e lui non poté far altro che assistere impotente alla sua fine terribile, preparandosi a fronteggiare il mostro furente. La sua spada si levò e ricadde più volte sul corpo lanuginoso e infine le zampe si ritrassero, abbandonando la preda che avevano ghermito. Una sostanza giallastra fuoriuscì dalle ferite formando una chiazza fetida sul pavimento. Il corpo di Lambacus era ripiegato su se stesso in una posa grottesca. Aiglant gli si avvicinò e non poté che constatarne la morte. Non provò dolore né collera, ma soltanto un grande senso di vuoto, che peraltro si dileguò appena qualche attimo dopo, quando la forza che si era impadronita di lui gli impose di proseguire. Lasciò il cadavere dell’amico e andò avanti, lacerando le ragnatele con la spada e raggiungendo il centro della cripta.

    Si fermò col respiro affannoso e guardò il disco di pietra incassato nel pavimento. Al centro si trovava un anello metallico. Aiglant estrasse la Pietra Celeste dal sacchetto e tenendola fra le mani si avvicinò all’anello, inginocchiandosi per inserirla… Ma d’improvviso esitò e si ritrasse. Un barlume di lucidità s’aprì un varco attraverso la barriera creata dal potere estraneo e si rese conto di ciò che stava per fare. Ma quel debole guizzo venne sopraffatto dal potere oscuro. Nuovamente succube, avvicinò la gemma all’anello e socchiuse gli occhi, abbagliato dal suo fulgore…

    Ivain irruppe nella cripta proprio in quel momento.

    Aiglant sentì il suo grido e trasalì, lasciandosi sfuggire il talismano, e afferrata la spada lo affrontò.

    L’impatto fra le due lame fu violento e il suono si propagò amplificato. Ivain parò i

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