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La terra dimenticata dal tempo
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E-book392 pagine8 ore

La terra dimenticata dal tempo

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Info su questo ebook

Nel 1916, mentre infuria la Prima Guerra Mondiale, il giovane Bowen Tyler cattura un U-Boot tedesco ma, impossibilitato a trovare un porto sicuro, finisce per approdare a Caspak, un'isola sconosciuta in cui l'evoluzione ha preso strade diverse rispetto al resto del mondo, e le bestie preistoriche convivono con gli umani, a loro volta suddivisi in uomini preistorici e creature più evolute.
Mentre Tyler cerca di sopravvivere e fuggire, viene organizzata una spedizione di salvataggio. Ma anche i nuovi arrivati dovranno confrontarsi con i pericoli e i misteri dell'isola…
Per la prima volta in italiano la trilogia di Caspak ("La terra dimenticata dal tempo", "Il popolo dimenticato dal tempo" e "Negli abissi del tempo") racchiusa in un solo volume.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2021
ISBN9791280243164
La terra dimenticata dal tempo
Autore

Edgar Rice Burroughs

American writer Edgar Rice Burroughs (1875 - 1950) worked many odd jobs before professionally writing. Burroughs did not start writing until he was in his late 30s while working at a pencil-sharpener wholesaler. But after following his call to writing, Burroughs created one of America's most enduring adventure heroes: Tarzan. Along with his novels about Tarzan, Burroughs wrote the notable Barsoom series, which follows the Mars adventurer John Carter.

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    Anteprima del libro

    La terra dimenticata dal tempo - Edgar Rice Burroughs

    land_cover.jpgCopertina

    60

    Dello stesso autore nella collana Altair:

    Al centro della Terra

    Edgar Rice Burroughs, La terra dimenticata dal tempo

    1a edizione Landscape Books, maggio 2021

    Collana Aurora n° 60

    © Edgar Rice Burroughs 1918

    © Landscape Books 2021

    Titolo originale: The Land that Time Forgot, The People that Time Forgot, Out of the Time's Abyss

    Traduzione di Sofia Riva

    www.landscape-books.com

    ISBN 979-12-80243-16-4

    In copertina: rielaborazione da John J. Allen

    Edizione digitale a cura di WAY TO ePUB

    Edgar Rice Burroughs

    La terra dimenticata

    dal tempo

    La terra dimenticata dal tempo

    I.

    Dovevano essere passate da poco le tre del pomeriggio quando accadde – il pomeriggio del 3 giugno 1916. Sembra incredibile che tutto quello che ho passato – tutte quelle esperienze strane e terrificanti – sia racchiuso in un arco di tempo così breve come tre mesi. Mi sembra di aver vissuto un ciclo cosmico, con tutti i suoi mutamenti ed evoluzioni se penso a ciò che ho visto con i miei occhi in questo intervallo di tempo – cose che nessun altro occhio mortale aveva visto prima, scorci di un mondo passato, un mondo sparito, un mondo morto da così tanto tempo che non ne rimane traccia neppure nel più basso strato Cambriano. Fuso con la crosta interna incandescente, è passato per sempre al di là della conoscenza umana, salvo che in quell’angolo sperduto della Terra dove il fato mi ha condotto e dove il mio destino è segnato. Sono qui e qui devo rimanere.

    Dopo aver letto fino a questo punto, il mio interesse, che era già stato stimolato dal ritrovamento del manoscritto, si avvicinava al punto di ebollizione. Ero venuto in Groenlandia per l’estate, su consiglio del mio medico, e mi stavo annoiando a morte, poiché avevo scioccamente trascurato di portare con me letture a sufficienza. Visto che come pescatore ero scarso, il mio entusiasmo per questa forma di sport era svanito presto; tuttavia, in assenza di altre forme di svago, stavo rischiando la pelle in una barca assolutamente inadeguata al largo di Capo Farewell, all’estremità sud della Groenlandia.

    Groenlandia! Come descrizione, è un triste scherzo¹ – ma la mia storia non ha niente a che fare con la Groenlandia, niente a che fare con me; quindi esaurirò l’uno e l’altro argomento il più rapidamente possibile.

    L’inadeguata imbarcazione arrivò finalmente a un approdo precario, mentre gli indigeni, immersi fino alla vita nelle onde, mi aiutavano. Fui portato a terra, e mentre veniva preparato il pasto serale, andavo avanti e indietro lungo la riva rocciosa e frantumata. Frammenti di sabbia trascinata dalle onde fendevano il granito consumato, o qualunque fosse la sostanza di cui sono composte le rocce di Cape Farewell, e mentre seguivo il flusso della marea lungo uno di questi tratti morbidi, vidi la cosa. Se uno si imbattesse in una tigre del Bengala nel burrone dietro i Bagni di Bimini, non potrebbe essere più sorpreso di quanto lo sia stato io nel vedere un thermos in perfetto stato girare su se stesso tra le onde di Cape Farewell, all’estremità meridionale della Groenlandia. L’ho recuperato, ma ero bagnato fino alle ginocchia; poi mi sono seduto sulla sabbia e l’ho aperto, e nella luce allungata del crepuscolo ho letto il manoscritto, ben scritto e ben piegato, che ne costituiva il contenuto.

    Avete letto il paragrafo iniziale, e se siete degli idioti fantasiosi come me, vorrete leggere il resto; quindi ve lo offrirò qui, omettendo le virgolette, che sono difficili da ricordare. Tra due minuti mi dimenticherete.

    Abito a Santa Monica. Sono, o ero, il socio giovane dell’azienda di mio padre. Siamo costruttori di navi. Negli ultimi anni ci siamo specializzati in sottomarini, che abbiamo costruito per Germania, Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Conosco un sottomarino come una madre conosce il volto del suo bambino, e ne ho comandato una ventina durante le prove. Eppure le mie inclinazioni erano tutte verso l’aviazione. Mi sono diplomato con Curtiss, e dopo aver a lungo assediato mio padre ho ottenuto il permesso di entrare nella Squadriglia Lafayette. Per cominciare ottenni una nomina nel servizio di ambulanza americano e stavo andando in Francia quando tre fischi stridenti cambiarono, in altrettanti secondi, tutti i miei progetti di vita.

    Ero seduto sul ponte con alcuni dei ragazzi che sarebbero entrati anche loro nel servizio di ambulanza americano, il mio cane Airedale, Crown Prince Nobbler, dormiva ai miei piedi, quando il primo fischio infranse la pace e la tranquillità della nave. Da quando eravamo entrati nella zona degli U-Boot, eravamo sempre stati all’erta alla ricerca di periscopi, e sembravamo bambini che si lamentano del destino crudele che ci avrebbe portato al sicuro in Francia l’indomani, senza aver avvistato i temibili predoni. Eravamo giovani; avevamo voglia di emozioni, e Dio sa se le abbiamo avute quel giorno; tuttavia, in confronto a quelle che ho vissuto poi, quelle erano banali come uno spettacolo di Punch e Judy.

    Non dimenticherò mai le facce ceree dei passeggeri che si affrettavano a prendere i loro salvagenti, anche se non c’era da temere. Nobs si alzò con un basso ringhio. Anch’io mi alzai e, oltre il fianco della nave, vidi a non più di duecento metri il periscopio di un sottomarino, mentre si vedeva chiaramente la scia di un siluro che correva verso di noi. Eravamo a bordo di una nave americana che, naturalmente, non era armata. Eravamo completamente indifesi; eppure, senza preavviso, ci stavano attaccando.

    Rimasi rigido, incantato, a guardare la scia bianca del siluro. Ci colpì sul lato di dritta, quasi al centro della nave. La nave oscillò come se il mare fosse stato sconvolto dall’eruzione di un vulcano. Cademmo sul ponte, contusi e storditi, e poi sopra la nave, portando con sé frammenti di acciaio e legno e corpi umani smembrati, si alzò in aria una colonna d’acqua di centinaia di metri.

    Il silenzio che seguì la detonazione del siluro fu quasi altrettanto orribile. Durò forse due secondi, per essere seguito dalle urla e dai gemiti dei feriti, dalle imprecazioni degli uomini e dai rauchi comandi degli ufficiali della nave. Erano splendidi, loro e il loro equipaggio. Mai prima d’ora ero stato così orgoglioso del mio paese come in quel momento. In tutto il caos che seguì il siluramento nessun ufficiale o membro dell’equipaggio perse la testa o mostrò il minimo segno di panico o paura.

    Mentre cercavamo di calare le scialuppe, il sottomarino emerse e puntò le armi su di noi. L’ufficiale al comando ci ordinò di ammainare la bandiera, ma il capitano del transatlantico si rifiutò di farlo. La nave stava sbandando paurosamente a dritta, rendendo le barche di sinistra inutilizzabili, mentre metà delle barche di destra erano state demolite dall’esplosione. Nonostante i passeggeri si affollassero sul parapetto di destra e si arrampicassero sulle poche barche rimaste, il sottomarino cominciò a bombardare la nave. Ho visto una granata scoppiare in mezzo a un gruppo di donne e bambini, e a quel punto ho girato la testa e mi sono coperto gli occhi.

    Quando guardai di nuovo all’orrore si aggiunse il dispiacere, perché ora che era emerso riconoscevo l’U-Boot come un prodotto dei nostri cantieri. Lo conoscevo alla perfezione. Avevo supervisionato la sua costruzione. Mi ero seduto in quella stessa torre di comando e avevo diretto l’equipaggio, quando per la prima volta la sua prua aveva solcato le assolate acque estive del Pacifico; e ora questa creatura uscita dal mio cervello e dalla mia mano era diventata come Frankenstein, deciso a inseguirmi fino alla morte.

    Una seconda granata esplose sul ponte. Una delle scialuppe, spaventosamente sovraffollata, oscillò pericolosamente sui suoi ganci. Un frammento della granata frantumò il paranco di prua, e vidi le donne e i bambini e gli uomini vomitati nel mare sottostante, mentre la barca penzolò per un momento a poppa dall’unico gancio rimasto, e alla fine con uno slancio precipitò in mezzo alle vittime che urlavano e si dibattevano nelle acque.

    Poi vidi uomini saltare oltre il parapetto e gettarsi nell’oceano. Il ponte si inclinava a un angolo impossibile. Nobs si tenne forte con tutte e quattro le zampe per evitare di scivolare negli ombrinali e mi guardò con un lamento interrogativo. Mi chinai e gli accarezzai la testa.

    «Vieni, ragazzo!», gridai, e correndo verso il lato della nave, mi tuffai a capofitto oltre il parapetto. Quando risalii, la prima cosa che vidi fu Nobs che nuotava disorientato a pochi metri da me. Alla mia vista le sue orecchie si appiattirono e le sue labbra si aprirono in un caratteristico sorriso.

    Il sottomarino si stava ritirando verso nord, ma continuava incessantemente a bombardare le barche al largo, tre delle quali erano cariche di sopravvissuti. Fortunatamente le piccole imbarcazioni rappresentavano un bersaglio piuttosto difficile, il che, combinato con la cattiva mira dei tedeschi, salvò i loro occupanti; e dopo pochi minuti una macchia di fumo apparve all’orizzonte orientale e l’U-Boot si immerse e scomparve.

    Le scialuppe si erano allontanate dal transatlantico che affondava, e ora, anche se urlavo a squarciagola, o non sentivano le mie richieste di aiuto o non osavano tornare a soccorrermi. Nobs e io avevamo guadagnato una piccola distanza dalla nave quando questa si rovesciò completamente e affondò. Fummo catturati dal risucchio abbastanza da essere trascinati all’indietro per qualche metro, ma non finimmo sott’acqua. Mi guardai rapidamente intorno in cerca di qualcosa a cui aggrapparmi. I miei occhi erano rivolti verso il punto in cui il transatlantico era scomparso, quando dalle profondità dell’oceano giunse il riverbero ovattato di un’esplosione, e quasi contemporaneamente un geyser d’acqua in cui c’erano scialuppe di salvataggio in frantumi, corpi umani, vapore, carbone, petrolio e i rottami del ponte di un transatlantico volò sopra la superficie del mare: una colonna acquosa che segnava per un momento la tomba di un’altra nave nel più grande cimitero dei mari.

    Quando le acque turbolente in qualche modo si placarono e il mare smise di vomitare relitti, mi avventurai a nuoto alla ricerca di qualcosa di abbastanza solido da sostenere il mio peso e quello di Nobs. Avevo superato in scioltezza l’area del relitto, quando, non più di una mezza dozzina di metri davanti a me, una scialuppa venne sputata dall’oceano per quasi tutta la sua lunghezza e si abbatté sulla chiglia con un potente tonfo. Doveva essere stata trasportata molto in fondo, trattenuta alla nave madre da una corda che alla fine si era spezzata per l’enorme sforzo. In nessun altro modo posso spiegare il suo salto, una circostanza benefica alla quale devo senza dubbio la mia vita e un’altra molto più cara della mia. Dico circostanza benefica anche di fronte al fatto che ci aspettava un destino molto più orribile di quello a cui eravamo appena scampati; perché grazie a quella circostanza ho incontrato colei che altrimenti non avrei mai conosciuto; l’ho incontrata e amata. Almeno ho avuto questa grande felicità nella vita; né Caspak, con tutti i suoi orrori, può cancellare ciò che è stato.

    Così, per la millesima volta, ringrazio lo strano destino che ha fatto risalire quella scialuppa di salvataggio dalla fossa verde di distruzione in cui era stata trascinata, l’ha mandata molto più in alto della superficie, svuotandosi d’acqua mentre saliva sopra le onde, e l’ha lasciata cadere sulla superficie del mare, galleggiante e sicura.

    Non mi ci volle molto per arrampicarmi sulla fiancata e trascinare Nobs in una relativa sicurezza, e poi guardai intorno il panorama di morte e desolazione che ci circondava. Il mare era disseminato di relitti tra i quali galleggiavano forme pietose di donne e bambini, sostenuti da inutili salvagenti. Alcuni erano straziati e maciullati; altri seguivano tranquillamente il movimento del mare, i loro volti composti e pacifici; altri erano bloccati in orribili espressioni di agonia o di orrore. Accanto alla barca galleggiava la figura di una ragazza. Il suo viso era rivolto verso l’alto, tenuto al di sopra della superficie dal suo salvagente, ed era incorniciato da una massa fluttuante di capelli scuri e ondeggianti. Era molto bella. Non avevo mai visto dei lineamenti così perfetti, una figura così divina che era allo stesso tempo umana, intensamente umana. Era un volto pieno di carattere, forza e femminilità – il volto di chi è stato creato per amare ed essere amato. Le guance erano rosse del colore della vita, della salute e della vitalità, eppure lei giaceva lì nel grembo del mare, morta. Sentii qualcosa salirmi in gola mentre guardavo quella visione radiosa, e giurai che avrei vissuto per vendicare il suo assassinio.

    E poi lasciai cadere i miei occhi ancora una volta sullo specchio d’acqua, e quello che vidi quasi mi fece ricadere nel mare, perché gli occhi nel volto morto si erano aperti; le labbra si erano aperte; e una mano era sollevata verso di me in un muto appello di soccorso. Era viva! Non era morta! Mi chinai sul lato della barca e la trassi rapidamente verso la relativa sicurezza che Dio mi aveva dato. Le tolsi il salvagente e con il mio cappotto fradicio le feci un cuscino per la testa. Le massaggiai le mani, le braccia e i piedi. Continuai per un’ora, e alla fine fui ricompensato da un profondo sospiro, e di nuovo quei grandi occhi si aprirono e guardarono nei miei.

    A quel punto ero un imbarazzo. Non sono mai stato un donnaiolo; a Leland-Stanford ero lo zimbello della classe a causa della mia imbecillità senza speranza in presenza di una bella ragazza; comunque stavo simpatico agli uomini. Quando aprì gli occhi le stavo strofinando una mano, e la lasciai cadere come se fosse un chiodo arroventato. Quegli occhi mi scrutarono lentamente dalla testa ai piedi; poi vagarono lentamente verso l’orizzonte segnato dall’alzarsi e dall’abbassarsi dei bordi della scialuppa. Guardarono Nobs e si ammorbidirono, poi tornarono a me pieni di domande.

    «Io...», balbettai, allontanandomi e inciampando sul banco di voga. La visione sorrise malinconicamente.

    «Già!», rispose debolmente, e di nuovo le sue labbra si abbassarono, e le sue lunghe ciglia sfiorarono la consistenza soda e chiara della sua pelle.

    «Spero che vi sentiate meglio», riuscii finalmente a dire.

    «Sapete», disse dopo un momento di silenzio, «sono stata sveglia per molto tempo! Ma non osavo aprire gli occhi. Credevo di essere morta e avevo timore di guardare, per paura di vedere solo il nero intorno a me. Ho paura di morire! Ditemi cosa è successo dopo che la nave è affondata. Ricordo tutto quello che è successo prima – oh, ma vorrei poterlo dimenticare!»

    Un singhiozzo le spezzò la voce. «Quelle bestie!», continuò dopo un momento. «E pensare che avrei dovuto sposare uno di loro, un tenente della marina tedesca».

    Poi riprese come se non avesse mai smesso di parlare. «Andavo sempre più a fondo. Pensavo che non avrei mai smesso di affondare. Non sentivo nessuna angoscia particolare fino a quando improvvisamente ho cominciato a salire a velocità sempre maggiore; allora i miei polmoni sembravano sul punto di scoppiare, e devo aver perso conoscenza, perché non ricordo altro fino a quando non ho aperto gli occhi dopo aver ascoltato un torrente di invettive contro la Germania e i tedeschi. Ditemi, per favore, cosa è successo dopo che la nave è affondata».

    Le raccontai allora, meglio che potei, tutto quel che avevo visto: il sottomarino che bombardava le barche e tutto il resto. Lei giudicò meraviglioso che fossimo stati risparmiati in modo così provvidenziale, e io avevo un bel discorso sulla punta della lingua, ma mi mancò il coraggio di pronunciarlo. Nobs si era avvicinato e le aveva messo il muso in grembo, e lei gli accarezzava quel brutto muso, e alla fine si chinò e gli appoggiò la guancia sulla fronte. Ho sempre ammirato Nobs; ma era la prima volta che mi capitava di desiderare di essere Nobs. Mi chiedevo come l’avrebbe presa, visto che non è abituato alle donne come me. Ma l’ha presa come un’anatra prende l’acqua. Quello che mi manca per essere un dongiovanni, Nobs lo compensa certamente. Il vecchio mascalzone non ha fatto altro che chiudere gli occhi e assumere una delle più riuscite espressioni dolce come lo zucchero che abbiate mai visto, e stava lì a prendersi le coccole e a chiederne ancora. Lo invidiavo.

    «Sembra che vi piacciano i cani», dissi.

    «Sono affezionata a questo cane», rispose lei.

    Non so se intendesse qualcosa di personale in quella risposta; ma la presi come personale e mi fece molto piacere.

    Mentre andavamo alla deriva su quella vasta distesa di solitudine, non è strano che facessimo conoscenza. Scrutavamo costantemente l’orizzonte in cerca di segni di fumo, azzardando ipotesi sulle nostre possibilità di salvataggio; ma le tenebre calarono, e la notte nera ci avvolse senza mai vedere un segnale di salvezza.

    Avevamo sete, fame e freddo. I nostri indumenti bagnati si erano asciugati poco e sapevo che la ragazza rischiava molto in una notte fredda e umida sull’acqua, senza vestiti adeguati e senza cibo. Mettendo le mani a coppa ero riuscito a tirare fuori tutta l’acqua dalla barca, finendo con l’asciugare il resto con il mio fazzoletto – una procedura lenta e faticosa; così avevo creato un posto relativamente asciutto sul fondo della barca perché la ragazza potesse sdraiarsi, un punto dove i lati l’avrebbero protetta dal vento della notte, e quando finalmente lo fece, quasi sopraffatta com’era dalla debolezza e dalla fatica, le gettai addosso il mio cappotto bagnato per contrastare il gelo. Ma non servì a nulla; mentre ero seduto a guardarla, con la luce della luna che lambiva le curve aggraziate del suo giovane corpo snello, la vidi tremare.

    «C’è qualcosa che posso fare?», chiesi. «Non potete stare lì al freddo tutta la notte. Cosa si può fare?»

    Scosse la testa. «Dobbiamo sorridere e sopportare», rispose dopo un momento.

    Nobbler si avvicinò e si sdraiò sull’argano accanto a me, la sua schiena contro la mia gamba, e io rimasi seduto a fissare la ragazza con stupida sofferenza, sapendo nel profondo del mio cuore che poteva morire prima che arrivasse il mattino, perché tra lo shock e il freddo, ne aveva già passate abbastanza da uccidere qualsiasi donna. E mentre la guardavo, così piccola, delicata e indifesa, nel mio petto nacque lentamente una nuova emozione. Non c’era mai stata prima; ora non cesserà mai di esserci. Mi sentivo quasi frenetico dal desiderio di trovare un modo per mantenere calda la fredda linfa vitale nelle sue vene. Anch’io avevo freddo, anche se l’avevo quasi dimenticato fino a quando Nobbler non si mosse e sentii di nuovo freddo lungo la gamba contro cui si era appoggiato, e improvvisamente mi resi conto che in quell’unico punto ero stato caldo. Come un’illuminazione capii come riscaldare la ragazza. Immediatamente mi inginocchiai accanto a lei per mettere in pratica il mio piano, quando improvvisamente fui sopraffatto dall’imbarazzo. Lo avrebbe permesso, anche se avessi trovato il coraggio di suggerirlo? Poi vidi il suo corpo convulso, tremante, i suoi muscoli che reagivano al rapido abbassamento della temperatura, e gettando al vento la pruderie, mi gettai accanto a lei e la presi tra le braccia, stringendo il suo corpo al mio.

    Si allontanò improvvisamente, emettendo un piccolo grido di paura, e cercò di spingermi via da lei.

    «Perdonatemi», riuscii a balbettare. «È l'unico modo. Morirete di freddo altrimenti, e Nobs e io siamo gli unici mezzi che possano fornire calore». E la tenni stretta mentre chiamavo Nobs e lo feci sdraiare alle sue spalle. La ragazza smise di dimenarsi quando capì il mio proposito; ma emise due o tre piccoli rantoli, e poi cominciò a piangere dolcemente, nascondendo il viso sul mio braccio, e così si addormentò.


    ¹ In inglese Greenland, Terra Verde (NdT)

    II.

    Verso il mattino devo essermi assopito, anche se in quel momento mi sembrava di essere rimasto sveglio per giorni, invece che per ore. Quando finalmente aprii gli occhi, era giorno, e i capelli della ragazza erano sul mio viso, e lei respirava normalmente. Ringraziai Dio per questo. Si era girata durante la notte, così che quando aprii gli occhi vidi il suo viso a pochi centimetri dal mio, le mie labbra quasi a toccare le sue.

    Fu Nobs che finalmente la svegliò. Si alzò, si stiracchiò, si girò alcune volte e si sdraiò di nuovo, e la ragazza aprì gli occhi e guardò nei miei. I suoi all'inizio si spalancarono, poi lentamente ricordò, e sorrise.

    «Siete stato molto buono con me», disse, mentre l’aiutavo ad alzarsi, anche se, a dire la verità, avevo più bisogno di assistenza di lei; la circolazione del sangue lungo tutto il mio lato sinistro sembrava completamente paralizzata. «Siete stato molto buono con me». E questo fu l’unico accenno che fece alla faccenda; tuttavia avevo capito che mi era grata e che solo il pudore le impediva di fare riferimento a quella situazione a dir poco imbarazzante, per quanto inevitabile.

    Poco dopo l’alba vedemmo del fumo che sembrava venire dritto verso di noi, e dopo un po’ scorgemmo la sagoma tozza di un rimorchiatore, uno di quegli impavidi esponenti della supremazia inglese sul mare che rimorchia i velieri nei porti francesi e britannici. Mi misi in piedi su un contrafforte e agitai il cappotto fradicio sopra la testa. Nobs era in piedi su un altro e abbaiava. La ragazza sedeva ai miei piedi e tendeva gli occhi verso il ponte dell’imbarcazione in arrivo. «Ci vedono», disse infine. «Un uomo sta rispondendo al segnale». Aveva ragione. Mi venne un groppo in gola – pensando a lei, più che a me. Era stata salvata, e al momento giusto. Non avrebbe potuto sopravvivere un’altra notte sulla Manica; non avrebbe potuto arrivare viva al giorno successivo.

    Il rimorchiatore si avvicinò e un uomo sul ponte ci gettò una corda. Mani volenterose ci trascinarono sul ponte, Nobs salì a bordo agilmente senza bisogno di aiuto. Quegli uomini rudi furono gentili come madri verso la ragazza. Facendo domande a entrambi, portarono lei nella cabina del capitano e io nel locale caldaie. Dissero alla ragazza di togliersi i vestiti bagnati e di gettarli fuori dalla porta per farli asciugare, e poi di infilarsi nella cuccetta del capitano e scaldarsi. Non c’è stato bisogno che mi dicessero di spogliarmi dopo essere entrato nel calore del locale caldaia. In un batter d’occhio, i miei vestiti erano appesi dove potevano asciugarsi più rapidamente, e io stesso assorbivo, attraverso ogni poro, il piacevole caldo del soffocante ambiente. Ci portarono zuppa calda e caffè, e poi quelli che non erano in servizio si sedettero accanto a me e mi aiutarono a insultare il Kaiser e la sua stirpe.

    Non appena i nostri vestiti furono asciutti, ci ordinarono di indossarli, poiché in quelle acque c’erano sempre ottime possibilità di incontrare nemici, come sapevo fin troppo bene. Con il calore e la sensazione di sicurezza per la ragazza, e la consapevolezza che un po’ di riposo e di cibo le avrebbero rapidamente fatto dimenticare le tristi esperienze delle ultime ore, mi sentivo soddisfatto più di prima che quei tre fischi sconvolgessero la pace del mio mondo il pomeriggio precedente.

    Ma la pace sulla Manica era una situazione transitoria ormai dall’agosto 1914. Quella mattina non fece eccezione, perché avevo appena indossato i miei abiti asciutti e portato i vestiti della ragazza nella cabina del capitano, quando in sala macchine urlarono l’ordine di andare a tutta velocità, e un istante dopo sentii il sordo colpo di un cannone. In un attimo ero sul ponte e vidi un sottomarino nemico a circa duecento metri dalla nostra prua sinistra. Ci aveva fatto segno di fermarci, e il nostro capitano aveva ignorato l’ordine; ma ora aveva il cannone puntato su di noi, e il secondo colpo sfiorò la cabina, avvertendo il bellicoso capitano del rimorchiatore che era ora di obbedire. Ancora una volta un ordine scese nella sala macchine, e il rimorchiatore ridusse la velocità. L’U-Boot smise di sparare e ordinò al rimorchiatore di avvicinarsi. Il nostro slancio ci aveva portato un po’ oltre l’imbarcazione nemica, ma ora stavamo girando sull’arco di un cerchio che ci avrebbe portato al suo fianco. Mentre osservavo la manovra e mi chiedevo cosa ne sarebbe stato di noi, sentii qualcosa che mi toccava il gomito e quando mi voltai vidi la ragazza al mio fianco. Mi guardò in faccia con un’espressione triste. «Sembrano decisi a distruggerci», disse, «e sembra la stessa barca che ci ha affondato ieri».

    «È così», risposi. «La conosco bene. Ho aiutato a progettarla e l’ho guidata nel suo primo viaggio».

    La ragazza si ritrasse da me con una piccola esclamazione di sorpresa e delusione. «Pensavo foste un americano», disse. «Non avevo idea che foste un...»

    «Nemmeno io», risposi. «Gli americani hanno costruito sottomarini per tutte le nazioni per molti anni. Sarebbe stato meglio, però, che fossimo andati in bancarotta, io e mio padre, prima di produrre quel Frankenstein».

    Ci stavamo avvicinando all’U-Boot a velocità ridotta, e potevo quasi distinguere i lineamenti degli uomini sul suo ponte. Un marinaio si avvicinò al mio fianco e mi mise in mano qualcosa di duro e freddo. Non dovetti guardarlo per capire che era una pesante pistola. «Prendila e usala», fu tutto quello che disse.

    La nostra prua era puntata dritta verso l’U-Boot, mentre sentivo passare parola alla sala macchine di andare a tutta velocità. Capii immediatamente la sfacciataggine del coraggioso capitano inglese: stava per speronare cinquecento tonnellate di U-Boot davanti al suo cannone. Riuscii a malapena a reprimere un applauso. All’inizio i crucchi non sembrarono capire. Evidentemente pensavano di assistere a una pessima esibizione di arte marinaresca, e avvertirono il rimorchiatore di ridurre la velocità e spingere il timone a babordo.

    Eravamo a cinquanta piedi da loro quando compresero l’intenzionalità della nostra manovra. L’equipaggio del loro cannone era fuori guardia; ma subito corsero alla loro arma e mandarono un inutile proiettile sopra le nostre teste. Nobs saltò e abbaiò furiosamente. «Fategliela vedere!», ordinò il capitano del rimorchiatore, e all’istante rivoltelle e fucili riversarono proiettili sul ponte del sommergibile. Due dell’equipaggio del cannone finirono a terra; gli altri puntarono il loro pezzo d’artiglieria sulla linea d’acqua del rimorchiatore in arrivo. Il resto di quelli sul ponte rispose al nostro fuoco di armi leggere, dirigendo i loro sforzi verso l’uomo al timone.

    Spinsi frettolosamente la ragazza giù per il corridoio che portava alla sala macchine, poi sollevai la pistola e sparai il mio primo colpo a un crucco. Ciò che accadde nei secondi successivi fu così rapido che i dettagli sono piuttosto sfocati nella mia memoria. Il timoniere si sporse, tirando la barra in modo che il rimorchiatore si allontanasse rapidamente dalla sua rotta, e ricordo di aver capito che tutti i nostri sforzi sarebbero stati vani, perché di tutti gli uomini a bordo, il destino aveva decretato che proprio lui dovesse cadere per primo sotto un proiettile nemico. Vidi l’equipaggio esausto del sottomarino sparare con il cannone, sentii lo shock dell’impatto e la fragorosa esplosione quando il proiettile raggiunse il bersaglio e scoppiò sulla nostra prua.

    Vidi e compresi queste cose mentre saltavo nella cabina di pilotaggio e afferravo il timone, a cavalcioni del cadavere del timoniere. Con tutte le mie forze gettai il timone a dritta; ma era troppo tardi per raggiungere lo scopo del nostro capitano. Il meglio che potevo fare era di speronare il sottomarino. Sentii qualcuno gridare un ordine nella sala macchine; la barca tremò e si agitò per l’improvvisa inversione dei motori, e la nostra velocità diminuì rapidamente. Poi capii cosa si era inventato quel pazzo del capitano dopo che il suo primo piano era andato a monte.

    Con un ordine ad alta voce, saltò sul ponte scivoloso del sommergibile, e alle sue calcagna lo seguì il suo intrepido equipaggio. Io balzai dalla cabina di pilotaggio e lo seguii, per non essere lasciato fuori al freddo quando si trattava di colpire i crucchi. Dal corridoio della sala macchine arrivarono l’ingegnere e i magazzinieri, e insieme ci tuffammo dietro al resto dell’equipaggio nella lotta corpo a corpo che stava insanguinando il ponte. Accanto a me venne anche Nobs, ora silenzioso e torvo. I tedeschi stavano uscendo dal boccaporto per prendere parte alla battaglia sul ponte. All’inizio le pistole crepitarono tra le imprecazioni degli uomini e gli ordini ad alta voce del comandante e del suo subalterno; ma presto fummo troppo indiscriminatamente mescolati per rendere sicuro l’uso delle armi da fuoco, e la battaglia si risolse in una lotta corpo a corpo per il possesso del ponte.

    L’unico obiettivo di ciascuno di noi era quello di gettare in mare un avversario. Non dimenticherò mai l’orribile espressione sul volto del grande prussiano con cui il caso mi mise a confronto. Abbassò la testa e si precipitò su di me, muggendo come un toro. Con un rapido passo laterale e abbassandomi sotto le sue braccia tese, lo schivai; e mentre si girava per tornare verso di me, gli assestai un colpo sul mento che lo fece roteare verso il bordo del ponte. Vidi i suoi tentativi selvaggi di ritrovare l’equilibrio; lo vidi rullare come un ubriaco per un istante sull’orlo dell’eternità e poi, con un forte urlo, scivolare in mare. Nello stesso istante un paio di braccia gigantesche mi circondarono da dietro e mi sollevarono completamente da terra. Inutile scalciare e contorcermi, non potevo né girarmi verso il mio avversario né liberarmi dalla sua presa d’acciaio. Mi stava spingendo implacabilmente verso il fianco della nave e verso la morte. Non c’era nessuno a trattenerlo, perché ciascuno dei miei compagni era occupato da uno o più nemici. Per un istante temetti per la mia vita, e poi vidi qualcosa che mi riempì di un terrore molto più grande.

    Il mio crucco mi stava portando verso il fianco del sottomarino contro il quale stava ancora sbattendo il rimorchiatore. Il fatto che sarei stato schiacciato a morte passò in secondo piano quando vidi la ragazza in piedi da sola sul ponte del rimorchiatore, quando vidi la poppa sollevata in aria e la prua che si preparava all’immersione finale, quando vidi la morte da cui non potevo salvarla afferrare la gonna della donna che ora sapevo fin troppo bene di amare.

    Avevo forse una frazione di secondo in più da vivere quando sentii un ringhio rabbioso dietro di noi mescolarsi con un grido di dolore e di rabbia del gigante che mi immobilizzava. All’improvviso, ricadde all’indietro sul ponte e, nel farlo, aprì le braccia per tenersi in equilibrio, liberandomi. Caddi pesantemente su di lui, ma mi rimisi subito in piedi. Mentre mi alzavo, lanciai un solo sguardo al mio avversario. Mai più avrebbe minacciato me o un altro, perché le grandi fauci di Nobs si erano chiuse sulla sua gola. Poi mi lanciai verso il ponte e verso la ragazza sul rimorchiatore che affondava.

    «Salta!», gridai. «Salta!» E le tesi le braccia. Immediatamente, come se avesse una fiducia assoluta nella mia capacità di salvarla, saltò oltre il bordo del rimorchiatore verso il fianco e scivoloso dell’U-Boot. Mi allungai per prenderle la mano. Nello stesso istante il rimorchiatore puntò la poppa dritta verso il cielo e precipitò fuori dalla vista. La mia mano mancò quella della ragazza per una frazione di millimetro, e la vidi scivolare in mare; ma non aveva ancora toccato l’acqua quando la seguii.

    Il rimorchiatore che affondava ci portò molto al di sotto della superficie; ma io l’avevo afferrata nel momento in cui avevo toccato l’acqua, e così andammo giù insieme, e

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