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Il tempo dei mezzosangue - La trilogia completa
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E-book1.423 pagine20 ore

Il tempo dei mezzosangue - La trilogia completa

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Info su questo ebook

L'intera trilogia de "Il tempo dei mezzosangue" racchiusa in un unico volume. Un fantasy epico, un racconto corale dove bene e male si mescolano senza definizioni nette. Personaggi umani, con i loro pregi e i loro difetti, forze e debolezze. Un mondo vasto ricco di magia, battaglie e continue rivelazioni.

Per maggiori informazioni, visitate il sito: RobHimmel.com

Questo volume contiene:
1- L'ascesa della chimera
2- I venti della discordia
3- Le fauci degli abissi
LinguaItaliano
EditoreAetermundi
Data di uscita8 dic 2022
ISBN9791222032306
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    Fantástico, sembra privo di dettagli e storia durante il primo mezzo libro má durante lá lettura inizia a rivelare tutta lá sua mágia. Grazie Rob himmel

Anteprima del libro

Il tempo dei mezzosangue - La trilogia completa - Rob Himmel

Prima Parte

CRESCITE

Intere orde discesero dalle cime in preda all’odio più scellerato. Era pieno inverno e soltanto dei folli potevano intraprendere una battaglia. Ma gli orchi bramavano le nostre terre più di ogni altra cosa e pensavano di cogliere Kernak impreparata. […] Fin dall’Esilio, all’inizio della Quinta Era, i pelleverde anelavano il loro ritorno nelle vivide pianure d’Erebia. […] Seppur alle soglie dell’anzianità, re Bodorn guidò gli aghoriani alla vittoria liberando il regno dalla minaccia. Il prezzo pagato dal sovrano di Kernak fu fin troppo elevato, a causa delle ferite riportate in battaglia: abbandonò la vita tre giorni dopo. Il trono passò al suo unico figlio ed erede: Bredon…

Treghendal, Storico di Aghoria

Annuario di Kernak , volume IV.

Anno 98 della Quinta Era

1

Oltre il nord conosciuto

Winky, il cane-lupo, cominciò a ringhiare.

«Abbiamo visite», allertò Enialis. «Accostati alla parete e sta’ attento», ordinò al giovane.

Il ramingo si tolse lo zaino poggiandolo a terra, badando a non fare rumore. Poi optò per la spada e il pugnale. Non c’era distanza sufficiente per tirare con l’arco in quel labirinto naturale. Jandar seguì le istruzioni, si acquattò alla parete di ghiaccio e sfoderò la spada.

L’attesa al gelo non fu affatto piacevole né d’aiuto. Sbuffi d’aria condensata si elevavano al cielo a ciascun respiro. Winky si zittì, lasciando al vento e a dei passi pesanti il compito di coprire il silenzio.

Il giovane stregone prese a tremare per il freddo, mentre osservava il mezzelfo all’opera: Enialis, dal volto pulito come quello di un ragazzino, con tratti delineati e con accesi occhi azzurri, stava tendendo le orecchie, leggermente a punta, all’ascolto della minaccia. Appariva serio e concentrato. Un ramingo esperto che sapeva bene quel che faceva, o almeno questo gli trasmetteva. Lo vide cambiare espressione in una maschera di stizza, poi svanì l’attimo dopo.

Jandar comprese subito cosa volesse dire. Aveva trascorso gli ultimi anni accanto al mezzosangue, poiché Orideus aveva voluto che Enialis diventasse il suo maestro di sopravvivenza e di combattimento. Gli aveva insegnato a usare la spada, a tirare con l’arco e a sopravvivere nelle terre selvagge. Dunque decifrò subito quella reazione: guai in arrivo. La conferma sopraggiunse poco dopo.

Un energumeno alto due metri e mezzo comparve davanti a loro quando girò l’angolo infilandosi nel passaggio. Aveva la pelle celestina e un corpo nerboruto. La testa era coronata da lunghi e selvaggi capelli bianchi, con una barba racchiusa in tre trecce. Indossava abiti di pelle grezza sul busto, lasciando in mostra le gambe e le braccia. Poggiato sulla spalla aveva un orso bianco e nella mano impugnava un’ascia dalle dimensioni scoraggianti.

«Come osate stare nella mia terra?!» tuonò il gigante con voce furente, non appena li vide. Buttò a terra l’animale morto e brandì l’arma, pronto a combattere.

Enialis cominciò a indietreggiare per condurlo nella strettoia, dove avrebbe potuto metterlo in svantaggio a causa della sua mole.

«Resta sempre dietro di me!» ordinò il ramingo all’allievo mentre il bestione avanzava sicuro di sé, noncurante del campo di battaglia. Fu allora che il cane-lupo attaccò con un balzo.

«Winky no!» urlò il mezzelfo, ma il gigante lo colpì con il dorso del pugno, centrandolo in pieno mentre era in aria.

L’animale andò a schiantarsi su una parete di ghiaccio e poi cadde a terra. Emise dei gemiti di dolore prima di zittirsi e restare inerme.

Il gigante procedette senza rallentare il passo, con lo sguardo fisso sul ramingo e la mano pronta a vibrare il colpo.

Enialis osservò il suo compagno: avrebbe voluto correre da lui. Tuttavia non era il caso di farsi trascinare dalle emozioni, anche perché doveva proteggere Jandar. Riportò le attenzioni sulla minaccia e seguì i suoi movimenti. Continuò a indietreggiare come se nulla fosse. Quando vide il colpo arrivare, si accasciò a terra e sentì l’ascia guizzargli sopra la testa. Il secondo attacco arrivò subito dopo dall’alto e lui rotolò di lato per evitarlo.

L’arma del bestione si conficcò nel ghiaccio, ma senza sforzi eccessivi la estrasse. Possedeva una forza bruta in perfetta sintonia con il suo aspetto.

Il giovane stregone, alzatosi in piedi, cominciò a indietreggiare alle spalle di Enialis, ma in realtà era ancora scosso per Winky: temeva fosse morto. Ricacciò indietro quel timore e decise di prendere parte allo scontro. Attingendo agli insegnamenti da mago di Orideus, cominciò a recitare la formula di un incantesimo protettivo. Estrasse dallo zaino una placca di ferro da usare come ingrediente. La magia la consumò e un tenue bagliore giallognolo ricoprì il ragazzo come fosse stato un’armatura.

Vide il gigante entrare nella strettoia e sferrare altri due attacchi contro Enialis, il quale li schivò con prontezza elfica. Fu in quell’istante che Jandar decise di intervenire: trasse dalla sacca una candela e prese a frantumarla, mentre le labbra si mossero pronunciando parole in ansindium . Dalla mano saettò una serie di rivoli di luce bianca che centrarono il gigante agli occhi.

«Colpisci le gambe!» suggerì al mezzelfo. «Fallo cadere sulle ginocchia!»

Enialis, esibendo un sorriso divertito, si tuffò con una capriola tra le gambe del bestione per poi rialzarsi alle sue spalle. Ruotò su se stesso e affondò le lame lasciando delle ferite profonde.

Il gigante, ormai accecato, cadde sulle ginocchia. L’urlo di dolore misto alla rabbia riecheggiò per Ghiarkur. Continuò a lamentarsi mentre teneva una mano sugli occhi.

Jandar colse l'occasione e si lanciò sull’avversario, nonostante la fatica dovuta al freddo. Usò uno spuntone di ghiaccio come trampolino per il salto, balzò in aria e gli conficcò la spada nel collo facendo penetrare la punta nel petto. La lama entrò a fondo e il sangue schizzò fuori, ma non fu sufficiente a ucciderlo.

Ancora assicurato all’impugnatura dell’arma, Jandar fu afferrato dal gigante, che lo stritolò prima di scagliarlo lontano facendolo capitombolare sul ghiaccio. L’incantesimo di protezione s’infranse, ma fu sufficiente a salvargli la vita. Il ragazzo respirava a fatica e rimase a terra dolorante. Rise, come fosse stato vittorioso.

Enialis saltò sulle spalle del gigante e gli affondò le lame nella nuca, le fece incrociare con un movimento deciso e lo decapitò.

Il cadavere cadde a terra creando una pozza di sangue. Neve e ghiaccio si tinsero di rosso.

Il ramingo raggiunse in fretta il giovane stregone. «Come stai?» chiese preoccupato.

Il cuore di Jandar batteva all’impazzata, come un tamburo da guerra. Le gambe e le mani gli tremavano. La presa salda sulla spada non si era ancora allentata e il sangue ne colorava la lama quanto il mantello di pelliccia che indossava. I fulgidi occhi verdi restarono sgranati in un’espressione interdetta. I capelli castani si erano arruffati all’interno del cappuccio. Aveva agito con prontezza nonostante si fosse sentito esitante tutto il tempo. La mente aveva reagito lucidamente impartendo ordini precisi al corpo, cosa che lo spaventò.

«Stai bene?» insistette Enialis.

Jandar fece un sorriso forzato, che smorzò non appena diede un paio di colpi di tosse. Sentiva dolore dappertutto, ma sapeva di non essere in pericolo di vita. La magia protettiva lo aveva salvaguardato. «Non morirò… va’ a controllare Winky, ha bisogno di te», aggiunse alzandosi in piedi a fatica. Non appena il mezzelfo si allontanò, si lasciò ricadere a terra.

Enialis si precipitò sul cane-lupo. Respirava ancora, seppur a stento. «Winky, resisti», gli sussurrò con premura. Esaminò il corpo dell’animale con la mano, tastandolo alla ricerca di ferite. Quando la passò sul dorso, l’animale emise un lamento. Il ramingo imprecò. «Non ti abbandonerò, tu però non devi arrenderti.»

Il mezzosangue si prese cura di Winky, steccandogli il busto e costruendo una barella di fortuna. Alleviò il suo dolore con impacchi di erbe medicinali, che usò anche sulle lesioni di Jandar. «Così dovrebbe andar meglio», disse cercando di mascherare la propria apprensione.

«Grazie», rispose Jandar. Poi, guardando il cane-lupo, aggiunse: «Si riprenderà, ne sono certo».

Il mezzelfo accennò un sorriso forzato.

Jandar non sentiva più le mani e i piedi, paralizzati dal freddo. Il gelo li stava divorando come tarli nelle ossa, implacabile e insaziabile. Persino Enialis, ramingo abituato alle zone inospitali, non nascose il suo patimento.

Eppure, quando avevano oltrepassato i Monti Bagadon, la vista era stata mozzafiato. Ghiarkur, candido e surreale, si era presentato come uno sconfinato paesaggio bianco costituito da frastagliati picchi di ghiaccio che, nell’insieme, creavano un districato labirinto naturale d’infiniti tunnel e sentieri circondati da alte pareti azzurrognole. Tra questi, sparse casualmente, aveva visto delle chiazze di zone pianeggianti in cui si rifletteva il cielo sovrastante come in uno specchio. Era sembrato un prato di diamanti, dove il sole lasciava rimbalzare i suoi raggi in un gioco di luci d’indescrivibile bellezza. Nulla di più ingannevole.

Fecero una breva pausa per avvolgersi con altri mantelli di pelliccia. Ne approfittarono per mangiucchiare qualcosa, perché il clima avverso non aveva affatto sminuito l’appetito del giovane stregone.

«Ca-capisco bene pe-perché odi que-questo posto», balbettò Jandar a denti stretti.

Una folata di vento fischiò tra loro graffiandogli il volto.

«Amico mio, non vorrei essere al tuo posto…» replicò il mezzelfo. «Queste terre sono paragonabili a un inferno, sopravviverci è un’impresa e non so come te la caverai durante l’addestramento.»

Jandar non si lasciò scoraggiare. Erano lì perché doveva incontrare colui che sarebbe divenuto il suo maestro di stregoneria. Se ci abitava, poteva farlo anche lui. «Imparerò dallo stregone», ribatté risoluto.

Il ramingo proruppe in una risata. «Eh sì, lui può farlo…»

A quella risposta sentì una certa irritazione montargli addosso. Non tollerava quel modo di fare di Enialis e di Orideus. Entrambi si burlavano di lui sapendo cosa lo aspettava e si divertivano a fare i saccenti misteriosi. Orideus era stato una figura essenziale per lui, da quando lo aveva trovato per le strade di Ishdara. Il vecchio mago lo aveva preso e portato con sé, lo aveva cresciuto come fosse stato suo figlio e lo aveva istruito come fosse stato il suo allievo. Ma per quanto avesse cercato di insegnargli la magia, Jandar restava uno stregone. Non doveva apprenderla come qualunque mago, ma svilupparla in quanto era già dentro di sé. Orideus lo aveva capito, lo aveva accettato e persino ammesso, cosa non da poco per un mago. Questa era la ragione del viaggio a Ghiarkur. Per questo Enialis, il migliore amico di Orideus e suo vecchio compagno di avventure, lo stava guidando in quel luogo. Allora perché facevano tanto i misteriosi?

«Sai dove stiamo andando?» domandò Jandar. «A me sembra che ci siamo persi…»

«Sì. So dove ci troviamo e altrettanto dove andare», garantì il ramingo in tono insolitamente scontroso. «Ho un’ottima memoria, sta’ tranquillo», rassicurò con voce più morbida.

Il giovane si chiese come facesse il mezzosangue a distinguere la strada in quell’ambiente tutto uguale, almeno secondo i propri occhi.

Avevano ripreso l’avanzata e da qualche ora il panorama era rimasto invariato. L’umore non era dei migliori, poiché erano esausti e affamati, ma tutto parve svanire quando arrivarono allo Specchio del Cielo: una vasta pianura di ghiaccio in cui si rifletteva la volta celeste, invasa dai rossi bagliori del tramonto.

Jandar tirò fuori l’amuleto che gli aveva dato Orideus: uno zaffiro ovale con un frammento d’argento al suo interno, il tutto assicurato a una catenina di ferro. Lo strinse nella mano fremendo dalla curiosità: non vedeva l’ora di conoscere il nuovo maestro.

Con la voce incrinata dall’emozione, recitò: « Laahck nar’din thuden! »

2

L’oracolo

«Questo tempo mi mette tristezza», dichiarò Eilema al padre mentre, dalla torre del monastero, osservavano la pioggia scendere a catinelle.

«Chiudi gli occhi. Non badare a ciò che vedi, ma ascolta», suggerì Garret tenendola stretta a sé come il tesoro più prezioso.

La ragazzina seguì il consiglio. Il maltempo si trasformò in una dolce cantilena. Le gocce riproducevano un suono delicato che nell’insieme appariva come una ninna nanna.

«Hai ragione, è bellissimo!»

Il Gran Maestro di Ferabath esibì un timido sorriso. Guardò la figlia con un’espressione colma d’amore: occhioni da cerbiatta, castani come i capelli lunghi fino al mento. Lineamenti gentili tanto quanto semplici. Non spiccava in nulla di particolare, ma colse in lei quei tratti che rammentavano la madre, morta da diversi anni. Quel pensiero lo pervase con una dolorosa nota di tristezza, ma fece finta di nulla.

La pioggia riempì di pozzanghere lo spiazzo davanti al monastero. Poteva apparire normale, ma Garret notò subito qualcosa d’insolito: l’acqua sembrò muoversi come se fosse viva. In principio si raccolse al centro in una sorta di laghetto, poi si scompose in diverse parti. Ogni massa d’acqua si spostò con movimenti casuali e scoordinati, fin quando cominciarono a creare una sequenza di parole.

Eilema guardò la scena attonita, mentre Garret sentì emergere dentro di sé un timore serbato da anni. Porta i tuoi figli alla Sorgente, diceva il messaggio e lui conosceva già il mittente.

«Padre, chi è? Che vuole da noi?»

Il volto dell’uomo s’incupì. «È l' Oracolo della Sorgente. Per piacere, va’ ad avvisare i tuoi fratelli. Che preparino il giusto necessario per una giornata. Partiremo all’alba», ordinò con lo sguardo perso nel vuoto.

«Come desideri, padre. Vado subito così mi preparo anch’io.»

Eilema si voltò per andarsene, ma lui la fermò afferrandola per un braccio. Si erse su di lei con volto fiero, sguardo deciso e profondi occhi neri. Il capo coronato da folti ricci bruni e un piccolo neo piatto sulla fronte. Indossava il saio bianco da Gran Maestro. «Aspetta! Domani partiremo solo noi, desidero che tu rimanga qui al monastero.»

Se l’avesse colpita con un pugno le avrebbe fatto meno male. Gli occhi di lei divennero rossi, in procinto di piangere.

«Perché? Io non capisco!» ribatté frustrata.

«Perché tengo a te più di chiunque altro. Sei troppo importante e non voglio esporti a pericoli inutili. Ti prego, fidati di me…»

Eilema replicò con un’espressione rabbiosa prima di fuggire piangendo.

***

Prima ancora che il sole sorgesse lungo la linea dell’orizzonte, Alak era già in piedi, pervaso dall’emozione. Fremeva al solo pensiero di evadere da quella prigionia, anche solo per una giornata. Per di più era stato convocato dall'oracolo. In cuor suo sentiva che si stava avverando ciò che da sempre desiderava: lasciare Ferabath. Nemmeno Garret poteva opporsi.

Fu il primo ad arrivare nel cortile del monastero, ma poco dopo giunse anche Ethan. Sotto quei riccioli biondi, il saio marrone da allievo, la postura composta e i limpidi occhi celesti, Alak non faticò a comprendere che il fratello condivideva il suo entusiasmo. Per quanto i due fossero ai poli opposti su qualunque cosa, questo rappresentava uno dei rarissimi episodi che li avvicinava.

Con l’aria afflitta e tutt’altro che impaziente, li raggiunse anche Garret.

Il silenzio accompagnò i tre per gran parte del viaggio. Troppo immersi nei loro pensieri e attenti al tragitto impervio. La strada che conduceva alla Sorgente del Benessere era ricca di pericoli, tra scarpate, strettoie e rocce aguzze.

«Raggiungere la cascata non sarà semplice, inoltre è ben nascosta. Arrivarci richiederà una certa destrezza», avvisò Garret spezzando il silenzio con il tono piatto della sua voce.

«Meglio, scalderemo i muscoli!» replicò Alak con entusiasmo.

«Le più grandi conquiste sono tali a causa delle loro difficoltà», convenne Ethan.

Il Gran Maestro sbuffò, come se avesse fallito nel suo intento. «Quando vi troverete davanti all’Oracolo badate bene alle vostre parole, portatele rispetto. Lei le peserà una a una e scruterà nei vostri cuori. So che di Ethan posso fidarmi, ma mi raccomando a te, Alak», intimò l’uomo con l’usuale espressione severa.

«Padre, siete già stato dall' Oracolo della Sorgente ?» chiese Ethan.

«Sì.»

«Quante volte?»

«Un paio. Ora basta parlare, concentriamoci sul viaggio. Un solo passo falso e potremmo precipitare.»

***

Sentieri angusti sul bordo di dirupi, pareti di montagna con rocce taglienti come lame, questa fu la strada. Garret non ebbe molte difficoltà, ma i due ragazzi non potevano permettersi distrazioni. Viaggiavano in fila indiana, assicurati l’uno all’altro con una fune robusta. L’errore di uno poteva essere fatale per tutti.

Dopo svariate ore raggiunsero uno squarcio lungo la parete a ridosso della montagna. Questo si apriva verso l’interno, facendo largo a un’impervia e buia galleria. Garret entrò per primo, percorrendo una dozzina di metri.

Non appena fuoriuscirono dall’umido tunnel, rimasero sbigottiti. La spettacolarità dello scenario era ammaliante. Celata all’interno dei Monti Bagadon, c’era una meravigliosa oasi naturale. Dall’alta cima del promontorio si buttava un fiume, generando un’ampia cascata che s’immergeva a valle spumeggiando nel lago. L'acqua era limpida quanto il cristallo, rifletteva come in uno specchio il cielo azzurro con le nuvole bianche. Il freddo di quell’altitudine lasciava spazio a una temperatura più mite. La parte restante della piana, circondata da naturali e alte mura di pietra, era ricoperta da un prato verde, in cui spiccavano magnifici alberi ricolmi di frutti. Il bordo del lago era disseminato di fiori. L’intera vegetazione traeva la sua rigogliosità dalla sorgente, creando un ambiente in netto contrasto con le sterili rocce sulle vette dei Monti Bagadon.

«Ma… è bellissimo!» esclamò Ethan restando a bocca aperta.

«Vero… l’avevo dimenticato», osservò Garret, rammentando che erano trascorsi tredici anni dall’ultima volta in cui era stato in quel luogo.

Al centro del lago si formarono delle increspature circolari, una dietro l’altra e sempre più regolari. Poi emerse una forma umanoide, femminile, fatta d’acqua e dalla bellezza superba. Capelli lunghissimi fino alle ginocchia le fluivano sul corpo come rivoli di pioggia. Negli occhi era racchiusa l’immensità dell’oceano, inscrutabili come l’abisso più profondo. Camminò sulla superficie del lago con passo ammaliante fino a raggiungerne la riva.

«Benvenuti alla Sorgente del Benessere », disse con voce cantilenante, simile allo scorrere di un fiume, dolce come miele. Stare alla sua presenza e ascoltarla poteva incantare un uomo per giorni.

I tre risposero al saluto con un lieve inchino.

«Dunque sono questi i tuoi figli, Gran Maestro dell'Ordine del Tuono?»

«Sì. Questo è Alak, il maggiore», rispose Garret indicando il figlio, «e questo è Ethan», aggiunse facendo altrettanto.

«Conoscervi è per me un piacere», replicò lei con gentilezza. Dov’è tua figlia? domandò telepaticamente all’uomo, ma non ebbe risposta.

«Il piacere è nostro, Sommo Oracolo», ribatté Ethan con un profondo inchino.

«Altrettanto», aggiunse Alak.

«Leggo nei vostri occhi così come nei vostri cuori che siete ansiosi di sapere il motivo per cui vi ho convocato.» I fratelli annuirono. «Ebbene, così come per ogni cosa importante è richiesto del tempo, questa non farà eccezione. Sedetevi, è meglio che stiate comodi», li invitò con un cenno della mano.

Alak ed Ethan si scambiarono uno sguardo fugace, ricco d’entusiasmo, prima di accomodarsi.

«Secondo il nome affibbiatomi dalla vostra razza, io sono l’Oracolo della Sorgente. Esisto dalla Prima Era, un tempo ormai dimenticato. Il dono concessomi dal Creatore è stato la capacità di vedere alcuni frammenti appartenenti agli eventi futuri. Badate bene alle mie parole, perché non sto dicendo che esiste un cammino prestabilito. No, non esiste alcun destino. Ciascuna creatura è libera di scegliere il proprio futuro ma nulla, e dico nulla, avviene per caso.» Si fermò un istante per scrutare negli occhi i due ragazzi. «Sappiate però, che a volte esistono disegni più grandi delle nostre vite. E seppur non lo vorremmo, ne saremo travolti. Ciononostante siamo sempre liberi di scegliere.»

Le parole dell’oracolo scorrevano dalla sua bocca alle loro menti come un fiume che raggiunge e sfocia nel mare.

«Vi chiederete perché vi dico questo. Ebbene, sono passati circa due secoli da quando un giovane, poco più grande di voi, si avventurò per queste cime. Per caso, secondo il suo pensiero, trovò questo luogo. Io previdi la sua venuta, gli parlai e gli rivelai la mia visione sul cammino che poteva attenderlo: un lungo viaggio oltre i confini d’Erebia, al di là del deserto del Sharami, nell’estremo oriente, in Shikoghin. Il suo scopo sarebbe stato apprendere un'arte inesistente nel nostro continente, per dar vita a un ordine speciale: i Figli della Luce. Questo ragazzo si chiamava Dath. Il resto della storia sulla fondazione dell’Ordine del Tuono di Ferabath dovreste conoscerlo già. Però, quel che nessuno sa è che da questo ordine sarebbero sbocciati degli astri, chiamati Asceti: monaci dalle doti straordinarie nati per affrontare l’era più cupa. Quel giorno è giunto.»

I due giovani rimasero in silenzio, storditi da quella rivelazione. Alak sembrò in estasi, mentre Ethan parve turbato, preoccupato dal carico di responsabilità che ne conseguiva.

«State dicendo che i miei figli sono quegli astri?» domandò Garret, con una certa esitazione.

I due fratelli riportarono subito le attenzioni sull’oracolo.

«Conosci già la risposta, Gran Maestro dell’Ordine del Tuono.»

Sì, Garret la conosceva. In fondo al cuore sapeva, ma continuava a negarlo con ogni fibra del suo essere. I suoi figli si erano distinti fin dalla più tenera età, emancipati e promettenti come nessun altro nella storia di Ferabath. Quel che non comprendeva era come la Quinta Era potesse divenire la più cupa della storia. Fin dalla fondazione del Concilio dei Popoli tutto sembrava andare per il meglio. In questo aveva riposto le proprie speranze.

«Vi rivelerò la predizione. So per certo che vi parrà incomprensibile, per questo è meglio scriverla, affinché la possiate ricordare e capire in futuro, quando verrà il suo tempo», suggerì lei.

Garret trasse dallo zaino un rotolo di pergamena, penna e calamaio; li aveva portati proprio in previsione di questa esigenza.

Quando fu pronto, lei cantilenò:

Avverrà la chiamata della quercia antica,

a causa dell’ascesa della corona nemica.

I figli del grande tuono saranno convocati,

per protegger i fratelli minacciati.

Ma nel cammino da loro intrapreso,

sorgerà un gruppo inatteso.

Dovranno prender lo zaffiro ghiacciato,

il cattivo buono e il ribelle artigliato.

Verrà anche la poetica lama,

per opporsi al bugiardo che brama.

«Questo è quanto. A voi spetta scegliere se accettare la chiamata, quando avverrà, oppure ignorarla.»

«Perché parlate sempre per enigmi? Non potreste essere più semplice e dire ciò che va fatto e cosa deve accadere?!» sbottò Garret.

«Tutto sarà svelato al momento dovuto, ogni cosa ha il suo tempo. Poi, non tutto mi è rivelato, le scelte determinano il futuro e le sue conseguenze, finché non si sceglie resta solo l’incertezza. Chiunque osservi nel futuro non vede che immagini annebbiate in continuo mutamento, perché esistono infinite strade», ribatté l’oracolo con calma assoluta. Non esiste il destino, ognuno è l’artefice del proprio futuro , comunicò telepaticamente a tutti e tre . Diventa quel che sei e non ciò che ti fa essere l’ambiente a te circostante. Trova il tuo cammino…

Alak ed Ethan sgranarono gli occhi udendo la voce di lei nelle proprie menti.

Conosco bene il tuo dolore, disse poi soltanto a Garret, ma non per questo puoi trattenerli per sempre accanto a te. Per quanto tu voglia proteggerli, devono proseguire il sentiero della vita liberamente. Non puoi vivere nella sofferenza del passato, questa sfiancherà te e chi ti sarà vicino.

«Cercherò di capire quale sia la scelta migliore per tutti noi, per essa procederò senza indugi», garantì Ethan porgendo un profondo inchino. «Vi ringrazio Sommo Oracolo.»

«Oggi, per me, inizia una nuova vita», aggiunse Alak. «Sento il cuore leggero e so per certo che questa è la mia via. Io andrò. Vi ringrazio!»

Lei sorrise prima di spostare le attenzioni su Garret, il quale mostrava in volto il proprio sconforto. «Non essere turbato. Sii fiducioso e confida in loro, non sono più dei bambini. Sai bene che questo rientra nel ciclo naturale della vita, non potrai opporti in eterno alla loro crescita. Qualora decideste di seguire la predizione», proseguì poi rivolgendosi ai ragazzi, «dovrete tornare qui per affrontare lo stesso cammino intrapreso da vostro padre tempo addietro. Per divenire degli Asceti, dovrete imboccare il Sentiero degli Spiriti.»

Garret sgranò gli occhi, consapevole di quanto fosse pericoloso. Sì, lui lo ricordava molto bene. Per questo il Sentiero degli Spiriti era segreto a tutti gli allievi e ai monaci fin dalla fondazione di Ferabath. Solo i maestri ne erano a conoscenza e solo i migliori, quelli candidati a diventare il successivo Gran Maestro, lo affrontavano.

«Andate e riflettete. Compiuta una scelta, non potrete più cambiarla.»

3

Namidaxonsegurhegalias

Lo zaffiro iniziò a pulsare nella mano dello stregone, l’unico in grado di percepirlo. Almeno fintanto che arrivò una forte vibrazione, seguita da un’ondata di potere che si espanse nell’aria. I due rimasero in silenzio, in attesa di quel qualcosa che Jandar attendeva con impazienza. Provò un miscuglio di sensazioni ed emozioni: curiosità, felicità, timore. Sentì il potere della gemma, su cui vorticava una tempesta di neve e, quando spostò gli occhi su di essa, vide la mano avvolta da frammenti di ghiaccio.

Lo Specchio del Cielo iniziò a tremare in balia del terremoto. L’intera distesa prese a scricchiolare. All’improvviso un boato riecheggiò in tutta la zona circostante e la piana a specchio scoppiò con fragore. Intere lastre di ghiaccio volteggiarono in aria dopo essere state scagliate via con violenza. Lo Specchio del Cielo andò in frantumi rivelando il lago sotto di sé. Al centro cominciò a emergere una massa spropositata di metallo luccicante: argento. I rossi bagliori del tramonto si rifletterono sul fianco ovest, generando sfumature viola e scarlatte.

Il ramingo non parve stupirsi, mentre il giovane sgranò gli occhi meravigliati. La vista dinanzi a sé era sconcertante. Come aveva fatto questo stregone a sommergere un intero edificio sotto la superficie del lago? E come vi sopravviveva?

Quel che emerse, però, non fu una fortezza o un edificio, bensì qualcos’altro di colossale. Era d’argento e luccicava come un tripudio di astri notturni sul fianco ombreggiato, mentre sul lato dove battevano i raggi del sole pareva un muro di gemme preziose.

La creatura affiorò dall’acqua e dispiegò le ali come se si stesse stiracchiando, ombreggiando l’intero Specchio del Cielo. Distese il collo massiccio verso la volta celeste, mostrandosi in tutto il suo splendore. Il dragone aveva un aspetto fiero, saggio e allo stesso tempo terrificante. Le zampe erano rivestite da possenti muscoli, soprattutto quelle posteriori, più grandi delle anteriori. Le ali si allargavano per un’apertura di circa cinquanta metri. Dalla testa fino alla punta della coda, s’irradiava una cresta regale. Allineate con il muso e passando sopra le orecchie, due corna d’argento si estendevano, simili a lunghi artigli, verso il dorso. Sotto il mento e attorno alla testa fuoriuscivano una serie di aculei d’osso. Gli occhi erano in argento, senza iride né pupilla; apparivano come vivido metallo fuso in una gemma preziosa. Il dragone irradiava potere, emanando antica sapienza mista a fine intelligenza.

Dopo essersi stiracchiata per bene, prendendosi il tempo dovuto, la creatura richiuse le ali e portò le attenzioni sui due spettatori .

«Dove si trova il giovane Orideus?» domandò con voce tanto potente da far vibrare la vallata. Nel parlare esibì mascelle irte di denti acuminati. Fu spaventoso.

Jandar pensò che non esistesse in tutto il mondo una creatura bella quanto quella. Seppur affascinato, sentì anche il forte desiderio di fuggire, se solo non fosse stato pietrificato dal terrore.

« Inym, dov’è Orideus?» insistette il dragone. «E chi è questo bambino che ha osato interrompere il mio riposo?» La terra vibrava a ogni parola.

«Salve, sommo dragone.» Il ramingo accompagnò il saluto con un inchino di riverenza. «Orideus ci ha mandati qui per chiederti un favore in nome della vostra vecchia amicizia…» S’interruppe, aspettando che la creatura gli concedesse di continuare.

«Perché non è venuto lui stesso?» domandò avvicinando il muso al mezzelfo. «Sa bene di potermi chiedere qualunque cosa…»

«Ahimè, gli anni scorrono veloci per gli esseri umani. Alla sua età non poteva intraprendere un simile viaggio. Così ha inviato me. Orideus vorrebbe chiederti una cosa che forse non ti piacerà, ma conta sulla tua profonda amicizia. Sa quanto tu sia potente e quanto lui sia limitato, per questo vorrebbe che fossi tu a completare l’addestramento di questo ragazzo. Il suo nome è Jandar ed è uno stregone promettente. Lo prenderai come tuo allievo?» Il ramingo non trattenne un lieve e rapido sorriso. Sapeva quanto il dragone detestasse stare a contatto con gli altri mortali, soprattutto gli uomini, razza impulsiva e impaziente.

La creatura si protese verso Jandar fino a portare la punta del muso a un passo da lui, che indietreggiò per paura. Lo scrutò, ispezionandolo da capo a piedi. Dalle narici gli uscì uno sbuffo d’aria gelida che investì il volto del giovane. «Credi di essere uno stregone?» domandò inondandolo con il proprio alito, inodore ma gelido.

«Certamente!» esclamò Jandar, cercando di mostrarsi sicuro, ma la voce tremolò.

«La tipica risposta di un bambino infantile…» ribatté deluso, come se si fosse aspettato di meglio. «Io sono Namidaxonsegurhegalias, ma siccome voi umani non siete capaci di pronunciare il mio nome, come quello di qualsiasi drago, potrai chiamarmi Namias.» Detto questo si allontanò.

Il giovane tentò di ripetere a mente il suo nome per intero, ma non ci riuscì. «Io sono Jandar.»

«Mi fa piacere che abbiate fatto amicizia», ironizzò il ramingo. «Quindi ho assolto il mio compito. Devo occuparmi di Winky e tornare a casa.»

«Che devo farne di lui?» domandò Namias volgendosi al mezzelfo.

«Il più grande stregone di questa era», annunciò il ramingo con un caldo sorriso. «Vedrai che non ti deluderà, è un ragazzo prodigio.»

Il dragone sbuffò altra aria gelida dalle narici. «La grandezza di un uomo è data dalla sua determinazione», affermò scrutando il giovane. «Le parole di voi piccoli mortali non hanno alcun valore per me, perché parlate con troppa leggerezza e rare sono le volte in cui convalidate il dire con il fare.» Tornò a guardare il ramingo. «E tu questo lo sai molto bene, inym.»

«Come non darti ragione sommo dragone, ma forse, sai, dopo secoli di vita potresti ritrovarti sorpreso da qualcosa di nuovo.»

Namias si limitò a emettere un suono simile a uno sbuffo.

«Non essere troppo duro con lui», raccomandò il mezzelfo.

«Sarà trattato come merita, né più né meno.» Il dragone si volse dietro di sé e con un soffio prolungato congelò la superficie del lago ristabilendo lo splendore dello Specchio del Cielo.

«Ma perché ti chiama inym anziché per nome?» chiese Jandar al ramingo, in un sussurro.

Enialis sorrise. « Inym vuol dire mezzosangue. Inoltre i draghi chiamano per nome solo le creature che reputano degne del loro rispetto, altrimenti per loro sei uno fra tanti della tua razza.»

Dopo alcuni giorni di permanenza allo Specchio del Cielo, più che altro per far ristabilire Winky quel tanto che bastava per viaggiare, Enialis si preparò alla partenza. Il cane-lupo si era salvato, seppur non sarebbe stato più lo stesso. Così salutò il ragazzo e scomparve nell’intricato labirinto naturale di Ghiarkur.

Quando il giovane rimase solo con l’antica creatura, patì il silenzio. Il dragone non gli rivolse più parola. Namias si era limitato a creargli una grotta in cui gli portava della legna e del cibo. Per il resto era come se lui non esistesse.

I giorni trascorsero e Jandar perse la cognizione del tempo. Stanco di essere ignorato, ma ancor più di perdere tempo in maniera infruttuosa. Aveva riposto grandi aspettative nel nuovo maestro, ma si ricredette presto. Così cominciò ad allenarsi da solo, nell’uso della magia, secondo gli insegnamenti di Orideus, e nelle esercitazioni fisiche e con la spada, imparate da Enialis.

Namias andava e veniva noncurante di quel che lui facesse, cominciando però a portare sempre meno legna. Se prima il fuoco era acceso giorno e notte, a mano a mano si crearono delle ore vuote in cui il gelo s’insinuava nella grotta.

Jandar cominciò a irritarsi, ribollendo di rabbia. Non solo lo stava ignorando, ma adesso gli faceva patire anche il freddo. Se solo avesse potuto, sarebbe andato lui stesso a cercare della legna, ma non aveva la minima idea di dove trovarne. Dopo il gelo cominciò a subire anche la fame, poiché Namias aveva ridotto i viveri. Andava sempre peggio e lo stregone cominciò a sentire la mancanza di Enialis e Orideus, dei bei momenti trascorsi assieme, ridendo e scherzando.

Solitudine, freddo e fame, questo gli era rimasto. I giorni si tramutarono in settimane e Jandar li trascorse tutti alla stessa maniera. Fin quando, un dì, all’improvviso, uno sconosciuto fece la sua comparsa raggiungendo il cuore della grotta. Si avvicinò con tranquillità e indifferenza.

Spiccava con il volto avvenente, privo di barba. Aveva capelli lunghi fino alla vita, bianchi come la neve. Le orecchie a punta si estendevano quasi il doppio di quelle umane. Gli occhi scintillavano d’argento vivo. Indossava una veste pregiata di seta bianca con motivi di cardi in fiore dorati sulle maniche, sul collo svasato e sull’apertura centrale. Camminava con estrema leggiadria, a passo lento e nobile, dal portamento maestoso come un antico re degli elfi.

«Ammetto di esser compiaciuto. Tutto sommato potresti diventare un valido elemento…» approvò l’elfo con voce soave, quasi soprannaturale.

«Maestro?» domandò Jandar sconvolto.

«Quanta gente pensi che possa venire qui? È ovvio che sia io. Ho solo assunto le sembianze di un elfo, così come sa fare qualsiasi antico dragone.»

«Non conosco nulla sui draghi», appuntò il giovane corrucciandosi. «Come tante altre cose che speravo di apprendere qui anziché perder tempo.»

Namias parve ignorare la provocazione. «Avresti bisogno di tre intere vite d’uomo per imparare qualcosa sui draghi. Nel nostro sangue scorre la magia, siamo gli stregoni per eccellenza.» Spostò il peso del corpo da una gamba all’altra prima di continuare. «La nostra mole, forza e vigore, ci permettono di fare cose che nessun altro può a causa dell’ equindaher . Sai almeno di cosa parlo?» domandò scettico.

« Ogni scelta comporta dei sacrifici : il principio base su cui si regola la magia.»

«Bene, almeno non dovrò insegnarti proprio tutto… Sei sicuro di aver perso tempo da quando sei qui?»

«Partendo dal fatto che non ho la minima idea di quanto tempo sia trascorso dal mio arrivo, sono venuto per apprendere la stregoneria da uno dei migliori maestri. Malgrado ciò, da quando sono qui non ho imparato nulla di nuovo. Sono la stessa persona di prima, quindi penso di aver perso del tempo.»

Namias pesò a fondo il giovane, che si rapportò con calma e rispetto, era sincero. «Sbagli. Hai imparato a rispettarmi. Ti relazioni con mansuetudine, nei tuoi occhi si leggono quiete ed equilibrio, mentre durante i primi giorni avevi il desiderio di insultarmi e scappare via, ma non lo hai fatto. Hai imparato ad avere pazienza, ad aspettare senza ribellarti e senza fare il presuntuoso. Molti umani sarebbero andati via o avrebbero protestato con vigore, reclamando ciò per cui erano venuti. Pochi tollerano di essere ignorati per settimane. Essere uno stregone, o imparare qualcosa di nuovo, non significa soltanto usare la magia, quella è l’ultima tappa.»

Sgomento, Jandar si pietrificò.

«Hai imparato a sfruttare il tempo a tua disposizione in modo proficuo», proseguì il dragone, «non ti sei lasciato abbattere dalla frustrazione o dal risentimento. Non ti sei crogiolato nell’ozio. Hai deciso di migliorare quello che già conoscevi e avevi, una scelta eccellente. Io, invece, ho sfruttato questa occasione per carpire le tue capacità e i tuoi limiti.»

Lo stregone non riusciva a capacitarsi che Namias lo avesse messo alla prova, era stato un test. Aveva cominciato l’addestramento senza rendersene conto.

«Infine», proseguì Namias, «ti sei adattato alle basse temperature. Il fuoco che in principio era sempre acceso, negli ultimi giorni si è ridotto ai pasti e alle ore di riposo, perché sei stato capace di razionarlo ai momenti più importanti. Se quando sei giunto qui ti muovevi a stento per il freddo, ora sei molto più sciolto e riesci anche ad allenarti. Senza accorgertene, sei diventato più resistente. Il tuo corpo è più robusto, potendo sostenere con sforzo minore l’ equindaher

Jandar si sentì uno stupido. Il dragone non aveva compiuto alcun dispetto ai suoi danni, tutt’altro. Era nel posto giusto, con il maestro migliore. Sorrise.

«Resistere alle basse temperature sarà fondamentale per il tuo apprendimento», affermò Namias, «perché devi sentire il freddo.» Gli fece un cenno con la mano. «Avanti, togliti i vestiti.»

«Se mi spoglio morirò di freddo», avvisò mansueto.

«Fallo.»

Lo stregone obbedì. Rimase solo con i calzoni. Un gelido abbraccio lo strinse e cominciò a tremare. Si era abituato alle basse temperature della grotta, ma pur sempre ben coperto e mentre si muoveva in allenamento.

«Senti il freddo?» domandò il dragone.

«Certo… c-che… sento-to… freddo!»

Namias sbuffò spazientito. «Non ti ho chiesto se senti freddo, ma se senti il freddo! Quando lo sentirai, allora, e solo allora, parleremo di magia.» Aprì il palmo della mano e dal suolo emerse una spada di ghiaccio. L’impugnò mettendosi in posizione di guardia. «Per adesso, mostrami cosa sai fare con una spada…»

Il giovane raccolse a fatica la sua da terra. «E se… se ci… f-feriamo?» domandò, finora abituato ad allenamenti con spade di legno.

«Hai paura di graffiarti?» derise Namias, inespressivo. Poi non attese oltre e avanzò all’attacco. Un paio di colpi e disarmò l’allievo. «Ancora.»

L’elfo si muoveva con estrema agilità e grazia, era elegante e preciso. A volte si spostava da una gamba all’altra quasi per gioco, altrimenti restava fermo e si muoveva il giusto necessario per schivare gli attacchi. Anticipava ogni schema del giovane, come fossero sequenze prevedibili e banali. La cosa più sconcertante fu la forza impressa a ciascuno dei suoi fendenti. No, non si trattava di un elfo, era un dragone. Sapeva combattere con entrambe le mani alla stessa maniera e quando desiderava, cambiava lo stile alla stregua di un cappello. Namias non aveva nulla a che vedere con Enialis, erano su livelli diversi. Il dragone rappresentava un portento di coordinamento ed efficacia.

Jandar non trovò spiragli, non riuscì nemmeno a sfiorarlo. Quando terminarono, notò la propria spada ammaccata in più punti, mentre il corpo collezionava diversi tagli. Nonostante il freddo, era madido di sudore.

«Il dolore ti serve a capire», spiegò Namias vedendo il giovane toccarsi le ferite. «Combattere non è un gioco, i tuoi avversari non useranno pezzi di legno. Ciascun taglio serve a ricordarti le conseguenze dei tuoi sbagli. Sarò sempre più duro. Assaporare il dolore ti permetterà di comprendere quanto sia difficile affrontarlo e che, per questa ragione, non deve essere inflitto con leggerezza.»

«Sì, maestro.»

4

Spiriti della luce

«Padre… vorremmo sapere qualcosa di più su ciò che ci aspetta dall’oracolo», esordì Ethan alcuni giorni dopo essere tornati.

Al loro rientro Eilema li aveva accolti a braccia aperte, li aveva bombardati di domande e Alak ed Ethan erano stati felici di risponderle, perché quando erano tutti e tre insieme si creavano un equilibrio e un’armonia inspiegabili. Ma poi tutto era svanito, con Garret che era diventato sfuggevole, persino scontroso delle volte. Aveva continuato a evitare i loro sguardi, almeno finché loro due lo braccarono in un momento in cui lui non aveva avuto vie di fuga.

«Lo immaginavo. Credo che sia giusto…» si arrese il Gran Maestro, incamminandosi verso l’interno del monastero e facendo loro cenno di seguirlo.

I tre percorsero la galleria di pietra che attraversava la struttura, poi salirono per le scale a chiocciola fino al secondo piano, dove si trovava la stanza da cui Garret dirigeva Ferabath. Erano pochissime le volte in cui erano entrati lì. Un rivestimento di legno copriva le pareti incurvate. Su di esse, dipinta con colori vividi, si estendeva un’enorme mappa di Kernak. Ai margini del locale alcuni scaffali contenevano un’infinità di pergamene con la storia del monastero e di tutti i suoi monaci. Al centro, una massiccia scrivania di cedro s’imponeva sul resto dell’arredamento.

Il Gran Maestro andò a sedersi sullo scranno dietro il tavolo e Alak ed Ethan lo imitarono con le sedie davanti.

«Molti inverni addietro», cominciò a raccontare Garret, «il mio mentore, il precedente Gran Maestro, Surom, mi scelse come suo successore. Ovviamente mi sentii onorato, ma più è alta la posizione che si occupa, maggiore è il peso che grava sulle proprie spalle. Così, mi svelò un segreto: un modo per ampliare le capacità oltrepassando i limiti dei monaci. Si trattava di acquisire una fonte di ki maggiore, incanalando uno spirito affine alla propria anima.»

«Perché allora non svelarlo a tutti?» chiese Ethan.

«Una domanda comprensibile», convenne Garret, «ma vedi, il Sommo Maestro Dath cercò di fondare un ordine dedito al bene altrui. Questo perché vide che l’arte originaria del ki fu utilizzata anche per scopi personali di natura malvagia. I monaci shikiani, infatti, sono ancora tutt’oggi divisi in due fazioni: Luce e Tenebre. Per evitare che avvenisse lo stesso qui in Erebia, Dath decise di condividere questa possibilità soltanto con uomini altruisti e dal cuore puro.»

«Adesso comprendo, padre.»

«L’oracolo», riprese Garret, «ritiene che per il vostro viaggio sia necessario. Non dubito delle sue ragioni, ma sono restio a farvi compiere un simile passo. Siete ancora troppo giovani ed è una questione che non va presa alla leggera.»

Ethan colse subito le perplessità del padre: dubitava di Alak, sapendo quanto fosse egoista e avvezzo al fascino del potere. Poteva perdersi nell’oscurità. Come dargli torto? Istintivamente osservò il fratello con aria meditabonda. Gli occhi castani avevano un taglio deciso mentre i capelli bruni scendevano mossi fino alle spalle. Era alto per la sua età e dimostrava più dei suoi coetanei, il che lo rendeva ancora più arrogante.

«Sarà più che pericoloso, potrà anche essere letale», continuò il Gran Maestro. «L’esito non è assicurato, anzi, è incerto per chiunque. Sto parlando di un viaggio da percorrere in uno stato di profonda trance. Si può rimanere mesi, anni, addirittura una vita intera intrappolati nella propria mente. Perché di questo si parla. Non esistono regole in quel mondo, nulla è come appare, niente va dato per scontato.» Sul volto dell’uomo apparve della sofferenza malcelata.

«Quanto tempo impiegasti, padre?» domandò Ethan.

«Salimmo in due alla Sorgente del Benessere. Ci volle un intero anno per me, ma Frilond… non si svegliò più. Non esiste labirinto più intricato del proprio animo. Perdersi è facile. Dopo tre anni Frilond morì.» Si concesse una piccola pausa. «Tutto ciò che vivrete durante lo stato di trance sarà reso reale dalla vostra mente. Tanto il dolore quanto la morte.»

Entrambi i figli carpirono il dolore del padre attraverso i suoi occhi. La perdita di Frilond aveva lasciato in lui una ferita profonda.

«Come sei sopravvissuto per un anno? Cosa hai fatto tutto quel tempo?» domandò Ethan.

«Nel Sentiero degli Spiriti il tempo scorre in maniera diversa dal mondo reale. Lì un istante può essere un giorno e anche il contrario. Non affidatevi ai vostri sensi, perché non servirebbe. Durante lo stato di trance niente sarà vincolato alle leggi della natura, l’impossibile sarà possibile.» L’uomo li scrutò, poi disse: «Vi chiedo di prestare la massima attenzione, non siate troppo sicuri di voi. Cercate una forte ragione di vita e aggrappatevi a essa con tutto voi stessi. Mi raccomando». Alzatosi, andò ad abbracciarli.

Quel gesto d’affetto lasciò i due ragazzi attoniti. Ethan sapeva bene, così come Alak, quanto fosse difficile per Garret esternare le proprie emozioni e uscire dal ruolo di Gran Maestro.

Il giorno in cui Alak ed Ethan partirono, Garret li salutò con le solite raccomandazioni, tornando nel ruolo di maestro.

Eilema invece fu il consueto raggio di sole. Disse loro: «Se solo vi azzardate a non tornare, verrò a prendervi per le orecchie, capito? E badate che non starò con le mani in mano. Ho deciso di specializzarmi nelle arti di guarigione, così potrò prendermi cura di voi quando tornerete malconci». Tirò fuori la lingua facendogli l’occhiolino.

«Come mai questa scelta?» domandò Ethan incuriosito.

«Desidero salvare le persone che amo. Questa è la strada migliore.» Il suo sguardo cadde su Alak, in quanto era stato quasi ucciso alcuni anni prima da un gigantesco orco.

«Beh, è tempo di andare», disse Alak sorridendole. La baciò e si avviò.

«Torneremo, sta’ tranquilla sorellina», rassicurò Ethan prima di seguire il fratello.

***

«Nonostante qualche difficoltà, anche questa volta siamo arrivati a destinazione», commentò Alak distendendosi sul prato per riposare al sole.

Il tragitto non era stato senza ostacoli. Il maltempo li aveva rallentati, in un’occasione Ethan sarebbe precipitato nel vuoto se non l’avesse preso per tempo il fratello.

Ethan contemplò lo scenario meraviglioso per qualche altro istante, poi lo imitò.

All’interno della Sorgente del Benessere c’era un tempo magnifico, a dispetto del temporale presente all’esterno, pareva trovarsi in un altro mondo.

«È un piacere rivedervi», salutò l’oracolo sopraggiungendo dal lago.

I due scattarono in piedi.

«Il piacere è tutto nostro, eccellentissima», replicò Ethan con un inchino di riverenza.

Alak fece altrettanto, seppur in maniera meno marcata.

«Siete pronti per affrontare voi stessi?» interrogò lei continuando ad avvicinarsi alla riva.

«Sempre!» asserì Alak gonfiandosi in petto.

«Siamo al vostro servizio, mia signora», aggiunse Ethan.

«Se avete delle domande, questo è il momento di porle.»

«Io sì», ammise Ethan. «Esiste un modo per svegliarsi dalla trance senza riuscire nell’intento?»

«Mi spiace, ma non esiste. Successo o fallimento, non ci sono mezze misure, o trovate voi stessi o resterete intrappolati nella vostra mente. Siete ancora in tempo per ripensarci…»

«Mai!» ribatté d’impulso Alak. «Non sono venuto fin qui per tornarmene a mani vuote! Preferirei morire piuttosto che trascorrere il resto della vita a Ferabath.»

Le dure parole del fratello riaprirono una vecchia ferita nel cuore di Ethan. In tutti quegli anni i propositi di Alak non erano cambiati.

«Faremo ciò che va fatto per il bene comune», disse Ethan. «D’altronde, prima o poi dovremo comunque affrontare le nostre paure. No, non ci sono ripensamenti, mia signora.»

Sul volto acqueo dell’oracolo affiorò un’espressione di stupore, causata dai modi di Ethan. Un giovane di sedici anni, dal viso innocuo e delicato, ma più simile a un uomo maturo. «Mi fa piacere», replicò sorridendo.

L’oracolo tornò al centro del lago invitandoli a seguirla. Senza indugi, Alak ed Ethan entrarono immergendosi fino alla gola.

«Bene, ora dovete andare sottacqua e trattenere il respiro più a lungo possibile. Sgombrate la mente. Qualsiasi cosa accada, non abbiate paura perché io veglierò su di voi.»

Presero un profondo respiro e si lasciarono andare sotto le mani dell’oracolo. Una strana sensazione di pace li pervase. Addolciti dal sordo rumore della cascata che sprofondava nel lago e dai pesci variopinti che gli guizzavano intorno. La mite temperatura dell’acqua li deliziava con una mistica sensazione di rinvigorimento.

I secondi divennero minuti, l’ossigeno venne meno. In quell’istante, il panico si diffuse. Entrambi iniziarono ad agitarsi sotto gli spasmi dell’annegamento. Si dimenarono nell’inutile tentativo di riemergere, ma nulla, una strana forza li stava trattenendo. L’acqua penetrò nelle loro cavità orali e gli riempì i polmoni. Tutto cessò e furono accolti nell’oblio.

5

La Tana del Karex’han

Per un anno intero Namias allenò lo stregone unicamente all’uso della spada. Dapprima nella grotta, poi fino allo Specchio del Cielo in piena notte, sotto tempeste di neve e con le temperature più rigide. Fu un maestro severo, un cambio radicale rispetto a Enialis e Orideus.

Nonostante questo, Jandar non si lamentò mai. Quando rimaneva solo, si leccava le ferite come un cucciolo spaurito. Crebbe e si adeguò in fretta. Imparò con naturalezza a maneggiare la spada come non avrebbe mai immaginato e questo al dragone piacque.

«Sbrigati, cucciolo d’uomo», incitò Namias un giorno.

Jandar odiava essere chiamato in quel modo, ma incassava in silenzio.

Svestitosi, accorse verso l’uscita della grotta brandendo la spada. «Sto arrivando!» avvisò. Quando sbucò fuori, si ritrovò ai piedi di un imponente torrione. «Questa da dove salta fuori?»

La torre era spettacolare, tutta di ghiaccio. Era lavorata ad arte, ricolma di raffigurazioni e statue di draghi.

«Da oggi sarà questo il tuo allenamento», annunciò il dragone in tono severo. «Voglio che ne crei una simile per dimensioni e struttura, il resto puoi farlo a tuo piacimento. La sera continueremo con la spada.» Incrociò le braccia dietro la schiena e iniziò ad allontanarsi.

«Come faccio? Quale formula devo usare? Insegnami!» protestò alle sue spalle.

Namias si voltò con sguardo severo. «Non siamo maghi e non usiamo formule precise», rispose con disdegno. «Senti il freddo dentro di te, lascialo scorrere e usa l’ ansindium per far affluire l’energia secondo i tuoi desideri. Scegli tu quali parole usare.»

«Tutto qui?» ribatté sarcastico. «Ah sì, devo soltanto sentire il freddo e ordinare al ghiaccio di erigere una torre per me… semplicissimo», borbottò a bassa voce. Un concetto a lui assurdo, perché conosceva la magia soltanto attraverso le lezioni del vecchio mago. «Orideus mi ha insegnato…»

«Fa’ silenzio!» tuonò. La voce riecheggiò per l’intera vallata, rivelando la potenza di un dragone celata sotto l’aspetto di un elfo. «Se oserai contraddirmi ancora, andrai via! Sei qui per imparare. Il mago ti ha insegnato un cumulo di sciocchezze.» Lo trafisse con lo sguardo prima di dargli le spalle. «Non parlare e non limitarti solo a sentire, ascolta. Non soffermarti alla superficie delle parole, ma immergiti nei loro concetti. Le frasi sagge celano sempre delle perle al loro interno. Ogni concetto ne nasconde altri, per essere compresi soltanto da chi li vuole realmente comprendere, da chi è degno e avveduto. Non limitarti mai all’apparenza.

«I maghi usano la magia grazie a regole ben precise, per questa ragione sono vincolati entro certi limiti. Negli stregoni invece scorre la magia e possono adoperarla infrangendo le normali barriere. Possono oltrepassarne i confini per fare cose incredibili. L’unico limite è la tua mente. Entra in sintonia con il tipo di magia che vuoi creare e creala, come fosse una tela vuota su cui dipingere a tuo piacimento. Per erigere questa torre devi entrare in sintonia con il gelo e dominarlo. Il ghiaccio è difficile da padroneggiare, perché si crea tramite l’acqua e l’aria, quindi dovrai prima controllare questi due elementi per fonderli insieme e poi diventerai un Signore del Gelo. Quando sarai entrato in empatia con il freddo, allora immagina la torre nella tua mente, poi sorreggi le tue forze con l’ ansindium e sperimenta dove può arrivare il tuo potere. Comprendi adesso?»

«Credo di sì…» rispose titubante. «Sì», aggiunse con maggior sicurezza.

«Possono esistere diversi tipi di Signori», proseguì Namias, «capaci di invocare, evocare, trasmutare e controllare gli elementi, i metalli, il legno e altro ancora. Nessuno di questi può aggirare l’ equindaher , quindi sta’ sempre attento. Nessuno può padroneggiare tutti i poteri, perché molti escludono gli altri. Tu potrai fare qualsiasi cosa con il gelo, in parte anche con l’acqua e l’aria, ma non potrai mai più padroneggiare il fuoco e la terra, o i metalli. Questo è l’unico limite degli stregoni, mentre i maghi possono lanciare incantesimi di qualsiasi natura.»

«Sì, ora capisco.»

«Bene, allora datti da fare. Usa l’amuleto come ponte per sintonizzarti con il ghiaccio. Nello zaffiro è racchiuso il frammento di una mia scaglia, è molto più utile di quanto pensi perché crea un legame con me e con il gelo.» Detto questo Namias si allontanò.

Ci volle un altro anno per far sì che Jandar riuscisse a padroneggiare acqua e aria assieme. Infine riuscì a erigere la torre, simile alla gemella, seppur con raffigurazioni e statue di creature buffe. Apparivano come un incrocio tra cani e lucertole alate.

Quando il giovane la mostrò con soddisfazione, Namias non riuscì a trattenere un sorriso. Il cuore glaciale del dragone stava cominciando a sciogliersi. Da due anni si occupava di quel cucciolo d’uomo e cominciava a volergli bene.

Trascorsero altri tre inverni, in cui Namias insegnò a Jandar l’uso di altri tipi di magia e a perfezionare la padronanza del gelo. Così come lo istruì a difendersi dalle varie forme di potere.

«Sappi che il vero apprendimento inizierà quando comincerai a vivere lontano da qui», gli disse un giorno, «la vita insegna ciò che nessun maestro può. Impara fin da ora ad accettare la sofferenza, perché non esiste maestra più grande. Non fuggirle, affrontala e diventerai un grande uomo.»

«Cucciolo d’uomo, sei pronto per l’ultima prova?» domandò Namias.

Nonostante avesse raggiunto i ventidue anni e fosse diventato un vero stregone, il dragone continuava a chiamarlo in quel modo. Jandar lo odiava.

«Perché continui a chiamarmi così? Sai bene che non lo sopporto!»

«Quando mi mostrerai di essere diventato un uomo degno del mio rispetto, allora, e soltanto allora, non ti chiamerò più cucciolo d’uomo.»

«Che devo fare ancora per dimostrartelo?» domandò scettico.

«La grandezza di un uomo è data dalla sua determinazione.»

«Io sono più che determinato! Dimmi cosa vuoi che faccia e lo farò.»

«È conosciuta e chiamata come la Tana del Karex’han», spiegò Namias indicando a nord, nel cuore di Ghiarkur, una cima avvolta in una tormenta che spiccava sopra tutte le altre. «Ho posto nella sua sommità l’oggetto che devi prendere, ma bada bene, c’è un guardiano a sorvegliarlo.»

«Ho capito, non esiste luogo peggiore in tutta Ghiarkur, bene», ironizzò Jandar con un sorriso.

Il giovane preparò l’occorrente per il viaggio e poi si incamminò senza perdere altro tempo. La temperatura era rigida, ma si era ormai abituato, sentendosi a suo agio. Dopo aver attraversato una valle irta di sporgenze acuminate, raggiunse la base della Tana del Karex’han. La montagna bianca era avvolta da una tormenta. La neve cadeva con delicatezza mentre dall’alto si sentiva il vento impetuoso fischiare con ferocia.

Non c’erano né scalinate né sentieri, la parete di ghiaccio andava scalata. Gli unici appigli erano degli spuntoni affilati e instabili, inutilizzabili. Così, armandosi di buona volontà, attinse all’ ansindium per creare delle fratture dove si sarebbe appigliato per salire.

Si avviò e all’inizio fu semplice, ma più saliva e più la bufera s’interponeva tra lui e la sua meta. La temperatura subì un picco vertiginoso e la tormenta cominciò a infuriargli contro. Dapprima i vestiti s’inzupparono, poi s’irrigidirono ghiacciandosi. Il corpo parve congelarsi, mentre il volto si paralizzò. Era fradicio e più pesante, la stanchezza si fece sentire.

Cercò la vetta con gli occhi, ma non vide nulla. Non sapeva quanto mancasse, ma era già allo stremo. Il gelo lo stava divorando, sentì i muscoli intorpidirsi e il respiro farsi affannoso, l’aria parve graffiargli i polmoni. Non ce la faceva più, aveva scalato un’altezza non indifferente, ma l’uso della magia e l’opposizione di quell’ambiente l’avevano stroncato.

Sfruttò i suoi poteri per creare una nicchia e vi s’infilò per recuperare le forze. Restando immobile, però, le mani e i piedi cominciarono a congelare, rischiando l’ipotermia. Doveva tornare a muoversi. Si fece violenza e riprese la scalata, sentendo tutto il dolore. La perdita di sensibilità l’incitò ad aumentare il ritmo, ma per quanto arrancasse sulla Tana del Karex’han, la meta sembrava sempre lontana. La disperazione fece breccia nel cuore. Procedeva per inerzia, ma non voleva arrendersi. Sentì la tormenta abbracciarlo, nel tentativo di renderlo un tutt’uno con la montagna.

Le parole di Namias gli tornarono alla mente: «La grandezza di un uomo è data dalla sua determinazione». Nel cuore avvampò nuova forza, altre energie arrivarono in soccorso. Non poteva arrendersi.

La Tana del Karex’han sembrò percepire la sua forza di volontà e la bufera si fece più furiosa. Parve quasi convogliare contro di lui nello sforzo di farlo precipitare. L’aria era densa e pesante, si respirava a fatica. La visibilità divenne inesistente oltre un palmo dal naso.

Jandar non si perse d’animo, più percepiva l’ostilità della montagna e più rafforzava la propria determinazione. Non si fermò fin quando tastò il vuoto, accorgendosi di essere giunto su una insenatura naturale. Gioì.

Si ritrovò in una specie di basso camminamento. Guardandosi attorno vide una spaccatura nella parete, troppo stretta per passarci attraverso, così attinse ancora all’ ansindium per allargarla. La furia della tormenta parve zittirsi alle sue spalle mentre percorreva la galleria.

Quando raggiunse un punto al riparo, sentendosi al sicuro, cadde a terra stremato. Non desiderò nulla più di un fuoco con cui scaldarsi. Restò lì per una buona mezz’ora, prima di procedere. Mangiò e recuperò un po’ d’energie. Rimessosi in cammino, raggiunse un ampio salone circolare dal soffitto a cupola con stalattiti di ghiaccio. Ai lati del pavimento vitreo c’erano degli imbocchi per altri corridoi, mentre al centro era attraversato da una colonna di energia celeste che illuminava l’intera area. All’interno di quest’ultima, sospesa a mezz’aria, c’era una spada riposta nel fodero.

L’ho trovata! esultò fiero.

Avanzò con noncuranza, fin quando udì un forte respiro da lui poco distante. In quel momento ricordò di aver dimenticato ciò che non avrebbe dovuto.

Dannazione… imprecò fra sé per quella terribile leggerezza, il guardiano!

6

Nell’io più profondo

Alak rinvenne sulla cima di un monte. Stordito e confuso, non ricordando cosa fosse accaduto. Si alzò guardandosi attorno e vide soltanto delle vette unite da lunghi ponti di legno sospesi nel vuoto. Il cielo schiarito dipingeva di serenità l’atmosfera, ma nuvole spedite passavano a intervalli caotici stravolgendo le condizioni climatiche. Sole, pioggia e neve, si alternavano senza logica e in maniere imprevedibili.

Decise di muoversi e attraversò uno dei ponti per raggiungere un’altra altura, ma il paesaggio non cambiava. Tutto appariva uguale da qualsiasi punto l’osservasse. Continuò per ore a vagare in quel labirinto invariato, sospeso tra le nuvole.

Le assi del ponte scricchiolavano al suo passaggio. Alak avanzava con estrema cautela e un po’ di paura. Sotto di lui, qualsiasi cosa veniva inghiottita nell’oscurità. Inoltre i continui cambiamenti climatici presero a irritarlo.

Il tempo trascorreva lento e inesorabile davanti a un luogo sempre uguale, tanto da dargli l’impressione di vagare da giorni.

«Che vuoi da me?!» urlò nervoso.

La voce riecheggiò.

«Dannazione!» esclamò calciando una pietra.

Oltre il vento e la pioggia non si sentiva nulla, soltanto un assordante silenzio.

«Che devo fare?»

La rabbia repressa esplose in una corsa forsennata e priva di senso. Attinse al ki e passò da una vetta all’altra a velocità sovrumana. Madido di sudore e con il fiatone, decise di fermarsi. Poggiò le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.

«Che devo fare…?» farfugliò sconfortato.

«Anche se non brilli per intelligenza, la risposta è semplice», rispose una voce familiare.

Alzò il capo e vide Ethan. «Fratello!» Era felice di vederlo. «Pensavo di essere solo. Non riesco a capire come uscire.» S’incamminò verso di lui.

«Vuoi andartene da qui? Battimi.»

«Non essere stupido, a che servirebbe?»

Ethan scattò in avanti, portando un attacco che fu schivato d’istinto.

«Dannazione, ti pare questo il momento di combattere?!»

Il ragazzo più giovane continuò a incalzarlo.

«Va bene, se è questo che vuoi, preparati. Ti darò l’ennesima lezione.» Alak iniziò a rispondere ai colpi, senza riserve. In pochi secondi stese Ethan bloccandolo a terra. «Che ti avevo detto? Ora smettila di fare lo stupido», l’ammonì in tono seccato.

Inaspettatamente, un calcio lo raggiunse al costato. Il colpo fu così forte da scaraventarlo a un paio di metri di distanza, dove finì rotolando sull’erba. Con una smorfia dipinta sul volto, portò la mano sulla zona dolorante.

«Dannato vigliacco, come hai osato?!» Alzò lo sguardo e vide Tunim accanto al fratello.

Il maestro di Ferabath, vice di Garret, era alto, con corti capelli biondi e occhi castani. Spalle larghe e orizzontali lo rendevano tra i più imponenti del monastero. Indossava il consueto saio grigio.

«E così, non essendo capaci di battermi singolarmente, vi siete alleati», disse Alak rialzandosi. «Che vigliacchi! Poco importa, anche uniti non ne sarete capaci.» Detto questo si lanciò all’attacco.

Ethan e Tunim si spalleggiarono in un pittoresco combattimento di arti marziali.

«Non sapete fare di meglio? Che vergogna…» beffeggiò Alak, riuscendo a tener loro testa senza eccessive difficoltà. Attingendo alla propria foga e alla voglia di sovrastarli, li costrinse sulla difensiva fino a quando, alla fine, li sbaragliò. «Io sono il migliore di tutta Ferabath!» annunciò trionfante.

«Devi ancora dimostrarlo…» disse una quarta persona alle sue spalle.

Alak si voltò di scatto per scoprire che era stato Garret a parlare.

«Se pensi di essere il migliore dovrai battere i migliori. Più fatti e meno chiacchiere», provocò il Gran Maestro.

Lui fece un ghigno sprezzante. «Se è questo che vuoi, padre, sarò felice di accontentarti.»

Garret balzò in avanti raggiungendo il figlio con un approccio molto aggressivo. Sferrò due pugni potenti che lo costrinsero a indietreggiare. La fama del Gran Maestro era meritata.

L’uomo si trovò subito in vantaggio, colpiva a ripetizione e il figlio non riusciva a difendersi. Ogni attacco andato a segno provocava un dolore lancinante al ragazzo, come se fosse stato centrato in pieno da una mazza d’acciaio.

Io sono più forte di lui! si ripeté Alak. Sputò sangue dalla bocca e si convinse di essere meglio di quanto avesse dimostrato. La sua velocità e potenza aumentarono a vista d’occhio, il corpo sembrò seguire i comandi dettati dalla mente. Nel giro di qualche

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