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Shaquille O' Neal: La biografia definitiva di The Big Diesel
Shaquille O' Neal: La biografia definitiva di The Big Diesel
Shaquille O' Neal: La biografia definitiva di The Big Diesel
E-book401 pagine6 ore

Shaquille O' Neal: La biografia definitiva di The Big Diesel

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Info su questo ebook

Shaquille O’Neal è stato – e resta – uno dei cestisti più iconici nella storia della Nba. Non solo per le peculiarità fisiche o per il suo sorriso ammaliatore, quanto più per le mille sfaccettature della sua multiforme personalità. Sul parquet, Shaq ha dominato il gioco come pochi altri prima – e dopo – di lui, arrivando a vincere quattro titoli e a indossare le vesti di uomo copertina degli Orlando Magic, dei Los Angeles Lakers e, in parte, dei Miami Heat. Parallelamente alla carriera di giocatore, Shaq è stato anche attore, rapper, entertainer, imprenditore, poliziotto e – oggi – volto televisivo e opinionista sportivo. Istrionico, guidato da un’energia inarrestabile e una simpatia travolgente, in questo libro sono raccontate tutte le sfumature di uno dei personaggi più inarrivabili del basket americano. Una storia entusiasmante che percorre tre decenni di pallacanestro a stelle e strisce, vissuti da The Big Diesel come assoluto protagonista per potenza e carisma. 
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita12 feb 2024
ISBN9788836163779
Shaquille O' Neal: La biografia definitiva di The Big Diesel

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    Anteprima del libro

    Shaquille O' Neal - Davide Torelli

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    Davide Torelli

    SHAQUILLE O’NEAL

    La biografia definitiva di The Big Diesel

    Introduzione

    Da Shack a Shaq

    Il 27 gennaio del 2017, Charles Edward Shackleford, ex cestista cinquantenne caduto in disgrazia da qualche anno, viene trovato senza vita in un appartamento di Kinston, nel North Carolina.

    Il suo percorso nella National Basketball Association non è stato dei più memorabili, è vero: sei stagioni senza particolari guizzi, intervallandosi in campionati esteri, dove un potenziale fin lì inespresso sembrava finalmente in grado di uscire fuori.

    Potenziale emerso nel triennio collegiale alla corte di coach Jim Valvano, con la maglia dei Wolfapack di North Carolina State.

    Non certo un ateneo da poco, anche se storicamente meno blasonato dei concorrenti diretti all’interno dello Stato. Eppure, per tutti gli appassionati l’impresa dei ragazzi di Valvano datata 1983¹ è rimasta indimenticabile, e il potente Shackleford sarebbe stato a disposizione del coach – poi divenuto leggendario per il suo "Don’t give up"² – due anni dopo quel successo.

    Oltre a un dominio fisico emergente nel suo percorso universitario, Charles sapeva farsi apprezzare dai compagni per un carattere esuberante, ma spesso incapace di fermarsi a un passo dal disastro: un uomo non sempre in grado di prevedere le conseguenze delle sue azioni, questione che gli avrebbe portato non pochi grattacapi sia durante i suoi anni da professionista, sia in quelli successivi. Anche un’accusa di partite truccate nel suo ultimo anno a Nc State, quello concluso con oltre 16 punti e quasi 10 rimbalzi di media, con una discreta tendenza a dominare sotto i tabelloni.

    Selezionato come trentaduesima pick al Draft del 1988 dai New Jersey Nets, resiste inizialmente appena due anni, trasferendosi a Caserta – in Italia – dopo una seconda stagione di discreto livello per una riserva. Per lui ventidue minuti di impiego, 37 partenze in quintetto, 8 punti e quasi 6 rimbalzi a uscita: neanche malaccio in una posizione da dividersi con Sam Bowie e Joe Barry Carroll, seppure in una squadra capace di vincere appena 17 partite su 82 stagionali.

    Il suo problema sembrava essere una scarsa tendenza al sacrificio – tradotto: poca voglia di allenarsi – da aggiungersi a quella solarità che può apparire umanamente un pregio, ma capace di mal influenzare un contesto come quello. Eufemisticamente definibile come poco professionale a livello competitivo.

    Insomma, l’uomo conosciuto come Shack, da dominatore del basket universitario, si trova a reinventarsi nel vecchio continente, diventando assoluto beniamino dei tifosi della Juve Caserta.

    Grazie anche a lui – capace di arringare le folle a suon di roboanti schiacciate – quel gruppo che contava tra le sue file anche Nando Gentile e Vincenzo Esposito riesce a strappare uno scudetto incredibile nella stagione 1990-1991. Sconfigge in finale l’Olimpia Milano, dopo averla sempre rincorsa per tutta la serie, superandola nella decisiva gara 5 al Forum di Assago per 97 a 88. Per Shack 20 punti e 20 rimbalzi.

    Numeri che scolpiscono il suo nome nella storia della pallacanestro nostrana, pur praticata fugacemente,³ e malgrado quel bisogno (testimoniato dai compagni del tempo) di essere sempre spronato per mettersi in moto. Quasi che, privo di una motivazione spesso figlia di provocazioni anche infantili, quell’omaccione dalle spalle larghissime non riuscisse ad accendere in sé il sacro fuoco della competizione.

    Purtroppo – e nonostante i successi ottenuti a Caserta, ma anche in Grecia a seguire – per attitudine e storico, il povero Shackleford poteva al massimo esser ricordato come "what if" negli States, a seguito della sua prematura dipartita.

    Sì, perché stando alla bassa considerazione di qualsiasi altro basket fuori dal continente da parte degli americani, il suo invisibile percorso in Nba ne ha offuscato, alla lunga, anche i momenti più luminosi passati in maglia Wolfpack. Quando tutto era ancora possibile, e si poteva intravedere un futuro più roseo per lui. A patto che avesse cambiato attitudine.

    Malgrado tutto, in seguito al decesso⁴ il suo nome è tornato a risplendere principalmente per assonanze o, ancor meglio, ispirazione generata. Anche perché a nessuno poteva sfuggire la similitudine tra Shack e Shaq, quest’ultimo il più noto tra i numerosissimi soprannomi che hanno contraddistinto la carriera di Shaquille O’Neal. Lui, letteralmente, uno dei centri più dominanti al mondo ad aver mai calcato un parquet.

    E parlare di soprannomi (al plurale) è d’obbligo, perché l’ex giocatore di Magic e Lakers (tra le altre) ne detiene probabilmente più di chiunque altro. Molti di questi creati da se stesso, oltretutto. Una roba tipo Diesel, The Big Aristotle, The Shaq Fu o il più banale Superman, tra i tanti.

    La cosa fa specie se si parla dell’universo Nba, dove i nickname hanno da sempre avuto un ruolo fondamentale nell’alimentare l’immaginario collettivo, alimentando personalità che nascono sul campo ma riescono – nella migliore delle ipotesi – ad andare anche oltre. Bucando gli schermi televisivi, diventando testimonial commerciali, o talvolta veri e propri brand.

    Non a caso, Shaq diviene da subito riconoscibile, soprattutto se associato a un logo iconico in abbinamento con i prodotti di una nota marca di scarpe e abbigliamento sportivo come la Reebok. Un qualcosa che avviene fin dal primo anno di Shaquille nella lega, entrato dalla porta principale come conclamata prima scelta del Draft 1992, a opera degli Orlando Magic.

    Già considerato un potenziale hall of famer dalla maggior parte degli addetti ai lavori, se non tutti. Perfetto connubio di stazza, agilità e potenza. Dotato di una rapidità inusuale per quel tonnellaggio (soprattutto nei primi anni), da accompagnarsi con una cattiveria capace di renderlo terrificante. Nonostante che poi, fuori dal rettangolo di gioco, O’Neal rappresentasse il ragazzo perfetto per stare al centro dell’attenzione: spigliato, dotato di un sorriso perennemente incollato sul volto, multiforme per talenti.

    Ideale per poter rivendicare una posizione da protagonista non solo nell’universo dello sport professionistico, ma anche dietro una telecamera (cinematografica o televisiva poco importa) o sopra un palco, magari con un microfono in mano. Al limite dietro un mixer e una consolle. Perennemente sotto i riflettori per una parabola personale che ancora non sembra voler discendere, seppur ritiratosi dalla carriera agonistica nel 2011, dopo diciannove anni di onoratissima carriera.

    Eppure, se proviamo a guardarci indietro tratteggiando quel percorso che lo ha portato dalle case popolari di Newark, nel New Jersey, fino alla vetta del mondo, lo Shack di North Carolina State può essere un buon punto di partenza. Certamente non a livello cronologico, per quanto utilissimo a comprendere le complessità dell’uomo Shaquille, che lo hanno reso quello splendido (e vincente) atleta che tutti conosciamo. Perché dietro la similitudine nel soprannome c’è una vera e propria ispirazione.

    Quella che il giovane O’Neal trae in un momento della vita in cui, da adolescente inquieto, capisce che la pallacanestro poteva rappresentare il suo futuro. Che aveva tutte le carte in regola per diventare un dominatore del gioco, cercando di limitare i suoi istinti, tipici dei ragazzi della sua età. E per fare questo, il nostro Shaq avrebbe dovuto seguire la direzione inflessibile dettata da un severo educatore – che per tutta la vita chiamerà papà, pur non essendolo a livello biologico – canalizzando le sue energie sulla voglia di emergere. Nascondendo rabbia, frustrazione e delusioni adolescenziali dietro un carattere solare – come quello dell’altro Shack, incapace talvolta di non valicare il limite – ma con il focus ben direzionato sull’obiettivo.

    A dispetto di quel che le misure lascerebbero intendere, Shaquille O’Neal non nasce come superuomo, né si sviluppa con quella tendenza. Nascosto da qualche parte tra i suoi 216 centimetri di altezza e i suoi 150 chilogrammi abbondanti di peso, resiste un carattere sensibile, forgiato fin dalla più tenera età, ma a tratti bisognoso di supporto. Ed è curioso vedere come la sua vita sportiva si sia sempre mossa grazie all’influenza di qualcun altro, non necessariamente destinata a durare nel tempo.

    A partire dall’estrema infanzia, O’Neal ha avuto bisogno di mentori capaci di indicargli sia la strada da seguire sia il lavoro da intraprendere, per poi accoppiarsi con talenti da completamento con i quali esaurire presto ogni intesa. Salvo diventar lui stesso uno di quelli, quando avviatosi verso la propria parabola discendente.

    Anche e soprattutto per questo, ha senso raccontare la sua storia partendo spesso da un generico altro capace di spronarlo e completarlo. Del quale fidarsi, anche per un limitato periodo temporale, indispensabile per ogni singola avanzata del proprio percorso. Charles Edward Shackleford, Phillip Harrison, Dale Brown, Leonard Armato in primis. Penny Hardaway e Pat Williams, Phil Jackson e Kobe Bryant, Dwyane Wade e Pat Riley a seguire. Il padre biologico, Joseph Toney, in estrema conclusione.

    Senza dimenticare figure fondamentali che contemporaneamente entrano in contatto con il suo universo, influenzandolo in modo degno di nota. Stimolandolo principalmente a livello competitivo. In un cammino che – è fondamentale dirlo – si snoda con un susseguirsi quasi schizofrenico di sfondi. Come se una personalità tanto multiforme non potesse svelar se stessa in un unico, singolo, palcoscenico.

    Dall’infanzia divisa tra New Jersey e Germania all’adolescenza in Texas, dove frequenta la high school. Per riprendere con Baton Rouges – sede della Louisiana State University – e finire a Orlando, sua porta d’accesso per il mondo dei professionisti.

    E poi Los Angeles (sfondo ideale, predestinato), Miami, Phoenix, Cleveland e addirittura Boston come estrema coda della sua vita cestistica. Non certo indimenticabile, quest’ultima tappa, ma dopo quasi quattro lustri passati al centro delle attenzioni in Nba… ci sta.

    In mezzo a tutto questo ci sono delusioni, critiche, scelte discutibili, successi e anche esagerazioni. Seppur queste non siano mai da intendersi a livello comportamentale, come dannose per se stesso o per il prossimo, anche a livello di mero vizio. Più verosimilmente da vedersi sotto un’ottica prettamente mediatica, visto che O’Neal si interseca sia con il mondo del cinema, sia con quello dell’hip hop nelle (strane) vesti di rapper.

    Shaq è sempre stato un atleta con un ego smisurato anche oltre la sua dominazione cestistica, ma mai protagonista di azioni scellerate lontano dai riflettori. Anzi, contemporaneamente alla sua carriera sportiva riuscirà anche a laurearsi ufficiale di riserva presso la Los Angeles Port Police, partecipando ad azioni poliziesche e replicando il tutto nei suoi trasferimenti professionali a seguire: in Florida, Virginia, Arizona.

    Ed è proprio per questo che il compianto Shackleford è il punto di partenza perfetto per iniziare, tratteggiando a livello introduttivo il personaggio di O’Neal. Perché se un dualismo tra Shack e Shaq non è mai esistito⁵ nella realtà, il rapporto tra i due appare distante, quasi metaforico, ma influenza in qualche modo il protagonista di questo volume.

    Tutto ha inizio negli anni della Robert G. Cole High School in quel di San Antonio, momento in cui Shaquille prende coscienza del suo potenziale atletico, cercando di costruirsi in materia di stile e cattiveria. Sì, perché quando sei gigantesco rispetto ai tuoi coetanei hai due strade, nel basket come nella vita: o incuti terrore, oppure ti poni come un clown. Altrimenti, è molto probabile che il resto del mondo ti additi come poco sveglio, o più educatamente con la testa fra le nuvole.

    Il giovane O’Neal non vuole quello, anzi, ha appena superato la paura del provare a schiacciare in partita, sbloccandosi dalla paura di fallire e dalla possibile figuraccia consequenziale.

    Siamo, indicativamente, nella seconda metà abbondante degli anni Ottanta, e il centro dei New York Knicks Patrick Ewing sembra rappresentare il modello ideale da imitare. Sempre con la faccia minacciosa, pronto a menar le mani, capace – almeno in quella prima fase di carriera – di portare la sua stazza in giro per il campo con rapidità e violenza, quella che sfogava con le sue affondate al ferro.

    Insomma, cattivo e temibile, come quel lungo di North Carolina State che una sera il giovane O’Neal scopre davanti al televisore: Charles Shackleford, proprio lui. Tanto mobile da poter giocare power forward, ma ben piazzato per poter intimorire gli altri big men a livello collegiale, Shack schiacciava la palla nel canestro con rabbia ogni volta che poteva. Letteralmente sembrava voler maltrattare i suoi avversari a ogni scontro nel pitturato, diventando così il secondo riferimento stilistico da osservare per il giovane Shaquille.

    Dopo il primo incontro televisivo con lui, O’Neal decide di copiarne le ginocchiere – che indossa al primo allenamento possibile – oltre che il soprannome, cambiandolo quel poco che basta per poter calzare a pennello con il suo nome. «Da oggi, chiamatemi Shaq», dice ai compagni.

    Certo, la prospettiva di poter essere ancor più pauroso di lui (anche perché più grosso per proiezione di crescita) era abbastanza nitida, a maggior ragione lavorando sulle proprie skills tecniche e abbinandole a un’indole meno magnanima, più tendente alla distruzione del prossimo. Che fosse un malcapitato avversario, oppure il semplice canestro sul quale iniziava a scagliare le sue schiacciate bimani, poco importava.

    E infatti, al termine della scuola superiore, Shaquille è già considerato tra i prospetti più appetibili del Paese. E davanti a lui trova una fila di università desiderose di averlo con sé, disposte a offrirgli una borsa di studio. Ma il tema dei reclutamenti, e delle offerte fuori regola, era particolarmente sentito in quel periodo. Altrettanto attenzionato da suo padre, il Sergente Phillip Harrison, disposto a funzionare da parte attiva nella valutazione e scrematura delle pretendenti, in pieno supporto del figlio. Tra le tante interessate (e interessanti), ne resistono un paio: Louisiana State e North Carolina State. Quest’ultima, tra l’altro, la squadra che fu dell’altro Shack, che lo vide parte integrante del progetto.

    L’energia e la sincerità di coach Jim Valvano fanno immediatamente colpo sia su Shaquille, sia sul Sergente. Ma la prospettiva di venir dopo Shackleford – come indicato da Valvano stesso – da una parte attira O’Neal, ma dall’altra lo adombra.

    Certo, sarebbe interessante un metaforico passaggio del testimone,⁶ ma forse non esattamente ideale per uno che mirava a diventare la stella della propria squadra fin dall’inizio della sua stagione da freshman. Forse, anche per il rispetto che nutriva per un giocatore ormai idealizzato, non sarebbe stato facilissimo farlo calcando l’ombra di Shack.

    Anche per questo (ma pure per altre ragioni che incontreremo più avanti), Shaq decide di portare il suo talento a Baton Rouges, vestendo la maglia di Lsu. Lo farà per tre anni, per entrar in Nba dalla porta principale.

    A quel punto, Shackleford era già diventato tutto quel che di male Shaquille avrebbe potuto essere senza la guida del Sergente, e se avesse ceduto fin dall’infanzia ai suoi istinti più festaioli.

    Il 18 novembre del 1992 i due si incontrano sul campo per la prima volta, in Nba. Cioè, si affrontano le due squadre, perché il coach dei Sixers fa entrare Charles per appena tre miseri minuti in coda alla gara, vinta agilmente dai Magic con un O’Neal da 29 punti, 19 rimbalzi e 3 stoppate. Era la sua sesta gara ufficiale di regular season.

    Poco meno di un mese dopo, il 15 dicembre, Philadelphia e Orlando si scontrano di nuovo. Il risultato è ancora nettamente a favore di Shaq, che chiude con 20 punti, 14 rimbalzi e 6 stoppate in appena ventinove minuti. Per Shack, di contro, nove minuti di impiego dove riesce appena a sbagliare un tiro e commettere un fallo. E dire che era appena rientrato nella lega dopo la riabilitante esperienza di Caserta, dove sarebbe ritornato non troppo tempo dopo, bocciato dal professionismo per scarsa attitudine al lavoro.

    In quel momento Shack ha ventisei anni, ed è costretto ad accettare contratti infimi per restare in Nba, giocando pochi minuti e cedendo più facilmente a vizi che, più avanti, ne avrebbero anche sporcato la fedina penale. Bruciatosi la totalità della nomea acquisita alla corte di Valvano, la prospettiva più soddisfacente per restare professionista era quella di guardare ancora al vecchio continente. Ma quanto tempo sarebbe durato il tutto? E soprattutto, quanta garanzia di solidità economica futura gli avrebbe lasciato?

    Probabilmente lo Shaq ventenne di allora non è interessato a far ragionamenti simili. Forse ha già rimosso l’uomo che (indirettamente) ha dato origine alla sua attitudine temibile e a un soprannome divenuto brand. Quantomeno, lo ha rimosso dalle sue attenzioni.

    Pienamente cosciente di sé, già pensa a come scalare la vetta della lega, magari trasformando una franchigia di recente nascita come gli Orlando Magic in una squadra da titolo. Al limite, segnandosi sul calendario le sfide con i migliori pari ruolo presenti: giocatori come Patrick Ewing, David Robinson e Hakeem Olajuwon. Altro che il povero Charles Shackleford. Destinato a restare degno di una minima appendice tra gli incroci di destini che determineranno il successo di O’Neal. O meglio, dell’altro Shaq. Non l’originale – quello era Shack – ma il più universalmente conosciuto. Destinato a impersonare il worst scenario verso il quale la carriera di uno dei centri più dominanti nella storia del basket poteva tendere. Soprattutto senza l’influenza decisiva del già citato Sergente Phillip Harrison. Suo padre in tutto e per tutto, per durezza nell’educazione e amorevole protezione. Seppur effettivamente nient’altro che un estraneo biologico per lo stesso Shaquille, del quale – come evidente – non porta neanche il cognome.

    Tempo quindi di partire veramente dall’inizio, più o meno dal 6 marzo del 1972, data in cui a Newark vede la luce il protagonista di questa storia. Il cui nome, bizzarro, significa letteralmente piccolo guerriero⁷ (seppur tanto piccolo non sia mai stato, neanche da lattante).

    Per quel che riguarda Charles Edward Shackleford, che riposi con la pace che si merita colui che è stato, al peggio di tutto, la versione originale di un soprannome divenuto leggendario.

    Parte prima.

    Dominare è un destino

    Phillip Harrison, il Sergente

    12 Luglio 1967, Newark, New Jersey. John William Smith è un tassista afroamericano che guida il suo cab pur senza patente, revocata in precedenza. Malgrado quello, ha un disperato bisogno di lavorare: proviene dal sud degli States, dove si dilettava suonando la tromba, e necessita di racimolar denaro per pagarsi delle spese dentistiche. Poi, ci sarebbe anche da sopravvivere.

    Nella stessa settimana era stato coinvolto in almeno otto incidenti stradali, non esattamente una garanzia. Ma quella era Newark, appunto, non proprio il miglior luogo in cui approdare, oppure vivere. Certo, una città degradata e ben diversa dal gioiello che poteva apparire nei primi anni del XX secolo: c’erano industrie, c’era benessere, c’erano sessantatré teatri e quarantasei cinema. Volendo, quindi, anche fermento culturale o quantomeno vita notturna soddisfacente. Tutto questo fino alla Seconda guerra mondiale, in seguito della quale arrivarono gli emigranti dall’Europa, con conseguente ghettizzazione etnica. Interi quartieri suddivisi per comunità dalle origini più lontane, da accompagnarsi con il processo di deindustrializzazione che stava colpendo l’area.

    Con il ritorno di numerosi veterani di guerra – e i nuovi vantaggi⁸ a loro disposizione – gran parte delle famiglie bianche si spostavano altrove, puntando alle comodità dei sobborghi, più a misura di benestante. In seguito alla più classica suburbanizzazione, il Central Ward viene riempito di afroamericani, facili da raggirare sia a livello lavorativo che abitativo, perché bisognosi di sopravvivere in un contesto in netta decadenza. Salvo poi venire sfollati in un secondo tempo, senza troppi fronzoli, perché quell’area era destinata alla costruzione di una nuova facoltà universitaria di medicina, generando ulteriori tensioni.

    Si crea così il terreno per quel che sarebbe esploso nel 1967: discriminazione razziale, ghettizzazione, limitato accesso all’istruzione, eccesso di povertà e criminalità diffusa.

    Newark, come altre città d’America in quel periodo storico, è una polveriera. Ed è proprio John William Smith a funzionare da detonatore, quel 12 di Luglio, alle ore 21 circa. Superando, con il suo mezzo, un’auto della polizia parcheggiata in doppia fila. Gli agenti lo inseguono, lo obbligano a fermarsi e poi ci vanno giù pesante, picchiandolo senza troppi patemi. Si tratta di tali John DeSimone e Vito Pontrelli – inutile dirlo, bianchi – e testimonieranno di essere stati aggrediti per primi, oltre che presi a male parole. Dopo averlo arrestato, lo portano alla stazione di polizia del distretto trascinandolo di forza fuori dal mezzo, tanto era già provato dalle percosse.

    La caserma si trova proprio davanti alle case di Hayes, progetto di edilizia popolare un po’ lasciato a se stesso. Dalle finestre delle case, tutti vedono i pestaggi che proseguono all’interno della stazione di polizia, e la voce si diffonde rapidamente. Qualcuno dice che Smith è stato ucciso dalle botte, la folla aumenta e si accalca fuori dal distretto, decisa a protestare per il proverbiale vaso che trabocca. Gli appelli per una rivendicazione pacifica suonano inutili, anche perché gli abitanti afroamericani di Newark ne hanno fin sopra i capelli. Si sentono segregati, dopo anni di disinteresse dei loro bisogni da parte del potere politico bianco, vittime continue della repressione poliziesca, raggirati da quelle politiche di rinnovamento urbano promesse e mai mantenute.

    Smith fortunatamente non muore. Grazie alla presenza di associazioni per i diritti civili, immediatamente allertate, viene trasferito nell’ospedale più vicino a causa delle ferite riportate. Tra gli attivisti presenti anche Bob Curvin, che recatosi sul posto e vista la folla inferocita, prova a salire su un’auto parcheggiata per stemperare gli animi. Quando iniziano a volare sassi e molotov, però, deve arrendersi all’inevitabile. Anche perché la polizia in tenuta antisommossa esce dal dipartimento, imbracciando caschi e manganelli e rispondendo⁹ alle proteste.

    Iniziano così le rivolte di Newark: sei giorni di guerriglia urbana sanguinosa, ventisei morti (la maggior parte dei quali residenti), settecento feriti. Oltre 10 milioni di dollari di danni, interi isolati carbonizzati, violenza indiscriminata, saccheggi.

    Per portare un esempio, tale Rebecca Brown muore dentro il proprio appartamento, vittima di una raffica di proiettili scagliata gratuitamente contro la sua finestra. Insomma, per strada impazza il delirio e nessuno si trova realmente al sicuro.

    Tutto questo, come in altre circostanze simili – sia precedenti che a seguire – non porterà alcun cambiamento alla condizione di chi, legittimato da una infima qualità della vita, decide di elevarsi e sfidare il potere con ogni mezzo. Le rivolte di Newark non faranno che impoverire ulteriormente l’area, avvallando la fuga delle poche industrie rimaste, nonché l’emigrazione della totalità delle famiglie bianche ancora presenti. In nome di una sicurezza definitivamente perduta.

    Nel lungo termine, quindi, aumenterà il degrado locale (tanti edifici rasi al suolo, mai ricostruiti) e sarà favorito l’ulteriore impoverimento degli afroamericani lì ghettizzati. Tra questi ci sono anche Lucille O’Neal e sua madre Odessa. La prima è costretta a dare alla luce il primo figlio in solitudine, concepito all’età di diciassette anni: cinque anni dopo quelle rivolte, che per quanto fosse poco più che bambina, ricorda perfettamente.

    Stesso discorso per Phillip Harrison, di origini giamaicane ma nato a Newark, destinato a diventare Sergente dell’esercito statunitense nonché marito di Lucille. Ma solo in un secondo tempo, quando il piccolo Shaquille Rashaun aveva già visto la luce, senza la presenza del suo vero padre. Quello, tale Joseph Toney, avrebbe convissuto a lungo con problemi legati alla giustizia e alle dipendenze. Abbandonando la compagna fin dalla nascita del piccolo, non lo vedrà portare in dote neanche il suo cognome.

    Shaquille, come ben sappiamo, muoverà i suoi primi passi da piccolo guerriero con l’ausilio della donna che lo fiancheggerà per tutta la vita, portando accanto al nome il suo marchio di origine, O’Neal. Inusuale, certo, ma necessario in circostanze simili.

    Che il ragazzo fosse un predestinato non lo dicevano solo le misure – tendenzialmente abnormi rispetto ai pari età – ma anche quel che del suo padre biologico si diceva in giro. E cioè, anche se non proprio un modello da seguire, che fosse un gran giocatore di pallacanestro. Come il Sergente Phillip Harrison, del resto, contro il quale si era scontrato più volte a livello di high school. Insomma, nella Newark post rivolte sarebbe esagerato dire che si conoscevano tutti, ma i destini dei due si erano già incrociati. E avrebbero continuato a farlo.

    Quando Phillip e Lucille convogliano a nozze, Shaquille rimane protetto dal cognome materno. Fino all’età di undici anni, non era neanche a conoscenza che il suo vero padre fosse un altro. Non si era mai posto la domanda. Malgrado i tre fratelli portassero il cognome di Harrison, e che il Sergente rappresentasse colui che è normale chiamare papà, non solo per vicinanza.

    L’educazione impartita dal patrigno è di impostazione prettamente militare, quindi rigida fin da subito. Un qualcosa di difficile da digerire, ma che il Sergente pretende fin dalla più tenera età dei figli. Non si tratta solo di una questione di rispetto e gerarchie, tanto meno di impostazione. Ci sono le punizioni, sia per sgarri quotidiani che per problemi comportamentali rilevati fuori dalle mura domestiche. La vita di Shaquille O’Neal viene pesantemente influenzata dall’attitudine di Phillip Harrison, e in apparenza non troppo in positivo, se si raccolgono i racconti legati a infanzia e adolescenza.

    La nonna Odessa rappresenta il suo posto sicuro (ci torneremo più avanti, sul senso di questo virgolettato), il luogo dove ricevere consolazione e protezione. È lei – in connubio con le figlie Lucille e Vivian – a scacciare gli spacciatori di Newark dai dintorni di casa, a caccia del giovanissimo gigante, che dimostrava più dell’età effettiva.

    Con tutto quel che di complicato può comportare a livello di autostima, perché quando sei esageratamente grosso, rischi di diventare facile vittima di ironie altrui. Oltre al dover negar quel noioso luogo comune per cui più si guarda dall’alto gli altri e meno si è rapidi di comprendonio. Un qualcosa che la madre Lucille conosceva bene, essendo stata anche lei adolescente sovradimensionata in lunghezza.

    E poi, quando sei esageratamente grosso, un pensierino alla pallacanestro ce lo devi fare prima o poi. Per forza. Harrison, come già detto, non solo di basket ne sapeva,¹⁰ ma aveva abbastanza coscienza anche del possibile talento che il figliastro aveva ereditato geneticamente dal padre biologico. Solo che fra nonna, madre, zia e sorelline, il rischio di rammollirsi era reale, o quantomeno percepito.

    Per meglio comprendere i metodi poco ortodossi del Sergente, è interessante approfondire i primi approcci con cui inizia Shaquille al gioco, all’età di otto anni.

    Lui e il ragazzo, uno davanti all’altro, distanziati.

    L’ordine di restare fermo con le mani lungo i fianchi, mentre gli scaglia la palla contro a tutta forza.

    Il primo riflesso del giovane allievo, per evitare di lasciarci la faccia, è ovviamente quello di schivarla.

    Niente da fare, però, il Sergente si impone, ordina. Se dice che deve stare immobile, così deve andare, qualsiasi sia la conseguenza. E così si va avanti, a suon di pallonate dolorose.

    L’obiettivo? Inserire nella mente del figlio che, nella peggiore delle ipotesi, la palla può far male, ma non troppo. Anche quando ti sbatte in pieno volto. Per cui, regola numero uno per giocare a pallacanestro: non aver paura del pallone.

    Nello svolgimento della lezione, attraverso la sottomissione al dettame (e al dolore), si forgia anche l’attitudine del soldato (più che ragazzo). Anche perché, da una parte, il giovane Shaquille è di animo sensibile e caratteriale, imbarazzato da una balbuzie che spesso fa capolino nei momenti decisivi della sua crescita. Dall’altra, per farsi accettare, capisce di dover far valere il fisico, anche perché il Sergente stesso non perdona: son botte se non si riga dritto, ma anche se lo si fa troppo. Della serie, quando il giovane viene messo in punizione per eccesso di esuberanza a scuola, al ritorno a casa la mano è pesantissima. Anche oltre il concepibile. Allo stesso modo, le volte che prova a bullizzare i compagni cercando rispetto, deve attendersi un contrappasso simile tra le quattro mura private (anche se, occorre sottolinearlo, l’idea che sappia farsi valere genera un po’ di orgoglio nell’educatore).

    Un educatore manesco, risoluto, severo. Di quelli che vogliono il Signor, sì come risposta obbligata, e che raramente regalano soddisfazioni apparenti, anche quando i risultati li inorgogliscono. Nel forgiare il carattere del ragazzo, il suo obiettivo è quello di trasformarlo in un leader, calcolandone l’attitudine clownesca figlia del volersi far accettare.

    Deve trainare e non mettersi a disposizione del traino, con obiettivi ben determinati per sfruttare al meglio ciò che madre natura gli ha donato: quel fisico e quell’innata capacità di non lasciare indifferenti. E se per superficialità le cose non andavano come il Sergente sperava, se proprio non erano percosse si finiva reclusi in cameretta. Anche se le due cose erano spesso una la conseguenza dell’altra.

    Inutile specificare ulteriormente quanto alla base di tanta durezza ci fossero convinzioni acquisite da esperienze difficili. La prospettiva di forgiare i figli in un modo diverso rispetto a quel che era toccato al padre, cresciuto nelle case popolari, nella strada, tra mille difficoltà. Testimone di tanti colleghi finiti perduti, caduti in disgrazia, perché privi non solo di cultura o etica, ma soprattutto di coscienza del sé. Di obiettivi, e di senso del sacrificio per raggiungerli. «Puoi odiare i miei metodi adesso, ma amerai il risultato», era solito dire Harrison al figlio.

    Nonna Odessa, però, non poteva sopportare, anche sforzandosi nell’adottare una visione lungimirante, soffrendo per l’esuberanza repressa del nipote. Del resto, la famiglia di Shaquille non era ricca, e i primi anni di vita passano proprio in condivisione dell’abitazione con la madre di Lucille. Ma le frizioni evidenti con Harrison portano a un primo trasloco di una lunghissima serie futura: si resta a Newark, ma stavolta si trasferiscono armi e bagagli a casa del nonno paterno. In tutto questo, il Sergente continua ad allenare il già sovradimensionato figlio, che – contrariamente alle aspettative – non appare esattamente portato per il basket.

    Legge la biografia di Kareem Abdul-Jabbar e ne rimane folgorato, impara nelle ripetizioni casalinghe l’arte del tagliafuori, e i primi dettami di battaglia sotto i tabelloni. Ma poi, quando si trova nei campetti dell’oratorio, O’Neal appare inefficace e sgraziato. Vittima di una crescita tanto rapida da regalargli quei problemi di coordinazione tipici di chi vede il proprio corpo trasformarsi troppo e in fretta.

    Ma i tempi di Newark sono destinati a finire, perché Phillip Harrison lavorava per l’esercito, e non trovandosi in condizioni economiche agiate da potersi permettere appartamenti dignitosi in zone sicure, è ben disposto ai trasferimenti. Una serie di piccoli traumi che portano i figli a dover ripartire da zero spesso e volentieri, anche a livello relazionale. Ma che Shaq racconterà come tremendamente formativi sia per la sua futura capacità di adattamento, sia per la tendenza a ben sapersi relazionare con gli estranei.

    Il primo approdo è a Hinesville, in Georgia, nella base militare di Fort Stewart. Sì, perché quando una famiglia segue per lavoro uno stipendiato dell’esercito statunitense, vive comunque in piccole bolle dove continuano a vigere regole restrittive, come le basi sparse per tutto il suolo del Paese e oltre. Certo, sempre meglio della povertà di Newark, con la sua criminalità dilagante e i suoi pericoli.

    Il giovane Shaquille subisce l’essere considerato dai coetanei quello nuovo, e pure un bel po’ strano a causa di quella stazza che si porta dietro. Per farsi accettare a scuola ne combina di ogni, incluso rendersi temibile con i duri riconosciuti, menando le mani, con un’ottima dose di imitazione verso i trattamenti subiti a casa.

    Rischia però di segnare la sua vita – e non solo – in modo irreversibile, quando si accanisce contro un ragazzo fisicamente più piccolo di lui, che nel frattempo viene colto da una crisi epilettica, salvato per miracolo da un passante. L’evento viene vissuto in modo tragico, e la punizione corporale del Sergente è altrettanto indimenticabile, tanto da rappresentare una sorta di crocevia comportamentale.

    Il giovane Shaq promette a se stesso che non sarebbe successo più, e che avrebbe dosato al massimo i suoi istinti, visto che quel corpo di cui disponeva poteva essere un’arma devastante già allora. Figuriamoci in seguito.

    Dopo due anni di vita, e un bel po’ di routine acquisita, si cambia di nuovo sfondo. In fretta e furia, e stavolta fuori dagli States. Nel 1984 la famiglia Harrison varca l’oceano e si stanzia a Wilfdlecken, in Germania. Un cambio radicale, seppur sempre controllato dalla vita che scorre all’interno di una base militare. Ed è qui che le cose mutano, con un incontro che si rivelerà decisivo per il futuro di Shaquille, anche se lui, in quel momento, non può neanche immaginarlo.

    All’età di tredici anni supera il metro e ottanta di altezza, e sogna di calcare il campo come Magic Johnson, imitandone le movenze. Ma coordinazione e atletismo sono latitanti, tanto da non aver ancora preso la via della schiacciata, anche nella solitudine dei suoi allenamenti al campetto. Shaq, nonostante la stazza, proprio non arriva al ferro, e questo lo deprime tanto da dubitare delle proprie qualità. Che per la verità non appaiono poi così cristalline.

    Ma

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