Rafael Nadal: Una questione di talento
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Anteprima del libro
Rafael Nadal - Riccardo Crivelli
Riccardo Crivelli
Rafael Nadal
Una questione di talento
A papà, che è sempre con me.
A Sabina, per il supporto.
A Stefania Brigida,
faro di questa avventura.
Agli Angeli del Comitato Croce rossa
di San Donato Milanese.
Introduzione
Aguanta, Rafa. Sopporta, Rafa. Se Rafael Nadal Parera da Manacor, isola di Maiorca, possedesse un blasone come i nobili della Corona spagnola del Rinascimento, quello sarebbe indiscutibilmente il motto della casata. Lo impara presto, a quattro anni, quando inizia a tirare i primi colpi sotto lo sguardo attento e feroce di zio Toni, suo mentore e unico allenatore fino al 2016.
Un karma, una filosofia, la costruzione di un connubio inossidabile che diventa il più vincente di sempre, oscurando Borg e il suo pigmalione Bergelin. Aguanta, Rafa: non significa soltanto fatica, sudore, determinazione, ma dentro porta la convinzione inscalfibile che con il lavoro e l’applicazione nessun avversario ti è superiore.
A casa Nadal, in verità, lo sport d’elezione è il calcio, come scopriremo, e lui, almeno fino a dieci anni, non sa scegliere tra pallone e palline. Lo convince, manco a dirlo, il solito Toni, perché sa che il ragazzino può diventare qualcuno solo con la racchetta. Nel profondo intreccio emozionale del rapporto con un allenatore che è anche un suo intimo, risiede molta della grandezza di Rafa. Mentre intorno tutto cambia, lui resta agganciato alla roccia della famiglia, con l’asprezza che alla fine si fa tenerezza propria degli isolani. Nadal non sarebbe Nadal, l’uomo dei ventidue Slam e dell’impresa sovrumana di quattordici Roland Garros, se non avesse dentro il salmastro e la serena tranquillità della sua terra.
Con un quadro del genere, è impensabile che Rafa guardi oltre l’orizzonte maiorchino quando, a fine 2016, si tratta di ingaggiare l’allenatore che dopo vent’anni avrebbe preso il posto di zio Toni, l’uomo che ha creato la sua leggenda. La soluzione, infatti, era già in casa, nell’isola che non tradisce mai: Carlos Moyá, primo spagnolo numero uno mondiale della storia del tennis, nel 1999. Senza proclami, Carlos restituirà al tennis una vera e propria macchina da guerra, migliorando il rovescio e il servizio dell’allievo e convincendolo a essere più aggressivo, a scendere perfino a rete per accorciare gli scambi e rimanere meno tempo in campo, una necessità per un giocatore che sta ai vertici dal 2003.
In più, Nadal ha anche passato tanti guai fisici. Un rosario sgranato fin dal 2006: piede sinistro con la sindrome di Müller-Weiss, spalle, schiena, ginocchia con la sindrome di Hoffa – curabile ma inguaribile – i polsi più di una volta, i muscoli del petto. Per uscirne, si è sempre affidato alle confortevoli certezze di tutta una vita: la famiglia e quella frase che ripete fin da bambinetto. Aguanta, Rafa. Sopporta, Rafa. Solo così si diventa immortali. Partendo da una piccola isola nel cuore del Mediterraneo.
Tutto in famiglia
Bianchissime dune di sabbia, mare di un azzurro intenso che si mescola e si confonde con i colori dell’orizzonte. La spiaggia di Puerto Cristo, lontana dalle orde di turisti che la invaderanno di lì a poco – quando la Spagna e le Baleari, accolte nel seno della Comunità europea, diventeranno una delle mete più cool dei vacanzieri di tutto il mondo – a metà degli anni Ottanta è davvero un angolo di paradiso. Il gestore del piccolo chiosco che vende hot dog a un passo dalla battigia non conosce neppure il cambio peso-dollaro e tutte le volte che uno straniero lo paga in valuta deve chiamare un suo amico che lavora in banca. Lì, a tredici chilometri da Manacor, città di 40 mila abitanti celebre per le olive ma soprattutto per la produzione delle perle sintetiche, la famiglia Nadal possiede una casa di villeggiatura. Sebastian è un imprenditore nel ramo dei serramenti ed è pure proprietario di un ristorante di lusso sulla costa. Ana è casalinga. È tra la serenità di quelle mura che trascorre buona parte della gestazione del primogenito.
Il 3 giugno 1986, un martedì, nasce Rafael: fin da quel giorno, il vincolo di sangue con la famiglia e la terra delle radici rappresenterà un pegno indissolubile per Rafa, come cominciano a chiamarlo fin da subito. Perché chi nasce su un’isola, lì poi vuole sempre tornare, al caldo degli affetti e delle amicizie che il senso di appartenenza amplificato dal mare e dai suoi pericoli cementa e fortifica. Quello dei Nadal, stirpe di antiche origini catalane emigrata fin lì nella notte dei tempi, è senza dubbio un clan, per il legame stretto che unisce tutte le generazioni ancora in vita, ma non un circolo chiuso e opprimente. Si vive insieme, nutrendosi della saggezza e degli insegnamenti di chi è venuto prima, ma senza la pretesa di imporre il pensiero unico.
A Manacor, la famiglia occupa un elegante immobile di proprietà in centro, tra la piazza del mercato e un olivo centenario che fa ombra al sagrato della chiesa: al pianterreno c’è un bistrot dove spesso si ritrovano tutti quando occorre concedersi qualche momento di convivialità. Al primo piano vivono i nonni, e Rafa scende spesso da loro a seguire le partite di calcio in tv, una passione che lo accompagnerà per sempre e di cui tra poco scopriremo la genesi. Il nonno era direttore d’orchestra, ma il nipote non sembra aver ereditato da lui la benché minima dote artistica. Alla scuola Sant Vicenç de Paul, il ragazzo brilla infatti nello studio della storia e in educazione fisica, ma soprattutto gli insegnanti gli riconoscono un’applicazione feroce, una grande volontà di riuscire e la capacità di accettare gli errori per migliorarsi. Al secondo piano abitano invece lo zio Toni – maestro di tennis – con la moglie e i tre figli, mentre il terzo piano è il buen retiro di Sebastian, Ana e dei due figli: nel 1989, infatti, si è aggiunta Maria Isabel detta Maribel. Rafa è un ragazzo educato, a modo, mai sopra le righe, un comportamento che sarà la sua cifra caratteriale anche quando diventerà un uomo adulto e di successo. L’unica forma di ribellione che si concede è la mania, quasi ossessiva, per l’attività fisica e la preparazione atletica.
In realtà, pur se non condivide la stessa abitazione, esiste un altro membro della famiglia che esercita una grande influenza sul piccolo Rafa, anche perché ha già raggiunto la fama internazionale. È un altro dei fratelli di papà Sebastian, si chiama Miguel Ángel e ha fatto fortuna con il pallone. Quello da calcio. Nato come centrocampista, dopo un’ottima carriera nel Maiorca, nel 1991 si trasferisce al Barcellona. Lo chiamano il Dream Team e in panchina c’è Johann Cruyff, la leggenda olandese: è proprio lui a cambiargli ruolo, spostandolo al centro della difesa e ricavandone anni eccezionali. Nadal vincerà cinque campionati, una Coppa dei Campioni, due Supercoppe europee e sarà titolare fisso della Roja, la Nazionale spagnola, con cui disputerà tre edizioni dei Mondiali per un totale di sessantadue presenze (e due gol). Sarà in campo pure in due partite molto care ai tifosi italiani: la finale di Champions League ad Atene del 1994, quando il Milan di Capello, contro pronostico, rifila un altisonante 4-0 al Barcellona; e il quarto di finale della Coppa del Mondo dello stesso anno, con l’Italia di Baggio che all’ultimo minuto piega la Spagna e si guadagna un posto tra le prime quattro. Con un esempio così, è chiaro che il nipote si diletti innanzitutto con il football, ala sinistra oppure centravanti, con doti realizzative non indifferenti. Però, malgrado Miguel Ángel sia diventato una colonna dei Blaugrana, il cuore di Rafa tifoso di calcio si offrirà fin da subito ai grandi rivali del Real Madrid. Cioè la squadra di cui è accanito supporter l’altro zio, Toni, la vera pietra angolare della formazione (e della realizzazione) come atleta e uomo del piccolo di casa.
Discreto tennista approdato fino alla seconda categoria nazionale, successivamente è diventato maestro e gestisce pure i cinque campi del circolo di Manacor. Toni aveva poco talento come giocatore, e da coach non si interessa più di tanto alla tattica degli avversari o a illuminanti innovazioni tecniche: piuttosto, si concentra sull’etica del lavoro, l’importanza della preparazione, la concentrazione fuori e dentro dal campo, che non può essere perturbata da atteggiamenti negativi o, peggio, maleducati. Il suo ruolo è quello del maestro con l’allievo, del filosofo con l’apprendista, la sua funzione non è quella di scambiare colpi con il nipote in allenamento, cosa che infatti farà pochissime volte per tutto il lungo periodo della loro relazione agonistica, bensì quella di portare buon senso e fare da parafulmine al suo protetto. Ma soprattutto, è a lui che si deve la geniale intuizione che cambierà le sorti di Rafa e probabilmente del tennis mondiale.
Il nipote è destrimano, ma non appena lo zio gli mette in mano la racchetta, a quattro anni, si rende conto che da quella parte non ha la forza necessaria per imprimere la giusta velocità alla pallina: infatti gioca dritto e rovescio a due mani. Gli suggerisce allora di impugnare con la sinistra, ricevendone subito un feedback positivo. Nasce così, per un’illuminazione improvvisa, il più grande mancino della storia. Il bambino Rafa, dunque, si abitua presto a tenere gli occhi bassi alla ricerca di una palla: piccola e gialla come quella da tennis o grande e a rombi come quella da calcio. Il moretto con i capelli tagliati da paggetto parla poco e quando lo fa è velocissimo, tanto quanto corrono le sue dita sui tasti dei videogames: ma, fin da subito, sui campi da tennis batte coetanei e ragazzi più grandi anche di un paio d’anni, senza problemi. La sua frenesia si placa solo quando si ferma ad ascoltare zio Toni con il rispetto incondizionato che si deve a un mentore:
Gli raccontavo che ero stato calciatore anch’io, gli dicevo che avevo battuto tutti anche a tennis, e soprattutto gli facevo credere che avevo virtù superiori, che potevo forzare il destino. Erano trucchi per educarlo alla disciplina,
racconta il suo angelo custode. Perché Rafa è testardo e quando parte per la tangente non si ferma più, tanto alla fine vince lo stesso: «Allora andava anche spesso a rete». Solo che a sette anni incontra un tipo più forte e sta perdendo netto, 3-0, quando zio Toni gli dice: «Che combini? Ragiona, non farti battere dalle emozioni, altrimenti io che sono un mago fermo la partita con la pioggia». Ma in trance agonistica, come gli sarebbe accaduto sempre nei momenti decisivi di una partita, Rafa continua a modo suo e arriva a 3-2, quando la pioggia comincia davvero a cadere. Allora il ragazzino corre in tribuna, in lacrime: «Ti prego, zio, io voglio vincere. Giuro che gioco con calma, giuro che penso, ma fai riprendere il match». Così, imparando ad ascoltare sempre zio Toni, l’aspirante tennista Rafael Nadal impara a rispettare gli avversari («È la prima regola dello sport e della vita»), a non rompere mai racchette («C’è tanta gente che non può permettersene una, non è giusto distruggerla così, per un gesto di rabbia»), a essere umile («Siamo tutti uguali, non si è migliori solo perché si tira la palla di là di una rete, ci sono cose ben più importanti»), a non bruciare le tappe («Ha fatto tutta la trafila normale, senza tante wild card per giocare tornei superiori alle sue possibilità e senza lussi»).
Così, a otto anni è già più forte di quelli di dodici, ma soprattutto, a dieci anni, in una sfida in famiglia, batte proprio lo zio campione, Miguel Ángel, e a dodici, dovendo decidere fra il calcio – che preferisce – e il tennis, sceglie definitivamente la racchetta. Si è appena aggiudicato il campionato di categoria sia spagnolo sia europeo, e il padre gli impone una presa di posizione drastica tra il pallone e le palline, lasciandolo libero di decidere fra l’invito della Federtennis spagnola, che lo convoca al centro tecnico di Barcellona, o il richiamo ancentrale: rimanere ancorato alle radici della sua isola. Mentre zio Toni si schiera apertamente, come sempre: «Non posso credere che devi andare in America o altrove per diventare un buon atleta, quando puoi riuscirci a casa tua». Il ragazzo sceglie la soluzione Maiorca, con papà sponsor e la spinta indiretta del primo idolo tennistico, Carlos Moyá, guarda caso maiorchino pure lui, che il 15 marzo 1999 diventa il primo spagnolo a conquistare il numero uno del tennis mondiale. Il problema, su un’isola neppure troppo grande, è che gli avversari da battere finiscono in fretta e così la federazione ottiene perlomeno che Rafa lasci Manacor per allenarsi nella capitale, Palma. Lì, dopo una sconfitta, correrà piangente dal padre singhiozzando di non voler provare mai più una sensazione così brutta: il primo passo verso la costruzione di una corazza da indomabile guerriero. Intanto, seppur ancora grezzo tecnicamente ma con un’esuberanza atletica debordante e una volontà d’acciaio, comincia a far parlare di sé. Nel 2001, a Palma, organizzano un’esibizione tra Pat Cash, vincitore di Wimbledon nel 1987, e Boris Becker, l’ex ragazzo prodigio tedesco che ha vinto sei Slam in carriera: uno dei più grandi giocatori della storia, attivo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Solo che a un’ora dalla partita, Bum Bum dà buca per un’indisposizione e così, per salvare la giornata e l’incasso, non resta che chiamare quel ragazzino mancino di cui tutti dicono un gran bene. Racconterà l’australiano:
Avevo trentotto anni e colpivo ancora piuttosto forte. Nel primo set lo lascio fare, anche perché la gente si diverte. Vince lui. Nel secondo aumento l’intensità, scendo di più a rete, gli lascio solo due game. Di fronte a una lezione del genere, qualunque adolescente si sarebbe sgonfiato. Lui invece ci ha messo ancora più grinta, ha lottato su ogni palla come fosse l’ultima della sua vita. E mi ha battuto. Quel giorno ho capito che avevo avuto davanti un mostro.
Gli inizi
Il 2001 è pure l’anno in cui disputa i primi due Challenger della carriera, i tornei che stanno appena sotto il circuito maggiore, e quindi, sedicenne, raggiunge le semifinali di Wimbledon juniores al primo torneo under 18 al quale partecipa. La programmazione studiata da zio Toni, però, non concede troppi margini agli appuntamenti giovanili, che ti fanno vincere tanto ma non ti consentono di migliorare, perché se hai un paio di colpi forti – di solito – ti bastano per domare gran parte degli avversari: e così il pupillo mastica da subito il pane duro dei tornei del sottobosco, dove ogni partita si trasforma in una battaglia all’ultimo sangue. Una scelta che comunque non gli impedisce di conquistare, nel 2002, la Coppa Davis juniores senza perdere neppure un match tra girone, semifinali e finale. Nei professionisti, comunque, comincia presto a farsi un nome. Il 29 aprile 2002, a quindici anni e dieci mesi, da 762 del mondo, nella sua Maiorca, vince il primo match Atp contro il paraguaiano Ramón Delgado, che ricorderà così quel giorno:
Tanti mi dissero che essere battuto da un adolescente non doveva essere stato piacevole, ma in quel ragazzino mancino che picchiava forte c’era la scintilla del genio. Mi ricordo la sua intensità nel gioco fin dall’inizio del match, mi aveva colpito come fosse sempre molto all’attacco e propositivo, e quanto continuasse a darsi la carica. Si capiva che in lui c’era qualcosa di speciale, ma non avrei immaginato che avrebbe fatto la storia vincendo quattordici volte il Roland Garros. Mi è capitato di incontrarlo qualche volta e scherzare con lui sul fatto che, grazie alla fiducia che gli ha dato vincere con me, poi è diventato una leggenda, e quindi sarebbe carino condividere parte dei guadagni…
L’anno dopo, a Montecarlo, al secondo turno supera il campione uscente del Roland Garros, il connazionale Albert Costa, che è numero sette del mondo, e firma inoltre due tornei Challenger: uno è quello di Barletta, con la vittoria in finale contro il connazionale Portas. Il pubblico pugliese va in visibilio per quel ragazzino timido fuori dal campo ma tenacissimo e battagliero in partita, e finisce per adottarlo con il soprannome di Lello. È l’inizio di un idillio con i tifosi italiani che lo accompagnerà per tutta la carriera e si sublimerà nella passione con cui verrà accolto ogni volta che si presenta agli Internazionali di Roma, che diventano presto uno dei suoi luoghi del cuore.
Ci sarebbe molta attesa per vederlo finalmente al Roland Garros, che l’anno prima ha saltato per completare gli esami scolastici, ma Rafa non si iscrive per un infortunio a un gomito causato da una delle poche sciocchezze commesse in carriera, aver saltato la rete ed essere inciampato dopo un allenamento. In compenso gioca a Wimbledon e arriva al terzo turno, il più giovane dopo Boris Becker dal 1984, finendo così l’anno fra i primi 50 della classifica. Che sia sul punto di trasformarsi nel teenager più forte, temuto e vincente del circuito, sulla scia dei grandi predecessori Borg, appunto Bum Bum Becker e Agassi, ormai è un pronostico scontato. E infatti, nel gennaio del 2004, sul cemento di Auckland, in Nuova Zelanda – uno dei tradizionali tornei di preparazione agli Australian Open – raggiunge la prima finale in carriera, ma la perde contro lo slovacco Hrbaty. A Melbourne, nel primo Slam stagionale, esce al terzo turno contro Hewitt, ma all’inizio di febbraio gli tocca l’onore del debutto in Coppa Davis, a Brno contro la Repubblica Ceca. La prima partita gli regala l’amarezza di un brutto ko contro Jiri Novak, ma l’occasione del riscatto gli viene subito messa a disposizione nella terza giornata. La sua Spagna, sotto 2-1 dopo il doppio, ha rischiato l’eliminazione, ma Feliciano López è riuscito a superare il giovane Berdych, rimettendo in parità le sorti della sfida. Per il match decisivo, il capitano della Roja si affida ancora al diciassettenne maiorchino, ricevendone in cambio una partita perfetta contro Stepanek, che si arrende in tre set.
Dopo la qualificazione con la nazionale, Rafa si presenta per la prima volta al torneo di Milano ma viene battuto al secondo turno da Ancic, fino a quel fatidico 28 marzo che si rivelerà una delle date fondamentali nella sua vita e nella sua carriera. Quel giorno, infatti, al secondo turno del Masters 1000 di Miami (in realtà si gioca ancora a Key Biscayne), si trova di fronte per la prima volta Roger Federer. Lo svizzero non è ancora asceso agli onori del cielo tennistico per meritarsi l’appellativo di Divino – che gli verrà attribuito un paio d’anni più tardi – però ha già vinto Wimbledon e gli Australian Open e da sei settimane è il nuovo numero uno del mondo. Insomma, ha iniziato la sua formidabile parabola di gloria ed è già nel cuore di milioni di appassionati. Soprattutto, per il suo stile leggiadro, il suo gioco che richiama la nobiltà dei gesti bianchi e l’esemplare eleganza, anche caratteriale, in campo, incute enorme soggezione tecnica e carismatica agli avversari. In particolare a quelli più giovani. Ma Rafa è di un’altra pasta e la cronaca romanzata di quel primo duello racconta che negli spogliatoi non abbasserà mai lo sguardo, non si lascerà soggiogare dal magnetismo dello straordinario rivale, portando poi in campo l’intrepida spavalderia della sua età.
La partita, incredibilmente, non avrà storia: lo spagnolo si impone con un doppio 6-3 in appena sessantanove minuti e l’inatteso trionfo lo mette definitivamente al centro del villaggio. Il mondo così inizia a scoprire quel ragazzino terribile, che in conferenza stampa non spiccica una parola d’inglese (e si scusa umilmente per la mancanza) ma è formidabile nel far parlare la racchetta con quella sua debordante strapotenza fisica, capace di impressionare anche il campionissimo sconfitto, pronto ad assicurargli complimenti sinceri e preveggenti: «Ha dettato i ritmi del match, ha realizzato alcuni punti straordinari, la sua tenuta fisica è eccezionale. Se continuerà su questi livelli avrà una carriera impressionante». E anche se Rafa perderà il match successivo contro Mano de Piedra Fernandez, l’attesa di vederlo evoluire sulla sua superficie d’elezione, la terra, movimenta la primavera. E invece all’Estoril, alla metà di aprile, prima del terzo turno contro il georgiano Labadze, è costretto a ritirarsi per una frattura da stress al piede sinistro, il primo di una litania infinita di infortuni che ne ammaccherà la carriera, senza però piegarlo mai:
In quel momento è stata una delusione fortissima, ma ripensandoci a posteriori forse non è stato un male, perché la fragilità del mio corpo rese la mia mente più forte. Ho seguito il Roland Garros dalla tv, a casa mia, a Maiorca. In quei momenti ho imparato molto sia sull’importanza dell’allenamento e del riscaldamento prima del match, sia su me stesso, sulla capacità che ho di soffrire e la voglia di arrivare. L’infortunio è sempre dietro l’angolo, soprattutto con il gioco moderno, in cui sei al limite, ma bisogna giocare per trovare la forma e poi per tenerla.
Rientrerà a luglio, saltando anche Wimbledon, e ad agosto, con una scelta all’apparenza poco costruttiva, lascia l’America dopo due eliminazioni al primo turno nei Masters 1000 di Toronto e Cincinnati e torna in Europa, anziché impratichirsi sull’insidioso cemento dell’estate yankee. Ma ha ragione lui perché sulla terra di Sopot, in Polonia – la città famosa per avere il più lungo molo di legno al mondo – conquista il suo primo torneo Atp, da numero settantuno del ranking, battendo l’argentino Acasuso. È vero, nel suo percorso incontra solo un giocatore tra i primi cento, il romeno Hanescu e