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L'anima del karate
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E-book314 pagine4 ore

L'anima del karate

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Info su questo ebook

Nella splendida Marrakech, due giovani si rincontrano apparentemente in modo casuale. Compagni di giochi in tenera età, si ritrovano a soggiornare in un piccolo albergo della Medina, la parte vecchia della città e, spinti dalla passione, la simpatia di un tempo, si trasforma in breve in un’amorevole relazione.

Joele mentendo, racconta di essere un agente di commercio in visita ad alcuni clienti, ma in realtà fa parte di una particolare equipe dei servizi segreti Italiani che, in collaborazione con le polizie segrete di altri governi, si occupa di sgominare le grosse organizzazioni criminali internazionali.

Lei invece è una meravigliosa ragazza dai tratti nordici, una bellezza semplice, ben celata dall'immancabile tuta ginnica che si alterna spesso al suo kimono da combattimento. Dedita alle arti marziali più disparate, girovaga per i Dojo di tutto il mondo, cercando di assimilare tecniche e segreti dei grandi Maestri.

Ma quel fatidico incontro cambierà radicalmente la loro vita.

Il carattere solare ed estroverso di Sveva, le permetterà di penetrare quella corazza che Joele aveva innalzato a protezione della sua vita privata, sebbene quasi inesistente, consacrata totalmente alla sua squadra e alle sue missioni. L’atletica ragazza demolirà in breve tempo le certezze di Joele, il suo genio razionale utilissimo nel suo lavoro, esponendo entrambi a pericoli che fino allora, lui era riuscito a sfuggire.

Due caratteri tanto diversi, legati dall'arte della lotta e del combattimento; due rovesci della stessa medaglia possono entrare in conflitto? Sveva mette le sue capacità al servizio dello sport, mentre Joele del suo Paese. Segreti e passioni dovranno convivere nel loro rapporto, in quella famiglia che entrambi mai avrebbero pensato di realizzare, e che alla fine, diventerà fonte indelebile di coesione.

Sveva sarà molto impegnata con i suoi allenamenti e le sue competizioni da vincere, in diversi stili di lotta, mentre Joele,sarà vincolato al massimo riserbo, a causa delle sue missioni segrete, sulle tracce di malviventi di spicco; e sarà proprio uno di questi a complicare l’inizio della loro vita di coppia: Jacopo, un killer professionista al soldo di losche organizzazioni mondiali, entrerà e uscirà dalla loro vita, in una cornice di trame segrete. Un personaggio con un oscuro passato, che farà vacillare inizialmente il loro legame, ma che rinuncerà poi all'incarico assegnatogli, quello dell’assassinio di Joele, aiutandolo addirittura alla risoluzione di un’intrigata vicenda.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2016
ISBN9786050424010
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    L'anima del karate - Davide Cerrato

    Sveva

    Capitolo uno

    Era ormai notte quando finalmente Joele si preparava a uscire da quel fosso scavato frettolosamente per scampare alla cattura. Coperto di sterco e terra con indosso solo una particolare mimetica, stava per vedere finalmente la luce della luna. La sua cerbottana a doppia canna, spietata con i suoi dardi velenosi contro i nemici, oltre ad aver centrato il suo obiettivo, aveva avuto un ruolo fondamentale per la sua salvezza. Essa fuoriusciva dalla terra lo stretto necessario per permettergli di respirare. I battiti del cuore rallentati a non più di venti battiti il minuto; una mascherina gli copriva gli occhi, mentre una mantellina lo aveva aiutato a formare una piccola sacca, tale da permettergli un minimo di movimento. Aveva passato diverse ore coperto sotto molti centimetri di terra e melma. I cani, ingannati dagli odori emessi dai prodotti di cui si era cosparso, non erano riusciti a stanarlo. Ormai la caccia era terminata e anche questa volta aveva portato a termine il suo compito. Preciso e infallibile aveva meticolosamente scandagliato ogni possibile imprevisto.

    La tuta che aveva indosso color pelle, perfettamente aderente, lo rendeva in concreto invisibile a una prima occhiata in un territorio monocromatico come quello del deserto, e un cappuccio lasciava in vista solo i suoi occhi azzurri. La radio trasmittente invece era completamente invisibile impiantata sotto pelle in una nicchia ricavata tra la mandibola e l’orecchio, funzionava in sostanza ovunque, mentre il microfono alloggiava sotto una capsula dentale. La squadra disponeva di una rete di satelliti militari che gli permetteva di non perdere mai il segnale anche per molti metri sotto terra. Solo cambiare frequenza era un po’ complicato. Occorreva utilizzare un sistema basato su l’alfabeto morse. Si apriva il sistema operativo con tre battiti veloci della capsula, così da entrare nel sotto menù. Il sistema era molto utile anche per trasmettere nel caso ci si fosse trovati nell'impossibilità di parlare o muoversi, giacché in questo modo, si poteva dialogare con la sua squadra, e nello stesso tempo loro potevano udire quanto avveniva intorno a lui. La micro camera in dotazione invece non era stata di molta utilità in questa missione.

    Aveva le ossa a pezzi o più precisamente le sue fibre muscolari. Erano rimaste quasi un giorno immobili. Tramite una piccola cannuccia era riuscito a idratarsi. Un mini impianto studiato e forgiato personalmente, fatto con un materiale poliuretanico rivestito di kevlar plasmato perfettamente sulla forma della sua schiena. Questo era rivestito di una folta peluria sintetica che moltiplicava le deboli forze elettromagnetiche di Van deer Waals, creando un’interazione molto forte con il suo corpo divenendo un tutt'uno con esso. La struttura, con recipiente annesso, era completamente sigillata, e un gas inerte al suo interno, manteneva inalterate le proprietà organolettiche della soluzione zuccherina che conteneva che altrimenti si sarebbe alterata.

    Si trattava di un cocktail specifico per la missione, ottenuto mediante la sintesi di uno zucchero complesso contenuto in una particolare foglia di una piccola piantina che cresce in natura solo in determinati posti del globo. Aveva appreso questa tecnica dagli abitanti di un villaggio in Bolivia che gli avevano dato riparo durante una delle sue missioni all'estero.

    Queste, dopo l'essiccamento, si polverizzavano e quindi erano disciolte in acido lattico, un acido organico debole a bassa acidità non completamente dissociato che, in questo caso, riesce a legarsi con forti legami ionici al principio attivo. Con un semplice distillatore a colonna di facile fabbricazione anche artigianale, dopo aver lasciato il composto fermentare ventiquattro ore, si estrae un liquido paglierino dolciastro ricco di elementi nutritivi essenziali per reidratare il corpo umano. Questa tecnica era già conosciuta nel 2000 a.c. in Cina. Anche allora mediante la distillazione di piante si ottenevano essenze molto pure per la loro differenza di volatilità. Queste erano poi utilizzate per le preparazioni di unguenti e pozioni destinate ai più facoltosi.

    La soluzione inoltre rilassava i muscoli evitando quegli spasmi che altrimenti sarebbero subentrati a un periodo di ferma così lungo sotto terra. L’unico accorgimento era quindi evitare l’innesco di fenomeni di ossido-riduzione che la presenza dell’ossigeno avrebbe alimentato. Ecco quindi inevitabile l’aggiunta del gas inerte privo di ossidanti.

    -Sveva, mi ricevi?, continuava a borbottare dalla sua tana sotto la sabbia. Aveva più volte utilizzato la radio dopo aver cambiato banda ma senza ottenere risposta.

    -Che cosa poteva esserle successo?. Quel pomeriggio prima di uscire le aveva chiesto di aspettarlo nella camera dell’hotel dove alloggiavano, trovando la flebile scusa di non essere tranquillo sapendola gironzolare per la città da sola; ma era solo un pretesto per tenerla più tempo possibile in albergo, nel centro di Marrakech, subito fuori le porte della Medina, la città vecchia.

    Non voleva che si trovasse in giro quando militari e mercenari vari, avessero cominciato a correre per le strade armati fino ai denti o bloccata a qualche posto di blocco per controlli. Perché questo era inevitabile succedesse alla conclusione della sua missione. Purtroppo non poteva rivelare il vero motivo del suo allontanamento dall’albergo. Avrebbe dovuto fermarsi ancora un giorno, ma l’anticipo del rientro del suo obiettivo aveva stravolto i suoi programmi. Le accennò solo che avrebbe dovuto incontrare clienti della sua agenzia per firmare dei contratti pubblicitari.

    Sapeva benissimo però che Sveva avrebbe avuto dei problemi a lasciare il Paese in breve tempo, ma non poteva fare nulla per evitarlo senza scoprirsi. Ecco quindi che le aveva lasciato una radio con frequenza criptata con cui comunicare, alludendo al fatto di aver perduto il suo cellulare (che sarebbe stato facilmente rintracciabile).

    -Nel caso non riuscissi a rientrare a causa dei vari spostamenti che dovrò fare, gli disse, ti lascio questo semplice walkie-talkie per comunicare con te, nascondendole quanto invece fosse sofisticata quella radio. Joele sapeva benissimo che non avrebbe fatto rientro in albergo ma voleva assicurarsi dell’incolumità di Sveva nei giorni successivi alla sua missione.

    -Non ti preoccupare, gli rispose Sveva, vedrai che farai in tempo perché io sarò qui ad aspettarti.

    Purtroppo Joele non poté contraddire nulla e s’incupì un poco sapendo di averle raccontato una bugia.

    Doveva essere un lavoro pulito e l’unico momento in cui il suo bersaglio si sarebbe trovato senza scorta, circondato dal nulla per diversi chilometri, era in un preciso lasso di tempo e luogo in mezzo al deserto. La sua preda era solita tradire il marito, un alto funzionario statale, e per farlo non voleva occhi indiscreti intorno.

    La signora Elsa Maraddini aveva origini Italiane e aveva sposato l’alto funzionario marocchino a solo diciotto anni. Lo aveva conosciuto durante una visita non ufficiale alla città di Roma, e se ne era innamorata, nonostante la differenza di età. Fu così che divenne la sua compagna per la vita e cominciò a seguirlo in giro per il mondo nelle sue visite diplomatiche e naturalmente quelle di piacere. L’uomo era figlio di uno sceicco molto ricco e influente nella vita politica araba, il denaro non gli mancava di sicuro, ma quando la passione matrimoniale della signora Elsa finì e la noia prese il sopravvento, le sue attenzioni lentamente presero direzioni diverse.

    La signora aveva ideato un piccolo escamotage per avere mano libera: durante i suoi spostamenti, spesso si trovava ad attraversare una striscia di landa desolata. Da due guardie fidate mandate in avanscoperta, faceva innalzare una tenda nomade utilizzate anche dai beduini durante i loro spostamenti, e poi dispiegava tutti i suoi uomini di scorta intorno in un raggio di cinque chilometri. In questo modo si sentiva protetta e nello stesso tempo lontano da occhi e orecchie indiscrete; ma la faccenda in qualche modo trapelò e Joele, mandato sul posto, aveva cominciato a raccogliere informazioni per la squadra e preparare l’imboscata. Naturalmente non erano questi i motivi del loro interessamento alla signora, ma i rapporti della donna con alcuni personaggi malavitosi di spicco internazionale. Il marito era un buon politico, ma alcuni suoi colleghi di partito, avevano saputo dei traffici malavitosi della moglie, e non volevano essere coinvolti in vicende poco chiare che avrebbero potuto trascinarli in uno scandalo politico di vaste proporzioni. Per questo motivo era stata informata l'Intelligence di alcuni governi alleati per cercare di risolvere la questione in tempi rapidi, e vista la nazionalità della signora, si decise anche quale squadra si sarebbe dovuta occupare del problema.

    La signora era protetta da immunità diplomatica, e quindi politicamente non si poteva intervenire senza fare emergere l’intera vicenda; troppe persone ne avrebbero pagato le conseguenze, e quindi occorreva attivare dei canali poco ortodossi. Spesso molti governi collaborano tra di loro quando occorre risolvere questioni di una certa importanza a livello internazionale, e alcuni organismi segreti sono impiegati a tale scopo; il famoso detto il fine giustifica i mezzi del grande filosofo e letterato Niccolò Machiavelli, era quanto mai tenuto in considerazione dai servizi segreti di mezzo mondo.

    In questo caso il problema erano le vie di fuga, in pratica inesistenti. Non si poteva fuggire senza essere visti dal servizio di scorta, e non c’erano luoghi, dove nascondersi.

    Solo il sottosuolo poteva dargli riparo fino a quando le acque non si fossero calmate. Si sarebbe allontanato da quel luogo in un secondo tempo; gli agenti a protezione della donna, avrebbero presto verificato l’assenza di vite umane li attorno, per diversi chilometri, spostando altrove la zona di ricerca.

    Il suo orologio diceva che all'esterno era ancora giorno e il movimento sopra di lui era sicuramente intenso. I suoi inseguitori sapevano perfettamente che era impossibile uscire da quella cerchia di agenti senza essere visti e, malgrado ciò, non capivano come potevano aver fatto gli assassini a defilarsi a tempo di record.

    Dopo un giorno di ricerche concentrarono le loro attenzioni altrove, avevano perlustrato quella zona a palmo a palmo ma niente, gli assassini si erano volatilizzati.

    Non immaginavano che l’autore di un’impresa simile fosse stato un solo uomo ben addestrato.

    Continuava a chiamare la sua amica su una frequenza criptata ma niente non rispondeva. Era preoccupato Joele, e la sua mente era un vortice di pensieri. Sveva era diventata la variante inconsapevole in quella missione. Erano amici da qualche tempo e incontrarla in quella città era stata una pura fatalità e un errore quasi inconsapevole coinvolgerla, anche se marginalmente, nella missione. Pensava che comunque lei non avrebbe corso rischi, giacché lui si trovava lontano dalla città, e lei fosse all'oscuro della faccenda.

    In realtà, con il passare dei giorni, Sveva era diventata molto di più. Un carattere estroverso il suo, ma molto attenta alle incongruenze e dura con le prevaricazioni dei più forti sui deboli; dopo anni di combattimenti nelle palestre, per lei il suo avversario era sempre degno di una qualche forma di rispetto. Era terribilmente abile nella lotta corpo a corpo; un’arte appresa non durante una carriera militare come quella di Joele, ma nelle strade, nei Dojo.

    I maestri più forti di arti marziali del mondo l’avevano forgiata duramente. La loro preparazione tecnica era ampia, e diverse erano le loro tecniche e stili di combattimento. La loro arte non la insegnavano a chiunque, e non era un problema di soldi. Solo i loro allievi migliori completavano l’addestramento nella loro scuola. Questi dovevano possedere alcune doti essenziali, predisposti nel corpo e nella mente, non bastava essere forti e tecnicamente aperti all'apprendimento.

    Il rispetto per l’avversario era uno di queste, l’umiltà era invece una dote che Sveva possedeva già, difficile da insegnare; bisogna averla nell'anima e proprio questa l’aveva aiutata a convivere con tutti quegli atleti maschi che hanno una scarsa considerazione della donna, della donna atleta non relegata all’interno di una famiglia ma orientata verso la competizione sportiva. Il coraggio, l’altra sua dote, la spingeva a superare quei limiti che la mente innalza a tua difesa. Aveva imparato a non farsi condizionare dall'aspetto fisico di chi si trovava davanti, ma cercava di assorbirne l’aspetto psicologico, quello che tendenzialmente cerchi di nascondere al tuo avversario: le debolezze e paure che trasudano da quei gesti incondizionati che il corpo inavvertitamente trasmette. Un mawashigeri ad esempio accompagnato sempre dallo sbattimento di una palpebra, o il collo che ruota in una certa direzione prima di lanciare un maigheri. Tutti segnali che lei prontamente coglieva dopo un breve studio dell’avversario. Il più delle volte conosci già il tuo avversario, perché l’hai conosciuto durante un corso, oppure hai frequentato lo stesso stage, o semplicemente perché l’hai visto combattere con altri, insomma raramente incontri un perfetto sconosciuto sul ring o nella gabbia o sul tatami; è normale informarsi su di lui, quando è possibile. I campioni non nascono dall’oggi al domani e questo ti permette di documentarti.

    A volte una posizione posturale strana per quel tipo di combattimento che la induceva a pensare che l’avversario dovesse proteggere una parte del corpo sofferente. Era vera e propria psicologia, non acquisita sui banchi di scuola ma in strada, quelle strade del mondo che erano diventate la sua casa. La sua smania di imparare i segreti delle arti marziali l’aveva portata a girare l’intero globo.

    Zaino in spalle e con pochi spiccioli in tasca, Sveva aveva raggiunto ogni luogo, famoso o sperduto che fosse, dove c’era da apprendere qualcosa di utile a migliorarsi. Il suo stile era diventato un insieme di coreografie da utilizzare in base all’avversario che si trovava davanti. Chi la conosceva la chiamava la danzatrice.

    Era stata una settimana intensa per lei in compagnia di Joele, perdendo quasi di vista il motivo per cui si trovasse in quel luogo. Avevano visitato molti posti meravigliosi come due normalissimi turisti : la Medina, la città vecchia, il quartiere dei suq, con i suoi mercatini colmi di ogni genere di mercanzia, dai tappeti berberi alle spezie, la Qasba nella zona ad est, la moschea della Kutubiyya con il suo minareto e la moschea di Ben Youssef. Avevano cenato in luoghi incantevoli o semplicemente in chioschetti caratteristici, visitato musei e giardini splendidi ma soprattutto chiacchierato fino allo sfinimento. A Sveva piaceva parlare, a volte era un fiume in piena. Una mentalità aperta e socievole senza segreti apparenti e quindi libera di discorrere su qualsiasi cosa le passasse per la testa.

    Tutto quel tempo accovacciato lì sotto gli riempiva la testa di pensieri; la sua vita, i colleghi, gli amici ma il pensiero di Sveva entrata nella sua vita in modo così occasionale gli dava da pensare. Si erano frequentati da ragazzini e poi si erano persi di vista sino a quando durante i sopralluoghi per la sua missione dentro e fuori la città di Marrakech si erano rincontrati: alloggiavano nello stesso albergo. Si riconobbero subito e cominciarono a frequentarsi rinvangando i vecchi tempi e tutte le marachelle combinate insieme. Joele, molto timido, si trovò stranamente a suo agio con lei. Era come se la frequentasse da sempre. Passarono molto tempo insieme, tranne quando si separavano alcune ore per gli impegni dei due. Joele s’intratteneva altrove per visionare luoghi e tempistiche di alcuni personaggi oscuri mentre Sveva si allenava in una scuola di arti marziali.

    Già perché di amica si trattava, non di un operativo o agente sotto copertura ma di una semplice amica. Non ne aveva molti di amici e a parte quelli della sua squadra, non frequentava molto la vita mondana. Ma perché continuava a pensare a Sveva? Non gli era mai capitato di essere coinvolto emotivamente. Si rese conto solo adesso di quanto si sentisse isolato in questo momento e peggio, di quanto lo era stato in tutta la sua vita. Nessuno con cui confidarsi, mai. Se ne rese conto perché faceva molta fatica a rimanere concentrato nella sua tecnica di respirazione lentissima. Il suo autocontrollo fu messo a dura prova.

    Sveva invece il mattino seguente la partenza di Joele, non vedendolo tornare, fece un’abbondante colazione e preparò la borsa per l’allenamento: il kimono, le protezioni per le gambe, i guantini per le mani e il paradenti. Indossò la tuta in raso rossa con un dragone alato sulla schiena che utilizzava spesso quando si recava ad allenarsi e uscì, non prima di aver scritto un biglietto a Joele nel caso fosse rientrato prima di lei. Quella mattina si sarebbe allenata in un luogo un po’ fuori mano, a circa due ore di viaggio in direzione della città fortificata di Ait Benhaddou.

    L’organizzatore dell’evento aveva messo a disposizione un pulmino che partiva dal lato est di piazza Djemaa el Fna, una zona fulcro della vita marocchina e, dopo un breve giro per la città a raccogliere vari atleti, portava tutti a destinazione.

    Sveva si era completamente dimenticata della radio che era rimasta in un cassetto in camera. Dormendo con i tappi nelle orecchie, per non essere disturbata da quel continuo vocio che si levava dai mercatini nelle viuzze intorno all’albergo, non aveva sentito neanche i richiami di Joele.

    Si era dimenticata di informarlo dei suoi programmi per il giorno seguente, che prevedevano uno stage importante di alto livello che l’avrebbe tenuta fuori l’intera giornata.

    -Ma sì, poco importa, si disse, tanto lo vedrò sicuramente questa sera.

    Il piccolo pullman, dopo aver fatto quattro fermate all’interno della città a raccogliere diversi atleti, si ritrovò completo dei ventiquattro posti a sedere che disponeva quando, fatta l’ultima fermata, uscì dal traffico cittadino in direzione della meta. Il gruppo formatosi era prevalentemente maschile: oltre a lei c’erano solamente altre due ragazze che comunque viaggiavano in compagnia dei loro fidanzati, anche loro atleti. Molti di loro si conoscevano già, e l’ambiente fu da subito allegro e cordiale. Si andava la a imparare, per fare scuola e, non dovendo disputare alcun incontro ufficiale, non vi era quel clima teso caratteristico del pre-gara. Inutile dire che i discorsi prevalenti che si udivano erano orientati nel campo vasto delle arti marziali: attacchi, parate, prese, regolamenti federali, combattimenti a terra e le varie gare disputate e in programma. Il tempo, ridendo e scherzando, trascorse abbastanza velocemente, non facendo pesare le difficoltà incontrate lungo una strada alquanto dissestata.

    Come da copione, dopo circa due ore di viaggio, arrivarono in prossimità della destinazione. Si capì perché a un certo punto, dopo essere passati a pochi metri da un villaggio berbero, l’autista del mezzo prese un piccolo sentiero, quasi indistinguibile all’inizio, ma sempre più marcato con il trascorrere dei minuti in quanto comparvero, sempre più numerose, grosse pietre ai suoi bordi e buche sparse qui e la che fecero rallentare notevolmente la marcia. La strada inoltre cominciò a salire attraversando alcune alture composte in prevalenza da rocce, sino a quando, si ritrovarono in un’estesa vallata, fiorente di vegetazione e, al fondo di questa, su una piccola altura ai piedi delle montagne, il Dojo Seddick.

    Un coro da stadio si levò all'unisono, esaltati da quella costruzione antica che assomigliava più a una sinagoga orientale che a una costruzione in stile marocchino e nulla a che vedere comunque con le normali palestre occidentali, a volte ricavate in garage e cantine di palazzi di periferie cittadine.

    All’arrivo tutti notarono che un altro pullman, proveniente da chissà dove, aveva appena scaricato un’altra trentina di ragazzi che, con i loro borsoni in spalla, sostavano lì innanzi, guardandosi anch’essi intorno stupiti del panorama che la natura offriva. Sembrava di essere in un mondo alquanto distante da quello che abitualmente siamo abituati a vedere nelle normali metropoli cittadine. Era come se in quella landa il tempo si fosse fermato e ovunque l’occhio si posasse, oltre agli atleti, non si scorgeva altra traccia di civiltà umana. Era come se un Dio avesse depositato dall’alto quell’arcaica costruzione e fosse scomparso senza lasciare la minima traccia del suo passaggio. Si poteva presagire che al di fuori di quella ristretta cerchia umana che interagiva cosi animatamente, non si sarebbe udito nessun altro rumore, se non quello offerto da madre terra. Un grosso portone di legno a due battenti delimitava l’ingresso, oltrepassato il quale un enorme piazzale era sovrastato da massicce mura in arenale dallo stile andaluso, non particolarmente visibili dall’esterno nella loro maestosità, e che si perdevano in lontananza formando un semicerchio che andava a scomparire dietro la costruzione a tre piani. Questa assumeva una forma ridotta negli spazi a mano a mano che le pareti s’innalzavano verso l’alto, come se queste fossero, in un certo senso, inclinate verso il centro. Senz’altro una prospettiva falsata dal contesto architettonico in cui questa si trovava. Vi era persino un campanile sul lato est, con una sola grossa campana che, proprio in quel momento, cominciò a muoversi emettendo un lento gong, cupo e non ritmato nella cadenza, sicuramente un richiamo a entrare.

    All’interno un’illuminazione quasi irreale; grandi finestroni con vetri di vari colori filtravano la luce che entrava, irradiando, nell'area del complesso, una luce falsata. A questa si aggiungeva quella emessa da centinaia di lampade a olio appese ovunque, sicuramente necessarie giacché lì la corrente elettrica non sembrava mai essere arrivata.

    Al centro dell’ampio locale, un enorme tatami faceva bella mostra di se, ma a differenza dei tappetini morbidi usuali a incastro, rossi al centro a delimitare l’area di combattimento e blu tutto attorno che solitamente si usano nelle palestre,

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