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Nikola Jokic: The Joker
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E-book179 pagine2 ore

Nikola Jokic: The Joker

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Info su questo ebook

In pochissimi davano peso alle ambizioni di quel ragazzino di Sombor, in Serbia, robusto quanto i fratelli ma appesantito da tanti chili in più, con atletismo ben sotto la media e con quell'aria svagata, che quasi sembrava disinteressata a ciò che facesse con la palla a spicchi. Addirittura nessuno gli rispose, in quella richiesta fatta su Facebook, a proposito della ricerca di compagni con cui andare a giocare al campetto. La casuale lettura sul giornale delle cifre che registrava nei campionati giovanili locali da parte di Miško Ražnatović, il miglior agente d'Europa, rappresentò la svolta: da quel momento, una rapida scalata verso traguardi mai immaginati. L'approdo nella Nba a Denver, la progressione da giocatore ai margini a uomo franchigia, per diventare una star della lega con la conquista di due premi consecutivi di Mvp e la vittoria dell'anello da dominatore dell'ultima stagione: quello di Nikola Jokic é un percorso incredibile. Da antidivo è riuscito a prendersi un posto fra i migliori cestisti di ogni epoca, andando a riscrivere record assoluti che sembravano intoccabili senza snaturarsi: con l'atletismo a restare sotto la media, l'aria a rimanere svagata ma tante magie realizzate sui parquet, imprevedibile con la palla a spicchi tra le mani come Joker. Prefazione di Raffaele Ferraro.
LinguaItaliano
EditoreLab DFG
Data di uscita1 mar 2024
ISBN9791280642677
Nikola Jokic: The Joker

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    Anteprima del libro

    Nikola Jokic - Marco Munno

    Prefazione

    Io credo che gli unici muscoli che servono per giocare a basket, siano quelli nel cervello.

    Adesso che vi ho fornito il riassunto del libro, potete richiuderlo e farvi ridare i soldi dal libraio per comprarne un altro.

    Si scherza, ovviamente.

    O forse no.

    Perché questa frase, per certi versi assurda, racchiude alla perfezione il personaggio a cui è dedicato questo libro.

    Analizziamola.

    I muscoli: sfatiamo un mito, Jokić i muscoli ce li ha. Sono la sua imponente mole e la sua provenienza caucasica, unite alla percentuale di massa grassa non propriamente bassissima che li nascondono un po'. Se vedessimo Jokić dal vivo resteremmo impressionati dal suo fisico, dalla larghezza delle spalle, dalla circonferenza infinita del suo petto. Il problema è che gioca in un campionato dove il fisico medio sembra disegnato con Photoshop.

    Quindi l'allusione al fatto che lui non avrebbe i muscoli è una bugia.

    I muscoli non servono per giocare a basket: se parlassimo di UIPS o CSI, questa affermazione potrebbe anche reggere. Anzi, pare che nelle minors i muscoli vengano proprio visti come segnale principale di cafonaggine da parte dell'atleta. Ma in NBA i muscoli, per giocare, servono eccome. Servono in generale per praticare qualsiasi sport ad alto livello. Senza un fisico ben attrezzato, soprattutto in uno sport di contatto dove è fonda- mentale correre, saltare, scattare, non puoi competere.

    Seconda bugia.

    Gli unici muscoli che servono sono quelli del cervello: ma il cervello non è un muscolo, è un organo. Terza bugia.

    No, alt, un momento. Non può aver detto tre bugie in una frase di quattordici parole. È proprio qui che si nasconde la straordinarietà di questo personaggio: l’ironia.

    Nikola Jokić è fondamentalmente un comico prestato alla pallacanestro. Fa ridere. Per quello che dice. Per le smorfie che fa. Per i microfoni che rompe in conferenza stampa. Per gli ippo- dromi che frequenta quando i suoi colleghi sono sotto il sole dei tropici. Per i negozi di alimentari gestiti da pakistani dove va a comprare le birre a mezzanotte in centro a Ferrara. Per le betto- le dove va a ballare con gli amici. Per quello che dice. Per quel- la balcanicità che sprizza fuori da tutti i pori. Per quelle note di Goran Bregović che ti vengono in mente ogni volta che lo vedi.

    Quello che leggerete è un libro che il bravissimo Marco Munno, una delle persone più esperte ma soprattutto amanti viscerali della pallacanestro che abbiamo in Italia, ha dedicato a un personaggio sportivo meraviglioso.

    Che contestualmente sia già oggi uno dei giocatori di basket migliori della storia, però, non è un dettaglio. Anzi, è il nocciolo centrale della questione. Perché siamo di fronte a un atleta leggendario, e come tale va trattato.

    P.S. Il cervello, anche se non è un muscolo, serve eccome per giocare a basket. Nikola un po’ ci fa. E gli vogliamo bene anche per questo.

    Raffaele Ferraro

    Capitolo 1

    The Joker

    È capitato a tanti, a tantissimi. Ritrovarsi su un campetto, con tanti sconosciuti, a cercare un accordo per giocare insieme. Finendo così per scegliere i due capitani e affidare a loro l’onere di dividere i partecipanti e comporre le squadre, più equilibrate possibili. Senza troppe informazioni, si sceglie seguendo l’istinto, quell’istinto che molte volte suggerisce la stessa cosa: accaparrarsi i ragazzi che sembrano più performanti rispetto al fisico, a quanto sono alti, a quanto sono filiformi, a quanto lunghe hanno le leve, somigliando il più possibile al prototipo di cestista ideale. Sperando che quell’avvesario tanto mastodontico ma dalle movenze che sembrano così macchinose anche nei gesti più normali, con quei chili in più impossibili da ignorare finisca agli avversari, magari più sfortunati nello scegliere per ultimi e quindi doversi accontentare di chi nessuno ha voluto.

    Poi si inizia a giocare, e quelle valutazioni fatte a occhio si dimostrano almeno in parte sbagliate. Soprattutto riguardo il ragazzo che, insomma, con quei chili in più e quelle movenze così strane, è davvero insospettabile. E invece è il migliore di tutti: conosce meglio degli altri i limiti del suo corpo e li ha trasformati in punti di forza, visto che rubargli la palla è impossibile e in ogni situazione anticipa ciò che accadrà sul campo, puntualmente trovando l’uomo libero o tirando nel modo a lui più conveniente. A patto di andare alla sua velocità: ma con la sua sapienza cestistica di fatto costringe tutti ad adattarsi ai giri del suo motore, non quello più potente ma di certo quello che alla fine produce le performance migliori.

    Dai campetti di periferia, dove questa scena di tanto in tanto si presenta con le dovute proporzioni, c’è chi l’ha riprodotta sul palcoscenico cestista più importante di tutti. Partendo da una cittadina serba, senza grandi aspettative e con una silhouette ben sotto gli standard anche di leghe molto meno blasonate. Per poi prendersi gli Stati Uniti, scalare i vertici del campionato di pallacanestro più importante del mondo e scrivere pagine di storia del gioco, raggiungendo vette mai toccate prima.

    Restando quanto più possibile sé stesso, con un’immagine anche a livello di marketing diversa da tutti quelli che lo hanno preceduto, affiancato e poi sono stati superati al vertice delle gerarchie. Fisico quasi per niente definito. Nessun tatuaggio. Nessun taglio di capelli particolare o barba all’ultima moda. Nessun accessorio particolare. Nessuna frase a effetto. Nessuna espressione di machismo. Nessuna collezione di amanti. Nessuna presenza agli eventi più glamour. Nessun hobby figlio del lusso e dell’ostentazione di quanto guadagnato. Nessun account attivo sui social network (dove però vanta un post diventato a posteriori famosissimo: quello in cui, da sedicenne sostanzialmente sconosciuto, chiese se ci fosse qualcuno che volesse aggregarsi a lui per fare due tiri a canestro... senza alcuna risposta ricevuta).

    Anzi, qualche faccia buffa ogni tanto e un umorismo anticlimatico rispetto a quello fissato dai canoni del sistema preconfezionato, spesso plastico, degli eventi di punta della National Basketball Association.

    Umorismo che traspare in quei pochi spot televisivi girati, senza frasi motivazionali ma con evidente autoironia, presente anche in tante piccole occasioni sul parquet e fuori (dai microfoni smontati in conferenza stampa, dai balletti alle contese, dai duetti con i compagni alle espressioni comicamente esagerate regalate alle telecamere).

    Al massimo, rispetto alle classiche icone della pallacanestro americana, come similarità ha un soprannome, quello di Joker, nato anche un po’ per sbaglio: venne coniato da un compagno di squadra degli esordi a Denver, l’ottimo tiratore Mike Miller, che non riusciva a pronunciarne il cognome. Ma che involontariamente ha forse espresso al meglio ciò che il suo avvento e quello che ha fatto in campo e fuori hanno rappresentato per il mondo cestistico americano e per gli standard cestistici imposti a tutti.

    Quando ha la palla tra le mani sul parquet, non si sa mai che giocata aspettarsi rispetto a quanto ipotizzabile visti gli altri giocatori. Quando si è presentato in quelle occasioni tanto standardizzate fuori dal campo, non si è mai saputo come avrebbe reagito rispetto a quanto dovuto.

    Un Joker, di nome e di fatto, con quella faccia un po’ così, quel corpo un po’ cosà, ma quella pallacanestro celestiale giocata, ben più aulica di quella mai mostrata da chiunque altro.

    Semplicemente, Nikola Jokić.

    Capitolo 2

    Le radici: Sombor e la famiglia

    Sombor è una piccola città serba, comune del distretto della Bačka Occidentale, posta al nord-ovest nella provincia autonoma della Voivodina, zona dalla storia antica risalente all’epoca romana. Posizionata in pratica al confine tra l’Ungheria e la Croazia, è stata una delle regioni centrali dell’impero austroungarico fino a diventare definitivamente parte della Jugoslavia nel 1944. Conta circa 41 mila abitanti, 70 mila se si considera l’intera area amministrativa, villaggi vicini compresi.

    «Tutti accoglienti, legati alla comunità, che si interessano di coloro che hanno intorno» come raccontano gli autoctoni. Che per mantenersi in contatto, alle chat di WhatsApp preferiscono un invito a casa, davanti a un caffè e a un pezzo di torta. Uno specchio della tranquillità del luogo, accarezzato dal Veliki Bački kanal che sfocia nel Danubio, non a caso la città con più alberi nell’intera Europa dell’Est. Forse noiosa o con poche opportunità di carriera per qualcuno, come quei giovani che preferiscono spostarsi nella più caotica Belgrado o tornare nel Paese d’origine (così come fatto da diversi membri della comunità ebraica cittadina, prima composta da circa duemila unità e ora scese a una cinquantina). Ma per altri, un posto in grado di dare pace interiore, lontano da caos e riflettori, per una vita maggiormente a misura di uomo.

    «Quando la mia carriera si chiuderà, ci tornerò a vivere... la vita scorre molto lentamente, non succede granché ma c’è tutto ciò di cui si ha bisogno. C’è il canale, c’è la natura: si può trovare serenità per la propria mente, fuori dalla città. Mi piace essere in un luogo in cui so dove andare con la macchina senza accendere un navigatore. Come si dice, nessun posto è come casa propria? Ecco, la vedo così. È il mio tutto, la mia vita è a Sombor. A Denver gioco a pallacanestro, è il mio posto di lavoro. Ma la mia vita è nella mia piccola città».

    Un’ode al paese, direttamente da parte del suo rappresentante più famoso. Perché Nikola Jokić, in quel posto che si attraversa in cinque minuti di macchina, con un numero di ristoranti che si può contare sulle dita di due mani e il gioiellino della gelateria nel mezzo della via centrale di Ulica Kralja Petra, ci sta a meraviglia e, vedendolo sia dentro che fuori dal campo, ne riflette totalmente le caratteristiche. Avendo superato tutto sommato indenne il periodo nero, quello dei bombardamenti della NATO nel corso dell’operazione Allied Force del 1999, all’epoca della Guerra del Kosovo (con ovvi strascichi lasciati in città, come la scritta in rosso "Kosovo is Serbia" sul muro adiacente a quello con la gigantografia di Nikola), quando le costruzioni venivano distrutte e per settimane si viveva senza elettricità, completamente al buio nella notte, sperando di risvegliarsi il giorno dopo prima della conclusione delle ostilità. Che ancora hanno spazio nella testa di Nikola: «Ricordo cose come sirene, rifugi antiaerei, luci che si spegnevano... vivevamo praticamente al buio. Anche in orari mattinieri, come le nove, era tutto spento intorno a noi».

    Il retaggio di quanto vissuto fu comunque maggiore nel carattere duro dei due fratelli di Nikola e di papà Branislav, residente con mamma Nikolina nella città ritenuta migliore, con le sue fattorie a contornarla (a volte con più di cento anni d’età), vista la sua professione di ingegnere agricolo, anche grande appassionato di cavalli. Passione, quest’ultima, che trasmetterà poi al figlio.

    Invece l’amore per il basket a casa ci arriva in via indiretta, perché nessuno dei suoi genitori aveva avuto mai un’esperienza di campo, a nessun livello. Ma un amico di Branislav gli chiedeva spesso di accompagnarlo a vedere le partite del figlio, Nebojsa Vagić, alla Mostonga Sports Hall, edificio nato negli anni Settanta, contornato da mura rosse, con una palestra più piccola e una più grande, dalle tribune con non più di 300 posti disponibili. Vagić si metteva alla prova in entrambe, affrontando tanto i pari età quanto i ragazzi più grandi, con Branislav ad appassionarsi sempre più, maturando l’abitudine che ha poi mantenuto di risultare molto rumoroso durante i match (tanto che in pochissimi gli si siedono al fianco, temendo di essere colpiti per sbaglio da uno dei pugni sbattuti contro il sedile in casi di particolare tensione).

    La pallacanestro entrò allora pian piano nella vita quotidina della famiglia, e i primi a subirne il fascino furono i due fratelli più grandi: Strahinja, il maggiore dei tre, di tredici anni più vecchio di Nikola e Nemanja, quello di mezzo, nato due anni dopo Strahinja. Foriero delle prime sfide familiari fu il canestro giocattolo appeso a una porta della casa in cui vivevano, un piccolo appartamento posto all’ultimo piano di una palazzina residenziale, con due stanze da letto a ospitare tre fratelli, due genitori e una nonna (più i vari cugini, chiamati spesso fratelli, che si univano alla compagnia).

    I primi a iniziare a dedicarsi da giocatori al basket in famiglia furono proprio i fratelli maggiori di Jokić: stessa passione, stesso fisico massiccio, quasi la stessa età ma per il resto molto diversi fra loro. E la carriera a dimostrarlo.

    Strahinja non aveva particolari qualità tecniche, ma una grandissima propensione al lavoro duro. Nemanja invece, dotato di molto talento naturale, aveva un’etica professionale piuttosto bassa. La competitività nelle sfide a casa fra i tre da ragazzini era alta, con Strahinja e Nemanja a inginocchiarsi per permettere letteralmente al Nikola, ben più basso, di restare alla loro altezza nelle partitelle improvvisate al canestrino presente in casa, interrotte solo dai vicini che puntualmente andavano a bussare per far interrompere il frastuono provocato. Quindi, con la crescita del terzetto, i confronti si spostarono poi ai campi all’esterno, che durarono fino alla separazione.

    Perché se Strahinja con le sue modeste qualità trovò spazio solo nelle squadre più piccole in patria, Nemanja ricevette la chiamata dagli Stati Uniti nell’estate del 2004 da parte di un caro amico, ora diventato famoso, con cui aveva condiviso diverse esperienze sui campi fin da quando i due avevano sedici anni. Si trattava di Darko Miličić.

    Già, quel Darko Miličić che nel draft di un anno prima, quello del 2003, aveva fatto già parlare di sé, per poi continuare a essere menzionato nel corso degli anni ma in maniera tutt’altro che positiva dal punto di vista cestistico. Venne selezionato nella draft night quasi subito, con la pick¹ numero 2 dai Detroit Pistons: prima di lui solo quel LeBron James già attesissimo nella Lega, soprannominato "The Chosen One (Il Prescelto") senza ancora

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