L’ARMATA ROSSA UNITA AL CINEMA
om’è facile immaginare, in patria il gruppo è stato oggetto di diverse pellicole: il film di Banmei Takahashi del 2001 , che si concentra in una forma piuttosto teatrale sulle morti per di Masato Harada del 2002; , diretto da Kōji Wakamatsu del 2007; e un documentario del 2019, , di NHK World-Japan, con interviste piuttosto incolori ai membri sopravvissuti del gruppo terroristico (quest’ultimo film è facilmente rintracciabile in rete). La pellicola di Wakamatsu resta comunque, e non solo per esser stata presentata al Festival di Berlino e aver vinto il premio Japanese Best Picture al Tokyo International Film Festival, quella più vicina a un’interpretazione di prima mano dello spirito dell’Armata, crudele ma priva di violenza oleografica e compiaciuta: il suo «approccio alterna immagini documentaristiche a parti di fiction, recitate e riprese con un’estetica dimessa e punitiva, quantomai in sintonia con l’atmosfera di terrore e austerità trasmessa dai processi di autocritica rivoluzionaria e purificazione ideologica interni all’URA» (Emanuele Sacchi). Wakamatsu era un gangster diventato regista che aprì la strada al genere “pinku eiga” (soft-core erotico) nei primi anni Sessanta e attirò i censori con i suoi trasgressivi, tanto splendidi quanto inquietanti, oltraggi cinematografici. I suoi contatti con gli estremisti di sinistra giapponesi più in vista lo avevano reso un obiettivo di indagine da parte delle autorità del suo Paese, nonché un “alieno indesiderabile” per il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. In una delle sue ultime interviste, rilasciata a Mark Schilling poco prima di morire, il regista disse: «Non ho più molto tempo. Non so quanto me ne rimane, quindi voglio girare il maggior numero possibile di film adesso. Vorrei girare un film normale la prossima volta. Ma non credo che nessun film a cui prenderò parte sarà normale». ()
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