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Lars Von Trier, l'estremo esteta
Lars Von Trier, l'estremo esteta
Lars Von Trier, l'estremo esteta
E-book470 pagine6 ore

Lars Von Trier, l'estremo esteta

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Info su questo ebook

Lars von Trier è indiscutibilmente uno dei registi più significativi del panorama cinematografico degli ultimi anni, nonché contenditore del titolo di migliore autore di film della Danimarca.

La sua relazione col cinema inizia presto, da quando la madre gli regala ad 8 anni la sua prima 8mm e subito fioccano cortometraggi. Da allora, è stato un flusso di sperimentalismo eclettico sviluppato a blocchi di trilogie - o meglio trilogie e duologie - a comporre i tasselli di un ricco mosaico: "Faccio film per me stesso", è il bisogno primordiale alla base di più di cinque decenni di attività.

Organizzato intorno a due coppie di film del regista, abbinati per affinità elettive e divergenze evidenti, il presente lavoro indica come vari generi, varie tecniche, varie scelte stilistiche, sono in realtà legati da fili conduttori tematici che emergono come creste di onda. In questo, pur cambiando approcci e metodo di lavoro, pur maturando consapevolezze ulteriori, Lars von Trier è rimasto fedele alla sua missione: “Mi sento un po' come un esploratore che è stato lanciato su un’isola deserta e a cui è stato detto di andare verso est”, con l’ambizione di realizzare qualcosa quanto mai autentica ed espandere il mezzo cinematografico.

LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2023
ISBN9788869348327
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    Anteprima del libro

    Lars Von Trier, l'estremo esteta - Enrico Scavone

    Enrico Maria Scavone

    Lars von Trier, l’estremo esteta

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, giugno 2023

    e-Isbn 9788869348327

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Cinema del ‘900: Massimo Moscati

    Editing: Cesare Paris

    Progetto grafico: Riccardo Brozzolo

    Enrico Maria Scavone

    Enrico Maria Scavone, 27 anni, originario di Nicotera, in Calabria.

    Emigrato a 18 anni a Milano, si è laureato in Giurisprudenza per poi lavorare come avvocato in uno studio legale nel capoluogo meneghino; attualmente lavora a Roma presso la Banca d’Italia.

    La passione per la poesia e per la scrittura è iniziata per curiosità durante l’adolescenza, ed è proseguita sino ad oggi. Alcuni suoi componimenti sono apparsi in Collana Poetica – I Poeti di Via Margutta vol. 106 (Dantebus).

    Alla scrittura unisce un’altra grande passione: quella per la settima arte.

    Cineuropa

    Cineuropa è una nuova proposta editoriale incentrata su registi e attori che hanno fatto grande il cinema europeo. Figure iconiche, capaci di sovvertire il mondo della settima arte e altresì di imporsi nell’ambito della moda, del costume, della società, qui riscoperte secondo una nuova ottica critica, capace di coglierne gli aspetti più interessanti, controversi, nascosti.

    Una collana che analizza nel dettaglio la carriera di artisti a tutto tondo e il loro percorso professionale che, in molti casi, ha coinciso simbioticamente con la loro dimensione esistenziale.

    Lars von Trier ha avuto un rapporto particolare con sua madre, una donna forte, come lui stesso l’ha definita, la quale, da una parte, gli ha confessato serenamente sul letto di morte l’identità del suo vero padre – scelto per i suoi geni artistici – ; dall’altra parte, è stata colei che gli ha donato la prima telecamera 8mm: ogni film è fondamentalmente per irritarla e provocarla, ha detto il regista danese.

    Io ho avuto un rapporto particolare con mia madre, una donna decisamente forte, la quale, da una parte, ha inevitabilmente infuso il suo ascendente sulle mie scelte; dall’altra, mi ha confessato sul letto di morte – se ce ne fosse bisogno – il suo amore incondizionato.

    Anche io mi sento di dire che tutto quello che faccio, incluso il presente lavoro, è per lei – ogni tanto anche per provocarla – , in virtù di questo stesso amore, cara mammina.

    Un regista controverso… e poco dogmatico

    "Non si sa mai il finale.

    Bisogna morire per sapere

    esattamente cosa succede

    dopo la morte, anche se i cattolici

    hanno le loro speranze".

    (Lars von Trier)

    Peso massimo del cinema danese, Lars von Trier è una personalità controversa nota per film provocatori dalla violenza a volte insopportabile. Ha diretto, in particolare, L’elemento del crimine (1984), Le onde del destino (1996) e Dancer in the Dark (2000) oltre alla prima (di una trilogia) mini-serie televisiva The Kingdom – Il Regno (1994).

    Per questo prefatore ci si potrebbe fermare qui per definire la qualità di von Trier. Fortunatamente l’autore di questo saggio, approfondito e complesso, non si è fatto condizionare dai capricci del curatore di collana. E si è immerso con competenza nell’opera dell’ostico autore di Antichrist (2009), Melancholia (2011), Nymphomaniac (2013), La casa di Jack (2018).

    Per Dancer in the Dark si aggiudicò la Palma d’Oro a Cannes, lo stesso Festival che poi lo ha bandito per sette anni (nel 2011) per questa dichiarazione, fatta in conferenza stampa, su Adolf Hitler: «Sto solo dicendo che capisco quell’uomo. Non è proprio un bravo ragazzo, ma capisco molto di lui e simpatizzo un po’ con lui. Io sto con gli ebrei, ma non troppo, perché Israele fa proprio schifo». Per poi, prontamente, correggersi: «Se ho ferito qualcuno con i commenti che ho fatto stamattina, vorrei sinceramente scusarmi. Non sono né antisemita, né razzista, né nazista». Troppo comodo!

    Diventa complicato capire cosa può passare per la testa di un artista, ma è certo che il rischio concreto è che si metta in discussione tutta la sua opera. E quindi, per esempio, ridimensionare ciò che avvenne in un incontro organizzato a Parigi, il 20 marzo 1995, al Théâtre de l’Odéon, per il centenario del cinema, quando von Trier proclamò la nascita del Dogma 95. Criticando la deriva borghese della New Wave, il giovane danese, coronato dalla stima suscitata da alcune sue pellicole, esortava a battersi contro l’illusione e il ritorno alle regole spartane della ripresa cinematografica.

    Insieme a Thomas Vinterberg – Festen – Festa in famiglia (1998), Le forze del destino (2003), Il sospetto (2012), Un altro giro (2020): ecco a chi dedicare il prossimo saggio! – presentarono i 10 principi del Dogma accompagnati da un voto di castità (questo libro li sviluppa ampiamente), qui possiamo velocemente ricordarne qualche suggestione: le riprese devono avvenire in ambienti naturali, il suono non dovrebbe mai essere prodotto separatamente dalle immagini e viceversa, la fotocamera deve essere tenuta sulla spalla, il film deve essere a colori, sono vietati trucchi e filtri, il film non deve contenere alcuna azione superficiale (sono vietati omicidi, armi, ecc.), le alienazioni temporali e geografiche sono vietate (il film si svolge qui e ora), i film di genere sono inaccettabili, il formato della pellicola deve essere uno standard 35 mm, il regista non deve essere accreditato. Sembra di essere su Scherzi a parte.

    E la critica andò dietro, nonostante i due non rispettassero minimamente il loro decalogo. Poi la ciliegina sulla torta, il voto di castità: «Giuro come regista di astenermi da qualsiasi gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un’opera, perché considero il momento più importante della totalità. Il mio obiettivo finale è forzare la verità fuori dai miei personaggi e dalla cornice dell’azione. Giuro di farlo con tutti i mezzi disponibili e a costo di ogni buon gusto e considerazioni estetiche».

    Dopo un decennio, i due soci gettarono la spugna, e si svincolarono dal Dogma: «Ha altri progetti in mente, altre sfide da intraprendere», spiegò un portavoce di Zentropa, la sua casa di produzione. Certo von Trier ha sempre fatto in modo di assumere la visione opposta al cinema tradizionale, e su questo assunto ha costruito la sua carriera. Non ha mai finito con la sua frenesia di sperimentazione, senza timore di apparire sgradevole.

    Nel 2022, a 66 anni, il regista ha rivelato di essere affetto dal morbo di Parkinson: «Mi prenderò una piccola pausa e scoprirò cosa fare. Ma certamente spero che le mie condizioni migliorino. È una malattia che non si può estirpare; puoi lavorare sui sintomi, però. Devo solamente abituarmi a questo e non essere vergognoso di fronte alle persone. E poi andare avanti, perché cos’altro dovrei fare?».

    Forza della natura Lars von Trier: si può non condividerlo, ma non rimanergli indifferente.

    Massimo Moscati

    Introduzione

    Il presente saggio si propone di dare una personale interpretazione del lavoro cinematografico di Lars von Trier, quanto più approfondita e meditata.

    La materia è vasta, seppur nel palmarès di lungometraggi del regista danese si possono contare 13 titoli: alcuni, infatti, sforano le convenzionali durate medie di un film (ad es. Dogville – 2003 – con i suoi 178 minuti e la ‘Director’s cut’ di Nymphomaniac – 2014(1) – che, sommando Vol. I e Vol. II, arriva a 330 minuti)(2). La materia è inoltre complessa: in particolare le ultime pellicole di von Trier, da Antichrist (2009) a La Casa di Jack (The House That Jack Built) (2018) – le cosiddette opere del periodo post-malattia – sono state oggetto di analisi e saggi scientifici, in diversi casi di taglio psicologico e psicoanalitico(3): nelle immagini e nelle azioni inscenate sono rinvenibili numerosi elementi che danno il senso di un viaggio in una ‘condizione mentale’ in cui il protagonista o uno dei personaggi si trova. Lo stesso von Trier in una intervista ha affermato come ad esempio Melancholia (2011) parli, appunto, della sua condizione mentale(4).

    A fronte di tale vastità e complessità, anche al fine di circoscrivere il discorso e offrire al lettore uno studio che eviti di risultare superficiale, il presente saggio si struttura in un’analisi di 2 coppie di film di Lars von Trier, scelte sulla base di affinità che l’autore del presente lavoro ha trovato significative per comprendere appieno l’opera ed il sapore del regista danese. Le coppie di film, dunque, derivano da una decisione arbitraria e non conseguono ad un’opera di classificazione operata dalla critica o dal regista: è noto, infatti, come la produzione di Lars von Trier sia suddivisa – seppur non nella sua interezza – in trilogie di cui in ogni caso si terrà conto(5).

    In particolare, il lavoro è strutturato in questo modo:

    1) in primo luogo, si procederà ad una panoramica dell’opera del regista, soffermandosi sugli aspetti di vita e di contesto socioculturale che secondo il punto di vista del presente autore hanno avuto una rilevanza significativa sulla sua produzione cinematografica;

    2) in secondo luogo, si procederà all’analisi delle coppie di film: (i) la prima coppia è costituita dai film Melancholia (2011) e Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996); (ii) la seconda coppia è costituita dai film Dogville (2003) e Medea (1988).

    Si precisa che Medea non viene annoverato tra i lungometraggi del regista, in quanto film realizzato per la televisione danese; tuttavia, considerato che è altresì basato su una sceneggiatura di Carl Theodor Dreyer, il lavoro può essere considerato ugualmente rilevante ai fini che qui interessano. Si precisa inoltre che i restanti lungometraggi, mediometraggi e cortometraggi(6), così come le serie e opere per la televisione di Lars von Trier, non scompariranno dalla costellazione visibile sulla volta notturna della presente analisi, ma riaffioreranno con il loro brilluccichio qui e lì, quando l’occhio scrutatore attentamente focalizzato su un pianeta scivolerà inevitabilmente sui loro bagliori frastagliati. Laddove possibile, si lascerà spazio alle parole espresse direttamente dal regista(7).

    Un grande aiuto per i contenuti del presente lavoro è derivato dalla lettura delle opere di Linda Badley: Lars von Trier (Contemporary Film Directors) (2011); Lars Von Trier Beyond Depression: Contexts and Collaborations (2022).

    Per la forma, invece, ed in particolare per la strutturazione dell’analisi su coppie di film, tra i cui interstizi far affiorare le immagini e i suoni del resto del magma creativo di Lars von Trier, si deve molto all’abbacinante opera Allucinazioni Americane (2021) di Roberto Calasso.

    Il cinema di Lars von Trier

    E proprio perché tutto è concluso mi piacerebbe poter dire due parole di saluto e di commiato […] Festeggiavamo le nozze d’argento con lo zio Carlo e la zia Titty. Raccoglievamo dei soldi e li mettemmo in una vecchia calza […] ma qui invece abbiamo raccolto ogni giorno un sogno per dieci anni e l’abbiamo messo qui [portando la mano al cuore] … ma viene il giorno per la zia Titty e per lo zio Carl, è arrivato anche per noi, in cui la festa finisce. Una mattina ci svegliamo, allunghiamo la mano e riusciamo ad afferrare solo l’aria. E io, e noi due, questo trio, non è nient’altro che una saga ormai. Tu che per me eri tutta la mia vita e io che un tempo ero la tua, non dobbiamo mai più prenderci per mano… chi è allora, a chi mandiamo questo saluto? All’uomo che se sbaglia è sempre il primo, a maledire se stesso per tutte le sue colpe, ma è anche il primo a comprendere e a perdonare quando siamo noi a sbagliare. Di chi sto parlando?

    Ravn

    Più forte

    Ravn

    Ravn. Ci hai portati tutti nel tuo cuore, Ravn. Hai fatto di tanti uno solo. Hai dato generosamente il tuo amore a ognuno di noi e ora scompari, come una bolla nell’acqua, vai verso più grandi imprese. Ma una cosa ti promettiamo, sotto una buona o una cattiva stella, vicini o lontani, ti porteremo sempre nei nostri cuori riconoscenti, sarai sempre qui, in ogni momento, tu sei sempre stato al nostro fianco, ma chi di noi, maledizione, chi è stato – al tuo – fianco? Però sappi questo: da oggi, la rondine garrisce sotto il tetto, l’aria è dolce e serena, il sole splende, questo non è un addio, ma un arrivederci: tonfi di applausi incerti nei freddi colori di una sala riunioni.

    Così recita Kristoffer (Jens Albinus) in una delle scene conclusive del film commedia Il grande capo (Direktøren for det hele) del 2006 – scritto e diretto da Lars von Trier – quando, da proprietario fittizio di una società di informatica danese, sta per siglarne l’atto di vendita a favore di un islandese – Finnur – interpretato men che meno che dal regista Friðrik Þór Friðriksson (per intenderci colui che ha diretto Figli della natura – Börn náttúrunnar – , 1991, candidato al premio Oscar del 1992 come miglior film straniero). E già questo la dice lunga.

    Scrivere un commiato così all’inizio di un libro su Lars von Trier credo che farebbe rabbrividire il regista danese; o forse lo farebbe ridere, in linea con il peculiare humour che ha informato ogni sua opera e che sarebbe riduttivo definire black o all’inglese. In primis, perché Lars von Trier non è mica finito. Vero è che dopo La casa di Jack, ha affermato di non voler più girare altri lungometraggi – non più – per evitare di fare film che siano sciatteria, poiché fare soldi diverrebbe l’unico obiettivo(8). Non è possibile opporvi a tale decisione la recente realizzazione de Il regno Exodus (Riget Exodus) (2022), da lungo tempo programmato epilogo della serie televisiva Il regno (Riget) – apparsa nel 1994, con una seconda stagione Il regno 2 (Riget II) nel 1997 – , conclusasi esattamente 25 anni dopo, in perfetto pendant con I segreti di Twin Peaks (Twin Peaks) di David Lynch(9).

    Vero è, inoltre, che, contestualmente all’anteprima fuori concorso del suo ultimo lavoro alla 79ª edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stata diffusa la notizia che Lars von Trier è malato di Parkinson. È apparso dunque emaciato e molto dimagrito rispetto al passato, rassicurando i presenti (in sala e a casa) sulle sue condizioni. Tuttavia, che Lars von Trier avesse problemi di salute non era e non è un mistero: lui stesso ebbe modo di affermare: Non sto mai bene... Guarda, ci sono sempre quattordici cose diverse che non vanno in me, quindi è imbarazzante(10); ciò non gli ha impedito di realizzare le opere che sono la ragione di questo lavoro, così come non è detto che implicheranno un’impossibilità assoluta di realizzare ulteriori progetti nei giorni a venire, che si augura siano ancora tanti(11).

    In secundis, un commiato così, posto asetticamente all’inizio di questa trattazione, lancerebbe un messaggio di cinema che è proprio l’antitesi del suo lavoro: è l’opposto di qualsiasi immagine, suono, dialogo è lecito aspettarsi in un suo film, a meno che non sia immerso in un contesto di profonda e sottile ironia, come avviene appunto ne Il grande capo. Sì, perché von Trier ha realizzato tutto fuorché film scontati, con messaggi mielosi o effetti speciali anestetizzanti.

    Parlando con alcuni amici, conoscenti, passanti, da alcuni gli si rimprovera di essere autoreferenziale, involto in se stesso e mosso da un piacere subdolo sadomasochistico nello scioccare gli spettatori attraverso scene che rivelano esclusivamente propri dissidi interiori. Intervistato a Cannes nel 2000, a fianco di Björk, per il suo Dancer in the Dark (2000) vittorioso della Palma d’Oro, una giornalista francese, dopo aver definito il film una centrale nucleare di emozioni, con molte virtuosità tecniche e con un’evidente caratterizzazione politica contro la pena di morte, chiese a Lars von Trier cosa intendesse lasciare nello spirito dello spettatore attraverso i suoi film, forse l’emozione per accedere a una qualche verità; Lars von Trier rispose: io posso fare film solo per me stesso. E continuò: Se poi riesco ad avere una corrispondenza con il pubblico, sono felice (12).

    Faccio film per me stesso, è la frase che spesso sentiamo provenire dalla bocca del regista danese e, nel suo sperimentalismo eclettico sviluppato a blocchi di trilogie – o meglio trilogie e duologie – , è il fil rouge che lega i tasselli del ricco mosaico della sua opera. In questo, pur cambiando approcci e opinione, pur maturando consapevolezze ulteriori, von Trier è stato fedele alla sua missione: "Mi sento un po’ come un esploratore che è stato lanciato su un’isola deserta e a cui è stato detto di andare verso est(13). Non ha senso cambiare rotta perché qualcosa sembra più eccitante. Ho deciso di non farlo. Ho deciso di andare ad est perché credo che, scientificamente, niente può essere ottenuto da scout che non prendono la strada che è stata loro indicata. […] Provo ad evitare di guardare nuovi film, perché la cosa peggiore che potrebbe capitare è che io diventi entusiasta per qualcosa. […] ho una nuova metafora, che è che io faccio film che non verrebbero altrimenti mai realizzati. I miei film sono come la stella mancante in una costellazione"(14).

    Una storia che inizia presto

    Il suo rapporto con il cinema inizia presto: la madre ad 8 anni gli regala una 8mm e subito fioccano cortometraggi(15). E quando avevo 10 anni, volevo una sala di montaggio più di ogni altra cosa al mondo, e sulla fonte dell’interesse per il cinema: Ho uno zio che è un regista – Børge Høst – che ha fatto alcuni documentari ben accolti. Mi ha fatto scoprire alcune cose(16).

    Pochi sanno tuttavia che Lars Trier (all’epoca il ‘von’ non era ancora stato aggiunto) ebbe prima di tutto un debutto come attore: recitò infatti nella serie TV per ragazzi L’estate segreta (Hemmelig sommer, 1969) – prodotta dalla società cinematografica danese Lanterna – dove interpretò un ragazzo di 11 anni(17) (all’epoca lui in realtà ne aveva 12) chiamato appunto Lars. Chissà cosa avrebbe da dire ora, guardando al contenuto della serie: prodotta per adolescenti, è infatti la storia dell’amicizia tra i giovani Sara e Lars, durante le lunghe vacanze estive mentre i genitori sono impegnati a lavorare. Entrambi della stessa età, lei però di estrazione sociale superiore, fantasiosa e drammatica; lui della classe operaia, pratico e coscienzioso. Quando si legano, nasce un’innocente storia di crescita. Alla Lundtofte Skole di Kongens Lyngby(18), i suoi compagni lo prendevano in giro per essere diventato una ‘movie star’: Ma non me ne può fregare di meno. Sono io quello che ha fatto un po’ di soldi e mi sono saltato 3 settimane di scuola mentre registravamo. Con i quali soldi – è stato pagato circa 3.000 corone danesi – si comprò un organo elettronico. Ma non sono molto per la musica. Più di ogni altra cosa, lo userò probabilmente per produrre suoni quando faremo dei cortometraggi(19): le sue idee sono chiare fin dall’inizio. E, difatti, alla domanda circa il suo futuro da attore: Non lo so, ma so che mi piacerebbe essere qualcosa nei film. E qualcosa è diventato!

    Nato nel 1956, von Trier cresce in un ambiente familiare molto particolare, che avrà impatti evidenti sul suo futuro cinema, fin dai primi anni della scuola. Il padre – che poi si rivelerà adottivo – di origini ebree e la madre comunista militante, credono fermamente in un’educazione libera del bambino: la formazione impartita prevede dunque che il piccolo Lars sia lasciato a sé, autonomamente responsabile nello stabilire le proprie autolimitazioni in una sorta di autogestione (decisione di orari, andare a scuola o meno). L’ambiente permissivista crea disagi e difficoltà non appena il giovane Lars si interfaccia con il resto di una società scolastica e cittadina fortemente gerarchizzata, cresciuta secondo canoni di educazione completamente differenti. Nella ricostruzione della sua infanzia, nel documentario di Stig Björkman Tranceformer – A Portrait of Lars von Trier (1997), il regista parla di una mancanza di amore sotto forma di autorità, poiché l’autorità stessa è una forma d’amore. Così crescono nel bambino delle paure assurde, come quella per la bomba atomica, che portano ad espedienti per esorcizzare la realtà: racconta ad esempio di aver passato ore intere sotto al tavolo compiendo dei rituali magici. Ecco, dunque, l’origine del viaggio nella condizione mentale di von Trier. Il regista in un’intervista affermò: Io viaggio dentro. Mi dispiace solo che la mia immaginazione sia troppo egocentrica e quindi molto limitata. Detto questo, può suonare pretenzioso, ma vorrei precisare che ogni spezzone che giro viene da un pensiero. Ogni stacco, ogni fotogramma è voluto e pensato. Non lascio mai nulla al caso(20).

    Gli ‘student films’ – ossia i corto e mediometraggi prodotti nel periodo della carriera accademica – sono i manufatti a partire dai quali la critica cinematografica ha generalmente sviluppato la propria analisi, volgendo all’indietro gli anni della sua attività. In realtà, è dal 1967 che il giovane danese ha incominciato ad usare una macchina da presa: prodotto amatoriale, a quest’anno risale Viaggio a squashland (TUREN TIL SQUASHLAND), cortometraggio d’animazione della durata di 2 minuti circa, ideato e diretto da Lars Trier(21). Inizia così il periodo di lunghe e rudimentali carrellate con la bicicletta, di riprese di interni con pellicole per esterni e viceversa in modo da alterare i colori e ottenere delle tonalità più acide. Il lavoro è svolto da solo sia nelle riprese che nel montaggio, un approccio che segnerà i primi anni di attività del regista(22). Il corto del 1971 Un fiore (EN BLOMST), di circa 7 minuti, è accompagnato interessantemente dal Messiah di Georg Friedrich Händel, la cui musica sarà ricorrente nelle opere del regista danese. Quindi, già molto prima di studiare teoria cinematografica all’Università di Copenaghen e regia cinematografica alla Scuola Nazionale di Cinema della Danimarca(23), Lars (von) Trier ebbe eccome le mani in pasta. È, tuttavia, con i 37 minuti de Il giardiniere di orchidee (Orchidégartneren) (1977), mediometraggio prodotto con il Filmgruppe 16(24), presentato all’interno della sua domanda di ammissione alla Scuola Nazionale di Cinema ma poi per imbarazzo eliminato dalla documentazione, che ha inizio l’ascesa di Lars l’‘enfant prodige’ – o terrible a detta di lui stesso(25).

    L’enfant prodige – o terrible

    Definito da lui stesso esibizionista alla maniera di David Bowie, suo modello di riferimento all’epoca(26), è Il giardiniere di orchidee che la critica riconosce come la prima opera degna di nota del regista.

    Basato su un romanzo inedito, Il giardiniere di orchidee vede von Trier stesso nei panni di un artista ebreo alla ricerca della sua identità in una serie di scene – il cui ordine cronologico è ambiguo – che raccontano liberamente le esperienze del protagonista (Victor Marse, il cui vero nome è Felimann von Marseburg) in accostamenti peculiari, ricchi di ambivalenza. Von Trier non conosceva ancora la scottante verità sulle sue origini non ebraiche, eppure la ricerca dell’identità era già forte in lui, sullo sfondo dell’Olocausto. Sotto l’influenza evidente de Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, in una sequenza il protagonista/Trier è travestito da ufficiale nazista, e si trucca. Fra tutti, un tema emerge che sarà importante: il ritorno alla natura, luogo dove trovare conforto, proprio come von Trier da bambino(27), moto da alcuni associato a un ritorno all’infanzia e all’inconscio, di cui la natura ne è immagine tarkovskiana: nell’epilogo, infatti, è il giardiniere delle orchidee (da cui il titolo) che trova solerzia tra i fiori e le piante(28).

    Con il Filmgruppe 16, viene realizzato un altro interessante mediometraggio: Menthe – la ragazza felice (Menthe – la bienheureuse), del 1979, in lingua francese e nello stile di Marguerite Duras, che è una variazione di Histoire d’O (1954)(29), testo che ispirerà anche Manderlay (2005) (il sequel di Dogville e secondo capitolo della trilogia, mai completata, ‘USA – Terra delle Opportunità’). Il mediometraggio, arricchito dalle sonorità di Erik Satie ‘Gymnopedie #1’(30), rileva per le immagini significative, che dimostrano come molto albergava in nuce nella mente del giovane autore: ambientato a Roissy in Francia, appaiono qui e lì, come miraggi, scene di palme e vegetazione florida, a rappresentare un sud lontano e ambito, verso cui fuggire. E che dire poi delle mele, delle riflessioni sul nord freddo e inaccogliente, delle sevizie sessuali attraverso scene che rievocano La passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc) (1928) di Dreyer: Che il miracolo possa durare, che la grazia non scompaia mai, sono le ultime parole scritte nella lettera finale di Menthe.

    I primi compagni di avventura sono Tom Elling alla fotografia e al montaggio Tómas Gislason. L’eco di von Trier riecheggia da subito nel circuito dei Festival europei. I tre realizzano nel 1980 il cortometraggio Nocturne, che è valso a von Trier un premio al Munich International Festival of Film Schools(31).

    All’epoca il ‘von’ tra Lars e Trier era ben consolidato: il primo uso pubblico dell’aristocratica particella avvenne, infatti, con un articolo di giornale del 1976 avente ad oggetto il periodo di psicosi creativa di Strindberg (1894-1897), accompagnato da una foto dello scrittore e artista Lars von Trier in posa davanti alla tenuta di Holte dove Strindberg scrisse La signorina Julie (Fröken Julie) (1888)(32): La follia di Strindberg e di Munch erano per me l’apice del romanticismo(33). Von Trier dà inoltre credito ad un professore della Scuola di Cinema, un certo Gert Fredholm, con cui ebbe varie discussioni, tanto che alla fine quest’ultimo lo battezzò esoticamente in Lars ‘von’ Trier(34), fermo restando l’ispirazione da Sternberg e Stroheim, registi austriaci che assunsero artisticamente il ‘von’ assieme a personaggi aristocratici del palcoscenico germanico(35). Si potrebbe definire una provocazione da parte mia – spiegò von Trier – ma mi piacerebbe molto vederla come un’aristocrazia interiore, che io irradio, e inoltre, naturalmente, nel cinema danese e in Danimarca in generale è vietato irradiare qualsiasi cosa(36): è la cd. ‘Legge di Jante’, la quale sottende un modello di comportamento che, all’interno delle comunità scandinave, critica e ritrae negativamente, come indegne e inappropriate, le realizzazioni individuali e il successo del singolo; il regista la metterà a dura prova nei suoi film, così come era sottinteso dal ‘von’ arbitrariamente utilizzato: Sono convinto che le provocazioni siano molto importanti, soprattutto in una democrazia. Il PC o politically correct è la cosa più pericolosa che si possa immaginare, perché nessuno mette in discussione nulla. Allora tutto si ferma. Ho cercato di aiutare con le provocazioni e con varie tecniche. Sia politicamente… e, seppur molto insoddisfatto con i risultati, alcuni film mi sembrano molto efficaci (37).

    Del 1982 è poi Immagini di una liberazione (Befrielsesbilleder), lavoro con cui von Trier si diplomò alla Scuola Nazionale di Cinema della Danimarca nonché primo film della scuola ad essere distribuito regolarmente nelle sale cinematografiche. Gli valse il premio all’European Student Film Festival(38) ed è stato altresì proiettato nella sezione Panorama durante il 34° Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Immagini di una liberazione è un film molto importante per il regista: ambientato a Copenaghen durante l’ultimo periodo della Seconda Guerra Mondiale, tratta delle vicende di un ufficiale tedesco, Leo Mandel (Edward Fleming), che visita la sua amante danese, Esther (Kirsten Olesen), nei giorni successivi alla fine dell’occupazione della Danimarca da parte della Germania nazista: l’ufficiale tedesco verrà tradito dalla sua stessa amante e giustiziato nella foresta dove, pochi istanti prima della sua cattura, rievoca i momenti idilliaci della sua infanzia, quando ‘parlava’ con gli uccelli (i.e. ritorno alla natura). Al momento della morte ascende verticalmente sopra i pini di Gripskov Forest, in una scena che von Trier stesso ha definito poesia della natura(39). È interessante come il film combini sequenze di una storia inventata giustapposte ad immagini documentarie mai viste prima, recuperate dagli archivi della Danish Broadcasting Corporation (DR): immagini di tedeschi e di traditori danesi che vengono inseguiti per le strade, derisi e picchiati – nel complesso, immagini che non si possono creare, poiché hanno qualcosa di vero(40). Un doppio binario narrativo che ricorrerà sovente nei film del regista danese che ha come unità fondamentale l’immagine, la cui locuzione è ricorrente persino nel titolo dell’opera. La spinta propulsiva del giovane von Trier, insieme ai suoi fidi collaboratori, era dunque di creare delle immagini e delle atmosfere che vivessero di vita propria: è il von Trier manierista del primo periodo. L’effetto visivo è ricercato ed elevato a tal punto che lo stesso diviene il punto focale del film, attraverso l’utilizzo di una tecnica impeccabile per dire alla gente una storia che non vogliono sentirsi dire(41). In questo, spiegò lo stesso regista, è normale che si creino dei parallelismi con i grandi maestri creatori di immagini, ad esempio Tarkovskij o Bertolucci, con la precisazione che gli stessi non possono essere plagiati: Quando si approfondisce un tema e si cercano le immagini da utilizzare, si verificano alcuni parallelismi, come quando il fuoco e l’acqua si incontrano. È un’idea classica. Crea un’immagine, un’atmosfera, una tensione, eccetera, eccetera. Così, creo alcune immagini parallele a quelle di Tarkovskij, ma anche a quelle di altri vecchi creatori di immagini. È una vecchia verità, vedi, che questi elementi creano un’immagine(42). Ricerca di immagini ‘vere’; immagini d’effetto – che la rappresentazione degli sconfitti e dei perdenti permette di raggiungere meglio: Il male riguarda molto di più l’aspetto visivo, mentre il bene non ha affatto buone immagini(43). Immagini di una liberazione finisce nel modo in cui inizia, in un cerchio narrativo che è ancora solidamente legato alla drammaturgia tradizionale(44), irrorato da ciò che von Trier considerava elemento fondamentale di ogni film: La passione è il sangue vitale del cinema e il cinema dovrebbe sempre nutrirsi di una qualche passione(45). Schierato, quindi, contro le opere e l’intero paese danesi, noiosi e insipidi per la paura verso il fascino ed il miracolo: la paura per gli effetti, che vedeva imperante attorno a sé.

    Il successo a Cannes e la trilogia Europa

    Anche il successo arriva molto presto.

    Cannes: per Lars von Trier è stato trionfo e scandalo. È lì che il mondo ha conosciuto il regista; lì che le sue opere hanno avuto il primo accesso agli altri. Non tutte; Il regno fu presentato a Venezia(46), ivi incluso Il regno Exodus. Per le altre maggiori sue opere è stato così: L’elemento del crimine (Forbrydelsens element, 1984), Epidemic (1987), Europa (1991), Le onde del destino (1996), Gli idioti (Idioterne, 1998), Dancer in the Dark (2000), Dogville (2003), Manderlay (2005), Antichrist (2009), Melancholia (2011), La casa di Jack (2018). Mancano in sostanza Il grande capo (2006) e Nymphomaniac (2013). Non che l’interesse per Lars von Trier sia riducibile alla sola nazione francese; sarebbe un errore pensarlo. È pur vero che, per i pochi giorni in totale trascorsi nella cittadina costiera – per Le onde del destino neanche riuscì ad arrivarci per via della sua fobia di viaggiare(47) – , la sua reputazione lì, sulle coste meridionali di Francia, costituisce il nucleo dell’intero mito di Lars von Trier come la maggior parte del mondo lo conosce. In particolare la Francia ha, dunque, deciso di prendere in considerazione le opere di von Trier, soprattutto i parigini: La Revue du Cinéma e Positif fin da subito hanno mostrato grande interesse per il regista danese(48). Dalla vittoria della Palma d’Oro con Dancer in the Dark – oscurata dai pettegolezzi sul conflitto fra il regista e Björk – fino ad arrivare allo scandalo del 2011 per le parole su Hitler durante la conferenza stampa per Melancholia e il conseguente status di persona non grata con il quale venne bandito dal Festival per 7 anni; infine, il ritorno con La casa di Jack, che fece allontanare dalla sala molti critici e spettatori incapaci di vedere il film fino alla fine.

    L’elemento del crimine, 1984(49), primo lungometraggio del regista come già precisato, viene presentato in concorso al 37º Festival della cittadina francese, vincendo il Grand Prix tecnico(50). Oltre ai già citati Gislason ed Elling, fondamentale è stata la collaborazione con Niels Vørsel, che ha coscritto la sceneggiatura(51). L’opera è considerata film neo-noir sperimentale: sperimentale è aggettivo che potrebbe addirsi all’intera produzione di von Trier, pur non volendo risultare riduttivi.

    Quando era giovane, chiarisce von Trier, rimase affascinato da David Bowie. Station to Station era il suo album preferito. Lo vide in tre concerti quando andò in Danimarca e ascoltò i suoi album più e più volte, ipnotizzato dalla fluida reinvenzione del suo personaggio: "Tutti gli artisti hanno il loro tempo. Quando Bowie era al suo apice, sviluppava ogni album a partire da quello successivo. Con i registi, come Dreyer per esempio, c’è un tipo di sviluppo simile, il che significa che poteva, in un lungo arco di tempo, fare film molto interessanti. Si potrebbe dire lo stesso di Kubrick. Con riferimento a me, sto cercando di fare lo stesso, nel senso che non farò mai lo stesso film. È un grosso problema, dal punto di vista commerciale, ovviamente. Dopo aver fatto un film come Gli idioti, che è per un pubblico molto più ristretto, non è facile finanziare un grande film come Dancer in the Dark, perché dopo Le onde del destino, tutti vogliono vedere ‘Le onde del destino II’, fatto come film successivo. Ma io non posso e non voglio farlo. Perché voglio andare avanti. Ed è per questo che è importante per me fare un film come Gli idioti ogni tanto. E se alla gente non piace... non me ne può fregare di meno"(52).

    L’elemento del crimine è esempio magistrale della tecnica barocca del von Trier del primo periodo, caratterizzata da trame opache, voci fuori campo autocoscienti e manipolazioni insolite di suoni e immagini(53). Le scene iniziali del film sono sfocate visioni di un Cairo (i.e. viaggio verso il sud) immerso come nei sogni, e di un cavallo che si contorce e si arrampica su uno spiovente: Il primo film di fronte al quale ho pianto è stato quello sul piccolo ragazzo che riceve un piccolo pony selvaggio e alla fine deve dirgli addio – e mentre il cavallo si allontana verso l’orizzonte, si volta e gli dà un ultimo sguardo d’addio prima che continui ad andare oltre. Era molto potente! Non ricordo il nome della storia, ma penso abbia avuto diverse varianti. Funziona ogni volta, perché è anche una storia a proposito del dover dire addio alla tua infanzia e addentrarti nell’ignoto […] Forse, è tutto un tornare indietro allo sguardo ipnotizzante del cavallo nel film della mia infanzia(54). Le scene del Cairo anche in questo caso sono recuperate da reperti documentaristici in 8mm realizzati, tra gli altri, da un architetto e da un pittore, poi ingrandite in 35mm. Perché Il Cairo? Avevamo bisogno di un protagonista principale che tornasse in Europa. Il film è sull’Europa, un’Europa che è per metà sott’acqua e doveva tornare a casa da un luogo che non fosse l’America – non volevo che l’America entrasse nella storia – e per questo abbiamo scelto Il Cairo(55). Sotto gli influssi di Kafka e Borges, in contesti ambientali e narrativi non poi così differenti da L’infernale Quinlan (Touch of Evil) di Orson Welles (1958)(56), il protagonista è un detective inglese di nome Fisher (Michael Elphick) che vive appunto a Il Cairo e si rivolge ad uno psicanalista (un uomo sovrappeso con sulla spalla una scimmia, interpretato da Ahmed El Shenawai) per liberarsi del suo mal di testa persistente. Si sottopone ad ipnosi, nell’afa africana, e nel viaggio mentale approda in un’Europa distopica

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