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Osamu Dezaki Il richiamo del vento
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E-book443 pagine6 ore

Osamu Dezaki Il richiamo del vento

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Saggi - saggio (399 pagine) - Osamu Dezaki è un artista rivoluzionario e intransigente, che ha attraversato mezzo secolo di storia degli anime con la spavalderia e la tenacia di un pioniere. Questo libro, il primo in Occidente a occuparsi di lui, ripercorre la sua vita di artista indagandone il mestiere, le ossessioni e un’arte del disegno guidata da folgorante passione.


In un giorno d’estate del 1963 un giovane con la passione dei fumetti si presenta a Fujimidai, Tōkyō, dove risiede il suo idolo Osamu Tezuka. È lì per un colloquio di lavoro, dopo aver appreso dal giornale che Mushi Production, lo studio di Tezuka, è alla ricerca di disegnatori. Lui si chiama Osamu Dezaki, ha vent’anni, un sorriso stampato sul volto e la sigaretta sempre fra le labbra. Sogna di diventare assistente di Tezuka e creare fumetti. Superato il colloquio, viene però spedito nel reparto animazione dello studio, dove si sta realizzando un cartoon epocale: Astro Boy. In un batter d’occhio, il giovane Dezaki si innamora del mestiere di animatore. Ancora non sa che, di lì a poco, diventerà uno dei più popolari e apprezzati animatori e registi del cinema animato giapponese.

La cover è di Giorgio Finamore.


Mario A. Rumor ha scritto di cinema e televisione per Il Mucchio, Empire Italia, Lettera43, Just Cinema e numerose altre riviste italiane e inglesi tra cui Protoculture Addicts, TelefilmMagazine, Retro, Widescreen, DVD World, Man Ga!, Scuola di Fumetto e Leggere: Tutti. Con Weird Book ha pubblicato Un cuore grande così. Il cinema di animazione di Isao Takahata (2019, seconda edizione) ed è autore dei libri Tōei Animation. I primi passi del cinema animato giapponese (Cartoon Club, 2012), Created By. Il nuovo impero americano delle Serie Tv (Tunué, 2005) e Come bambole. Il fumetto giapponese per ragazze (Tunué, 2005). Vincitore nel 2015 del Premio Letterario Nazionale “Trichiana Paese del libro” e del premio speciale Casse Rurali Valli di Primiero e Vanoi nell’ambito del prestigioso premio letterario “Grenzen-Frontiere”.

LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2019
ISBN9788825410433
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    Anteprima del libro

    Osamu Dezaki Il richiamo del vento - Mario A. Rumor

    Grenzen-Frontiere.

    Lasciarsi travolgere dal vento

    Ovviamente è un sublime pretesto. Il vento, intendo. In quanto, per esistere, questo libro dovrebbe almeno dotarsi di un sottotitolo d’emergenza, celato alla vista ma non al buon senso; un secondo sottotitolo che potrebbe allungarsi oltre il consentito: Il richiamo del vento, ovvero riflessione su una singolarità delle serie animate giapponesi. Il caso Osamu Dezaki. Capirete che un sottotitolo tanto superbo farebbe a botte con la parsimonia poetica del titolo in copertina. Si negherebbe al grande pubblico appassionatosi alle storie raccontate su piccolo e grande schermo dal regista Osamu Dezaki, per eccesso di zelo. Eppure non siamo lontani dalla verità: per scrivere di Dezaki occorre cercargli una destinazione, un punto di avvio e (forse) una coda. Per parlare di un artista importante per la storia del cinema animato come lui, è necessario architettare stratagemmi e approfittare della vastità del panorama dei disegni animati nipponici. Anzi, natura (degli anime) vuole che proprio egli sia stato il candidato ideale per rappresentare una categoria che vale per tre: quella dei discepoli del dio dei manga Osamu Tezuka (e questo è l’avvio); quella dei registi televisivi miracolosamente scampati a un solo genere narrativo di appartenenza; e quella dei cineasti, un tempo fedeli alla professione come i colleghi e amici di avventure Gisaburō Sugii e Rintarō, ma oggi autori dei giorni feriali. Si parla al passato perché da qualche tempo Osamu Dezaki non è più fra noi: stroncato nel 2011 da un male incurabile (e questa è sicuramente la coda).

    Dezaki è stato un regista il cui potere creativo era tutto racchiuso nel legame appassionato, litigioso e indivisibile con tre persone: il character designer Akio Sugino, il direttore della fotografia Hirokata Takahashi e il direttore dei fondali Shichirō Kobayashi. La materia narrativa di cui erano imbevuti i suoi lavori è sempre a disposizione: i fumetti del maestro Tezuka o quelli di gente che sembrava nata per stuzzicare la sua vis drammatica, Takao Saitō e Buichi Terasawa. Ci sono i grandi romanzieri, da Hector Malot a Herman Melville. Ma non tutto è serio come sembra. Il senso dell’umorismo a Dezaki, per esempio, non è mai mancato. Se la nostalgia diventasse strumento di appostamento strategico e si rialzasse il sipario su alcune vecchie glorie televisive degli anni Settanta prodotte da Tōkyō Movie Shinsha, Gyatrus o Hazedon parlerebbero in sua vece.

    C’è poi la questione della riconoscibilità. Circostanza che si deve in gran parte ai fedeli collaboratori menzionati. È vero che talvolta si è corso il rischio di confonderlo con il fratello maggiore Satoshi: ma lì è colpa sia di Wikipedia, e perfino di Japanese Movie Data Base, sia dell’incidentale frequentazione di uno stesso studio, Magic Bus, che Dezaki contribuì a fondare assieme al fratellone. Se capitava che entrambi facessero uso dell’abilità di Sugino, allora era fatta: saltavano fuori film come Juuichin Iru! (Siamo in undici, 1986), e non si sapeva più a chi attribuirne la paternità cinematografica (ve lo dico io: è di Satoshi). Di certo, l’Osamu Dezaki che interessa queste pagine è stato un regista che non si è azzardato a tradire il suo stile di una virgola, neppure quello maturato dopo il 1988, anno degli original animation video di Jenny Jenny (sequel della serie classica Jenny la tennista). Magari lo avrete pure visto retrocedere, negli ultimi anni, in zone dell’animazione per lui fuori luogo (AIR e Clannad: tu quoque Osamu!), eppure la grande bellezza della vita come valore assoluto non si è mai assottigliata, diventando sfacciato manifesto di un particolare modo di pensare e fare animazione.

    Poi c’è il vento. Quello del titolo di questo libro. Se Miyazaki è famoso per gli oceani di nuvole che affollano i suoi film, Dezaki si è lasciato trasportare dai capricci di folate improvvise, di soffi prepotenti, usati con impeto drammatico e arguzia sentimentale: cosa c’è di più emozionante di una madre che abbraccia il figlioletto ritrovato mentre il vento scompiglia le loro impeccabili capigliature? Impareremo presto che sulla scena animata di Dezaki il vento si è scontrato con i volti dei personaggi, li ha tormentati in situazioni per loro già disperate, li ha accompagnati a nuove destinazioni. Un elemento della Natura paradossalmente personaggio esso stesso, invisibile e indefinibile: da dove proverrà, verso dove condurrà? Esperienza sensoriale per interposta persona, perché un po’ quel vento lo sentivamo soffiare sulla nostra faccia di spettatori. Metafora di cambiamenti (pensiamo alla Rivoluzione Francese che scuote gli ultimi episodi di Lady Oscar), da cavalcare con l’incertezza di ritrovare intatto un intero mondo di conoscenza e sentimento, speranze e timori, angosce e illusioni.

    E ancora: c’è il Dezaki icona di un mondo dell’animazione classico e conservatore. La vera star degli anime, prima che Miyazaki (pardon: Shun Miyazaki, se diamo retta alle primordiali traduzioni del suo nome in Italia) diventasse qualcuno. Una celebrità della regia al livello di Yoshinobu Nishizaki, colui che aveva dato fuoco alle polveri con l’anime boom grazie a Corazzata Spaziale Yamato nel 1974; o di Yoshiyuki Tomino, a torto soltanto associato al franchise di Gundam, o dello stesso Osamu Tezuka, fino al giorno della morte considerato il grande eroe della scena animata nazionale.

    Basta prestare attenzione alla copertura sulle principali riviste specializzate dell’epoca. Fin dalla fondazione nel 1978, il mensile Animage ha trattato Osamu Dezaki come un regista di riguardo: conquistò tre copertine, più quella dedicata a Marco Polo no Bōken (ma soltanto perché uscito da Madhouse, lo studio che il regista aveva aiutato a creare). E ancora: tante le pagine occupate sulle fanzine (Fantōche, nel 1977) e altri mensili di intrattenimento quali Animec, che lo intervistò più volte, The Anime e Out. Poi, nella seconda metà degli anni Ottanta improvvisamente il suo nome viene oscurato da Miyazaki o da giovani otaku in cerca di approvazione nel mondo dell’animazione. Per quindi farvi ritorno, di nuovo sulle pagine di Animage, in una serie di approfondimenti tematici nei primissimi anni Zero. Un riconoscimento definitivo grazie alla parola leggenda (densetsu), che gli venne accordata attraverso le parole di colleghi e amici, tra cui Rintarō. Non sorprende che Newtype gli abbia negato la copertina. Sia per ragioni temporali (la rivista nasce nel 1985, epoca di un mezzo oblio per il regista), sia perché al pubblico di otaku, Osamu Dezaki deve essere apparso l’anticristo del loro credo: il vecchio regime che non cedeva alle lusinghe dell’effimero o della mania compulsiva riprodotta in animazione.

    Alla solennità spirituale del maestro degli anime fa capo la praticità dei giapponesi quando si dilettano a coniare appropriate definizioni di stima. Una definizione nella quale Dezaki non è stato lasciato solo, ma tenuto vicino all’amico Akio Sugino. I due furono ribattezzati Golden Konbi, coppia d’oro ma anche combinazione vincente dell’industria animata giapponese, all’interno della quale uno non poteva funzionare senza l’intervento dell’altro.

    Restano infine i riconoscimenti postumi. Fa impressione ritrovare il nome di Dezaki, il nome di un defunto, tra i premiati del Tōkyō International Anime Fair 2012 accanto ad altri veterani dell’animazione: Akio Sugino, Haruya Yamazaki, Ippei Kuri, Michiaki Watanabe, Mitsuki Nakamura. Un premio di merito, il Tōkyō Anime Award, assegnato per celebrare l’attività di un grande artigiano e regista. Meglio delle parole fece la mostra espositiva riservata a ciascun premiato: di Dezaki sopravvivevano gli inseparabili occhiali da sole, vecchi storyboard, pagine di fumetti disegnati da giovane. Ci fosse stata la sua voce fuori campo, avrebbe ripetuto qualcosa di molto simile, a mo’ di commiato: «Il mestiere di un regista consiste nel dare valore alle competenze di una squadra di lavoro. E gli animatori hanno sempre preso le mie direttive come una vera sfida».

    Lo disse davvero, spiegando in cosa consisteva il lavoro che svolgeva. Molto giapponese (il lavoro di squadra, la sfida); diretto e umile, com’era lui. Disse anche molto altro, in vita. Di una cosa in particolare non abbiamo ancora trovato traccia: il momento preciso in cui ammise la gioia di essere diventato animatore e non l’ennesimo fumettista, affascinato dai manga del signor Osamu Tezuka.

    Ottobre 2012 – Aprile 2017

    Capitolo 1

    Inizio

    Nel quale un popolare disegnatore di fumetti di nome Osamu Tezuka s’inventa la televisione a cartoni animati, fonda un piccolo impero cambiando per sempre il destino del cinema animato giapponese.

    Non è che non ci avesse provato e riprovato. Osamu Tezuka e l’animazione sono stati un binomio ossessivo e invitante già ai tempi in cui il padre introdusse il futuro modernizzatore del fumetto giapponese ai piaceri del cinema in casa grazie al proiettore Pathè Baby da 9,5 millimetri ricevuto in dono. Che tra i beniamini del momento proiettati sulla parete del soggiorno poteva vantare nientemeno che Mickey Mouse, protagonista del corto Mickey no Toshin Reisha (Mickey’s Choo Choo, 1929). Una passione non così esclusiva come potrebbe sembrare: tutto il mondo del cinema affascinava il giovane Tezuka. Avrebbe assecondato il desiderio di diventare regista se non si fosse intromessa a un certo punto la guerra.

    Quando il topo disneyano non era di turno a dare spettacolo, il piccolo Osamu andava in cerca di nuove emozioni frequentando la locale sala cinematografica a Ōsaka. Sarà estremamente facile per lui affezionarsi ad altri personaggi della fantasia: uno di questi era lo scimmiotto Sukong del film animato cinese Tessen Konshu (1941) diretto dai fratelli Lai-Ming, che in quel periodo spiccava per originalità e godeva di un discreto successo. Adattamento di una celebre fiaba orientale, in seguito Tezuka ne avrebbe disegnato una sua versione a fumetti, Son Gokū (1952), per poi sceneggiarla al cinema nel film di Tōei Dōga Le tredici fatiche di Ercolino (Saiyuki, 1960).

    Il confine tra passione e divertimento è, come si suol dire, labile. Ci teneva il piccolo Tezuka a fare bella mostra di sè grazie alla particolare destrezza nel disegno, soprattutto se c’era da stupire il selezionato pubblico di compagni di scuola o, meglio ancora, impressionare la madre che nel figlio maggiore aveva scorto un talento non comune. All’interno di quel gioco che faceva nel sembrare uno specialista del fumetto, erano contenuti nell’ordine: la sua infanzia in parte spensierata, in parte ligia al dovere; la passione della madre per la musica e il teatro; lo sfogo compulsivo dell’immaginazione messa sotto sforzo già alla tenera età di cinque anni, quando egli mise nero su bianco un primordiale fumetto; gli spettacoli di kamishibai¹ annunciati dal teatrante di turno per le vie del suo quartiere e allettati dall’apparizione di tante caramelle e dolcetti. Più avanti Tezuka osò fare come i pionieri dell’animazione giapponese, addirittura tentando di riprodurre su semplici fogli da disegno la scena preferita del film con l’adorato Sukong.

    Bisogna accettare il fatto che Tezuka è stato eccezionale fin da ragazzino. Adorava leggere molto, la famiglia era colta e benestante e lo stimolava di continuo, e così pure l’ambiente scolastico, cosa più unica che rara, nella persona del signor Hideo Inui, maestro di quarta elementare. Aveva il pregio, il giovane Osamu, di deliziare generosamente tutti, anche quando le fantasticherie che riferiva o il suo aspetto – occhiali vistosi, capigliatura rigogliosa e ricciuta – lo rendevano il bersaglio privilegiato dei bulletti. Va specificato inoltre come alcuni compagni d’avventura li avesse cercati non lontano da casa: c’era per esempio quel piccolo esercito di insetti dai quali non si separava mai, catturati a scopo scientifico per riprodurne la livrea nei suoi quaderni. Altri amici li individuò leggendo fumetti (non importa di quale nazionalità), passatempo che divideva con il padre. Nel mucchio possiamo contare parecchie vecchie conoscenze di noi occidentali (Popeye), ma i volti più noti restavano giapponesi, come Norakuro di Suihō Tagawa o Fukuchan di Ryūichi Yokoyama. Leggere e disegnare furono pertanto l’anticamera alla professione che, inattesa e tanto agognata, sbocciò nel 1944 con la pubblicazione di Machan no Nikkichō (Il diario di Machan), un successo editoriale senza precedenti che procurò allo studente di medicina Osamu Tezuka il primo lascia condotto per il mondo del professionismo.

    La magia definitiva si palesò in un cinema di Ōsaka nel 1945, quando il Giappone era ormai un impero sconfitto e allo stremo. È l’anno in cui Tezuka fece la conoscenza di una vecchia gloria dei bambini, Momotarō, nella sua ultima apparizione su grande schermo nel lungometraggio di animazione Momotarō Umi no Shinpei (Momotarō, il divino guerriero dei mari, 1945), che l’indomito regista Seo Mitsuyo era stato in grado di completare a dispetto dei bombardamenti, di uno staff ridotto e dei pochi soldi in cassa.

    La pellicola era soprattutto l’ultimo vessillo della sudditanza dell’arte e dello spettacolo al Ministero della Marina, fino a quel momento mecenate esclusivo nell’intrattenimento per i giovinetti e le famiglie in un disperato tentativo di mantenere viva la propaganda contro il diavolo americano. Tezuka, della propaganda, se ne infischiava beatamente; era rimasto più che altro colpito e commosso sino alle lacrime dal lavoro di Mitsuyo e probabilmente fu uno dei pochi ad amare quel film. Al tempo stesso, però, si domandava come poter fare meglio di così.

    Di questo suo candore da appassionato si avvantaggiò il cinema di Walt Disney riemerso dall’embargo deciso dalle autorità giapponesi durante la guerra, quando finalmente i lungometraggi più famosi dello studio americano tornarono a ripopolare ed entusiasmare le platee nel 1951. Bambi e Biancaneve e i sette nani segnarono un record personale nella vita del disegnatore, se è vero che li vide quasi un centinaio di volte ciascuno.² E questa è, solitamente, la parte di storia che soddisfa tutti coloro che nella sua opera cercano riscontri concreti, progeniture e influenze specifiche nei primi cruciali anni di investitura fumettistica. In altre parole, la parte di biografia artistica che sancisce la nascita del fumetto giapponese moderno.

    Se Osamu Tezuka è colui che ha reso moderno il fumetto giapponese, ciò va interpretato anche alla luce di una dieta ipercalorica di cinema che si tradusse sulla carta in vignette disegnate con impronta narrativa più smaccata: una tecnica conosciuta come story manga. Un’impronta che si distanziava dalla modestia espressiva dei maestri del disegno di prima della guerra, fornendo una visione innovativa e rivoluzionaria dell’estetica dei manga. Lo stile del Tezuka fumettista, un attimo prima del grandioso successo che trasformerà il suo Shin Takarajima (La nuova isola del tesoro, 1947, pubblicato da un editore di Ōsaka, Ikui Shuppan, come akahon manga) in altro bestseller da 400 mila copie e lui in celebrità, doveva tutto a un impulso ispiratore disneyano. Un impulso che sprigionò energia creativa mai ravvisata prima, all’insegna di storie non più autoconclusive ma con nuovo imprinting: episodi che si allacciavano l’uno all’altro, vicende sempre più complesse da raccontare, un numero considerevole di personaggi in scena.

    La serialità a fumetti come la conosciamo oggi nacque dunque con l’Osamu Tezuka dei primi anni Cinquanta: un giovanotto capace di disegnare settimanalmente decine di tavole, e per numerosi editori. Due volte infaticabile: Tezuka non s’accontentò di raccogliere in volume i suoi manga, li ripubblicò in edizioni perfezionate e revisionate, migliorandone l’aspetto e affinando il suo inconfondibile stile di disegno (un esempio: La Principessa Zaffiro). Ma la parte importante deve ancora arrivare. Una parte in cui Tezuka applicò un modo informale di rapportarsi con gli altri. Si circondò presto di amici, appassionati adulatori, colleghi e assistenti: conobbe il futuro inventore del gekiga Yoshihiro Tatsumi, appena quindicenne, a un incontro organizzato dalla scuola del ragazzo; l’animatore Sadao Tsukioka fu per lungo tempo suo amico di penna e venne invitato a Tōkyō a fargli da assistente. (Tempo dopo Tezuka lo spedì in missione esplorativa alla Tōei, assieme a Shōtarō Ishinomori, altro suo assistente ai tempi del fumetto Astro Boy: nessuno dei due fece ritorno. Il primo divenne colonna portante dello studio, il secondo si impose come fumettista e i suoi manga diventarono concorrenziali storie per cinema e televisione.)

    Quando disegnare fumetti sembrò non bastare più, l’antica passione per il cinema animato si rifece viva facendogli pensare che il personale successo come fumettista avrebbe fornito credenziali sufficienti per mettere piede nel nuovo mondo dell’animazione. Un pensiero che in passato lo aveva già tradito in un’occasione: un paio di anni dopo la guerra, infatti, Tezuka aveva cercato lavoro presso lo studio di un pioniere, Iwao Ashida, il quale per tutta risposta non lo assunse, a causa della sua crescente popolarità nel fumetto, sia perché l’artista non lo riteneva ancora maturo per quel mestiere.

    Il nuovo mondo dell’animazione, alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, in realtà portava il nome di Tōei Dōga: lo studio di animazione fondato sulle ceneri di Nihon Eiga Dōgasha che i veterani Sanae Yamamoto e Kenzō Masaoka avevano disperatamente tentato di tenere in vita alla fine della guerra, per rilanciare il cinema giapponese. Quando Tōei Company e il signor Hiroshi Ōkawa, straordinario uomo d’affari, garantirono per esso sborsando qualche milione di yen, lo studio era minuscolo, sprovvisto di attrezzature adeguate e senza disegnatori professionisti, ma coltivava l’ambizione di proporsi come punto di riferimento produttivo in tutta l’Asia, non solo in Giappone. Il proposito era di diventare addirittura concorrenziale con la stessa Disney. In pochi anni il produttore Ōkawa riuscì in effetti a concretizzare qualcosa di quel sogno e, in considerazione dell’immensa fama di fumettista, offrì a Tezuka la tanto agognata opportunità di entrare nel settore dalla porta principale, proprio quando il disegnatore era in cerca di una moglie, quindi di un posto fisso dove accasarsi e fondare il suo studio.³

    Il momento è più cruciale di quanto si creda, e ricco di coincidenze. Eccone una: nel 1958 Tōei lo invitò a scrivere la sceneggiatura del lungometraggio Le tredici fatiche di Ercolino, dal suo fumetto Son Gokū; fumetto che il disegnatore sognava in realtà di trasporre in animazione per conto proprio e di cui aveva già preparato del materiale. Per la verità si era fatto aiutare da Sadao Tsukioka nell’ideazione dei personaggi e negli ekonte per mancanza di tempo. Assunto in veste di dipendente a contratto, Tezuka colse l’occasione per imparare i segreti dell’animazione ma ben presto mantenne fede alla fama di autore irrequieto e immensamente affaccendato che si era costruito, innervosendo lo staff di Ercolino a causa dei troppi ritardi. L’impatto con l’amato cinema animato non deve essere apparso come se lo figurava. I suoi storyboard furono ritoccati dalle mani più esperte di Tōei, e le scene comiche ritenute troppo simili al fumetto, quindi superflue, furono eliminate. Nel complesso, le sue idee per il film, all’interno del quale apparivano più figure femminili di quante ne ricordasse, non riuscirono a vincere la diffidenza del gruppo di autori e sfidavano la forza di gravità finendo periodicamente nel cestino dei disegnatori. Dirà: «Più intervenivano nell’animazione persone e tecnici differenti, più essa perdeva di personalità».⁴ D’altro canto, Ōkawa e soci miravano al pubblico infantile da incantare con film pieni zeppi di danze e musichette, non potevano certo consentire l’inserimento di temi estranei a quel target, come invece inizialmente postulato da Tezuka.⁵ In compenso il traditore Sadao Tsukioka si divertì un sacco a lavorare al film, ricevendo da Tōei carta bianca sulla realizzazione di scene e animazioni.

    Come se nulla fosse in realtà accaduto, Tezuka continuò a disegnare i suoi fumetti in dosi massicce (non uno, ma parecchi alla volta) e nonostante tutte le beghe, i conflitti e le incomprensioni con lo studio si impegnò a collaborare ancora ai lungometraggi Le meravigliose avventure di Sinbad (Arabian Night: Sinbad no Bōken, 1962) e Wan Wan Chushingura (Bau bau 47 rōnin, 1963), che i fedelissimi dell’animazione nipponica sanno essere il film di debutto da intercalatore di un certo Hayao Miyazaki.

    Quando Tezuka comprese che Tōei non avrebbe mai assecondato i suoi propositi artistici nel cinema animato, decise di mettersi in proprio. Stare al gioco dello studio per un periodo limitato gli aveva permesso di imparare da vicino i trucchi del mestiere, assimilando il professionismo di animatori straordinari quali Taiji Yabushita, Akira Daikuhara, Yasuji Mori e responsabili di produzione come Daisuke Shirakawa che lo aveva seguito nelle fasi progettuali di Saiyuki, e di individuare al contempo i disegnatori più talentuosi da scippare alla società. Tra le prime scelte figurava un’animatrice di nome Kazuko Nakamura, a cui seguiranno Rintarō e Gisaburō Sugii: due dei futuri discepoli assieme a Osamu Dezaki.

    La fondazione di Mushi Production nei primi anni Sessanta fu quasi una benedizione per il suo vorace ego: avvenne in parallelo alla realizzazione del cortometraggio Aru Machikado no Monogatari (Racconti di un angolo di strada, 1962), ciò che Tōei gli aveva in pratica negato di fare. E fu un paradossale preambolo alla nascita di Astro Boy, considerato che la storia imprenditoriale di Tezuka raccontava di un uomo entusiasta, con la testa straripante di idee geniali, ma ancora inesperto sotto il profilo pratico. La sua guida spirituale restava ovviamente Walt Disney, ma senza i soldi di Walt Disney: a cavallo degli anni Sessanta in Giappone era impensabile produrre lavori animati con i costi di un cartone animato americano. Il suo sogno di fare animazione era sfavillante quanto quello di Ōkawa, ma con inclinazioni esagerate, folli e inaudite per l’epoca. All’interno di questo sogno c’era anche l’idea di portare il cinema animato in televisione. Gli saranno platealmente complici i personaggi dei suoi fumetti, a partire da Astro Boy. Ma questo, ancora, lui non lo sapeva.

    Quanto seguì nella vita di Tezuka dopo l’esperienza Tōei, fu una successione di date indimenticabili. Nell’agosto del 1960 costruì casa a Fujimidai, a Nerima-ku, in una zona in mezzo alla campagna, che gli faceva da ufficio e studio: quest’ultimo era organizzato su due piani proprio vicino al garage ed era disposto in modo tale che gli assistenti lavorassero al primo piano, mentre il disegnatore occupava il suo atelier al piano superiore. Nel giugno dell’anno seguente fondò la Tezuka Osamu Dōga Production e lo raggiunsero Yūsaku Sakamoto dalla Tōei, Eiichi Yamamoto dallo studio Otogi, Chizuko Watanabe e Yaeko Shindō. In paziente attesa che lo stabile in costruzione, adiacente la casa, fosse ultimato per ospitare la sede ufficiale, nel giardino di casa vicino al laghetto Tezuka fece costruire una casupola in cui aveva sistemato una macchina da presa per l’animazione, memore dei suoi iniziali esperimenti con Ryūichi Yokoyama alla Otogi Production a metà anni Cinquanta.⁶ Osamu Dezaki ricordava che quando arrivò in Mushi nel 1963, l’edificio doveva essere ancora ultimato eppure ospitava già più di cento impiegati. Nel mese di dicembre dello stesso anno lo studio si riorganizzò diventando Mushi Production: arrivarono Shūji Konno, Gisaburō Sugii, Motoaki Ishii e Kazuko Nakamura, tutti da Tōei. Nei primi giorni di vita, Mushi poteva contare soltanto su sei animatori professionisti che svolgevano gran parte del lavoro: Sakamoto e Yamamoto si occuparono del cortometraggio Aru Machikado no Monogatari (pellicola antimilitarista, priva di dialoghi) soprattutto per mostrare di che pasta erano fatti alla Mushi.

    Nel mese di agosto 1962 la decisione di trasformare Astro Boy in serie animata cambiò per sempre le regole e il mondo dell’industria animata nipponica. Contrariamente a quanto si ritiene, l’idea non fu di Tezuka ma di Yūsaku Sakamoto. Quando ancora lavorava in Tōei, l’animatore aveva cercato più volte di convincere la dirigenza a investire sul progetto e di trasformare il beniamino a fumetti dei bambini in personaggio animato da affiancare alle loro pellicole. C’erano validissime ragioni per dare credito a un simile progetto: l’enorme potenziale economico di Astro Boy, la sua struttura narrativa che consentiva di realizzare episodi autoconclusivi e la mancanza in Giappone di un prodotto televisivo a disegni animati realmente per bambini. Una volta diventato collaboratore di Tezuka, non ci mise troppo a riproporre l’idea.

    A settembre iniziarono così a lavorare su un film pilota di appena dieci minuti, a cui Tezuka aggiunse i dialoghi, il sonoro e le musiche. L’occasione per presentare ufficialmente Mushi Production avvenne nel mese di novembre a Ginza, presso lo Yamaha Hall, con la proiezione di Aru Machikado no Monogatari e del film pilota di Astro Boy. Gli andò di lusso. Tezuka se ne tornò a Fujimidai stringendo in mano un accordo stipulato con Fuji Terebi per la messa in onda della serie, e si trovò subito uno sponsor nella società dolciaria Meiji Seika.⁷ Detto così sembra il paradiso, ma in realtà il disegnatore, non brillando negli affari, vendette alla rete televisiva ogni singolo episodio di Astro Boy a un prezzo inferiore del suo effettivo valore (750 mila yen anziché due milioni e mezzo),⁸ ma fece affari d’oro poi (e la Meiji Seika con lui) piazzando l’immagine del piccolo robot ovunque, riviste e ristampe dei fumetti inclusi. Fu insomma il primo a intuire il potenziale economico di manga e anime. Ma com’era solito fare, vittima di eccessiva euforia, promise un intero blocco di cinque episodi completi, di 24 minuti ciascuno, per la messa in onda a partire dal primo gennaio 1963, e per gli animatori di Mushi Production la storia dell’animazione giapponese ebbe ufficialmente inizio con un sovraccarico intollerabile di lavoro. Il quadro era il seguente: orari d’ufficio prolungati, niente ferie e chi rincasava doveva trovare sempre due minuti liberi per rimettersi a disegnare. Inoltre, come ricordava lo stesso Dezaki, lo studio ancora non disponeva di una fotocopiatrice Xerox che permettese ai disegnatori di fotocopiare su acetato i disegni, per risparmiare tempo e denaro.

    Però Astro Boy, rivoluzionario lo era davvero. Dietro suggerimento dell’onnipresente Yūsaku Sakamoto, Tezuka abbassò a otto il numero di disegni al secondo necessari per creare il movimento (Tōei ne usava 12), arrivando così a produrre circa 1200 disegni a episodio.⁹ Ancora troppo pochi per consentire libertà d’azione espressiva, e questo spiega perché la serie possedeva così tante immagini fisse. Tezuka aggirò il problema filosoficamente. Disse: se il movimento dei protagonisti veniva a mancare, allora Astro Boy si sarebbe tramutato in estemporaneo kamishibai, ma se c’erano immagini a sufficienza per esprimere le emozioni dei personaggi si rientrava tout court nel mondo dei disegni animati.¹⁰ Diplomatico e arguto, come suo solito. Non che ci fosse qualcosa di sbagliato in questo: il regista Nagisa Ōshima lo aveva messo in pratica al cinema per primo con una sua versione di Ninja Bugeichō, il fumetto di Sanpei Shirato, che nel kamishibai c’era cresciuto.¹¹ Inoltre, in quei primissimi anni di vita della televisione, il pubblico di casa aveva già notato la somiglianza di alcuni programmi televisivi con il kamishibai¹² senza troppo lamentarsi.

    Tezuka non si lasciò sfuggire l’occasione di occuparsi personalmente del primo episodio di Astro Boy, firmando sceneggiatura, ekonte e regia. Nonostante le premesse e le aspettative, l’umore dei disegnatori – a partire da Gisaburō Sugii, impiegato fin dal primo episodio e regista debuttante all’episodio 6 – non era dei migliori: nessuno in realtà aveva mai lavorato a un progetto simile e non sapeva come produrre 24 minuti di animazione ogni settimana. Non era animēshon, come tentava di spiegare il giovane Sugii ai suoi colleghi ma, e questa era la tradizionale risposta che proveniva da Tezuka, anime. Non solo contrazione del termine coniata dallo stesso Tezuka, ma principalmente un innovativo impegno nel cinema animato che artisticamente doveva tradursi in immaginazione, fantasia e sfrontatezza, soprattutto sotto il profilo pratico (tipo: riuscire a ricreare in appena tre secondi di animazione un’emozione sul volto di Astro Boy). Tezuka lasciò i suoi dipendenti rischiare, poiché egli stesso era un campione nella sperimentazione di nuove tecniche a fumetti. E una simile attitudine deve essere per forza passata a Dezaki. Se è vero, come in effetti scopriremo, che della tecnica e dell’ingegno fece il suo personale cavallo di battaglia.

    Nel corso della realizzazione di Astro Boy, gli animatori dello studio furono divisi in cinque gruppi, ognuno supervisionato da un sakkan (il direttore delle animazioni) e il lavoro doveva essere completato entro cinque settimane: ciò spiega perché Mushi, a un certo punto della sua storia aziendale, divenne noto come Nerima Kantetsu-sho (il castello insonne di Nerima). E ad assicurarsi che tutto procedesse nel rispetto delle tempistiche, Tezuka aveva assunto nel 1964 Ryo Kawai, un giovanotto di Hokkaidō con aspirazioni teatrali, che non possedeva un televisore né aveva mai seguito un episodio della serie, e per di più non sapeva disegnare una sola tavola. Quanto a rigore nel lavoro e nella disciplina, era però imbattibile.

    D’altronde Tezuka è sempre stato un uomo pratico, e molto dinamico: ce lo rivelano per esempio le vignette dell’epoca nelle quali si ritraeva al lavoro, tediato da mille impegni professionali e domestici (cantare la ninna nanna al figlio Macoto appena nato). Inoltre era rapidissimo a realizzare i disegni di intercalazione e avrebbe voluto continuare a seguire da vicino la lavorazione di Astro Boy, non fosse stato per gli assistenti anziani che, non appena lo vedevano gironzolare nella stanza degli animatori per scrutinare ogni passaggio del lavoro, lo rispedivano ai suoi doveri con i fumetti visto che grazie a essi pagava gli stipendi. Tornò a occuparsi della serie soltanto nel 1966, con l’ultimo episodio intitolato Chikyū saidai no bōken (La più grande avventura sulla Terra).

    Fotografato interamente in bianco e nero (a eccezione dell’episodio 56, occasionale esperimento a colori), all’inizio le sceneggiature dell’anime si basavano sugli episodi del fumetto ma, più procedeva la serializzazione, più lo staff di scrittori si vide costretto a inventare di sana pianta nuove storie, soprattutto dopo che i diritti di Astro Boy e Kimba il leone bianco furono venduti agli americani della rete televisiva NBC: una mossa che consentì a Tezuka di disporre di altro capitale e numerosi nuovi grattacapi. Ma almeno diede continuità alle sue produzioni, riuscendo a pagare l’esercito di dipendenti alla Mushi.

    Uno dei più orgogliosi registi della serie, colui che ne realizzò il numero maggiore, fu Yoshiyuki Tomino. Da ragazzo sognava di fare cinema, e in Mushi trovò l’occasione della vita. Il suo ruolo passò da assistente di produzione ad autore degli ekonte, fino alla regia di alcuni episodi. Due in particolare sono finiti nelle cronache: l’episodio numero 84, Iruka Bunmei (29 agosto 1964) famoso per il suo insuperato record di ascolti (40.7 per cento) e Robotto Hyūchā (Robot Future, ep. 96, 28 novembre 1964). Quest’ultimo, in particolare, sembrò gettare le basi dei successivi lavori fantascientifici di Tomino. L’animatore lasciò poi lo studio per insoddisfazione ma quando, alcuni anni più tardi, raggiunse Sunrise, fondata in gran parte da ex dipendenti Mushi, elogiò l’influsso potentissimo che il suo lavoro di kantoku (regista) aveva ricevuto nel periodo trascorso accanto a Tezuka. E accanto a un giovane animatore che ammirava moltissimo: Osamu Dezaki.

    Se Tōei si era dimostrata cautamente gelida nei confronti di Astro Boy quando Sakamoto ne sostenne la candidatura, ora il successo che la serie stava ottenendo fece cambiare parere a parecchia gente. Sull’esempio di Tezuka si mossero tutte le principali compagnie di animazione: da Tōei, che stava tenacemente resistendo in campo cinematografico, allo studio Otogi (Qtarō no obake del ’65) e allo Studio Zero di Shin’ichi Suzuki, entrambi vecchie conoscenze di Tezuka. Ognuno portò una ventata di novità all’interno dell’industria, continuando a saccheggiare storie e personaggi dai fumetti o, come nel caso di Tatsunoko Pro., inventando nuove tipologie di eroi grazie al genio di Tatsuo Yoshida e Ippei Kuri.

    Il sodalizio fra Tezuka e il suo staff cominciò però ben presto a sfaldarsi, a causa della fragilità manageriale, come ebbe a dire al quotidiano Asahi Shinbun l’attuale amministratore delegato di Mushi, Satoshi Ito: con oltre 400 disegnatori da stipendiare ogni mese, e nonostante il successo di Astro Boy, a metà anni Sessanta Mushi aveva raggiunto il sovraccarico e dovette affrontare un buco di oltre 100 milioni di yen.¹³ Al disegnatore non restò che dichiarare bancarotta, e ricominciare altrove. Se oggi Mushi esiste ancora è merito di un manipolo di tenaci e intraprendenti animatori che l’hanno tenuta in vita tra mille complicazioni burocratiche. Nello studio risiede non soltanto un ricettacolo di memorie televisive e cinematografiche, quelle che possiamo designare come la "seconda via dei Tv Manga¹⁴ in parallelo all’esperienza cinematografica di Tōei, ma anche il luogo fisico di provenienza di una generazione di animatori e registi presso cui un giovane Osamu Dezaki aveva iniziato a muovere i primi passi, imparando a diventare qualcosa per l’epoca di totalmente inaspettato: un autore.


    ¹. Letteralmente: teatro di carta. Forma di intrattenimento ispirata dagli emakimono, con origine e diffusione nel dodicesimo secolo. Molto popolare nei primi anni Venti del secolo scorso con il teatrante che si spostava in bicicletta, sopra la quale era collocato un teatrino. L’intrattenimento era frutto di immagini fatte scorrere in successione, con l’interpretazione del cantastorie.

    ². Cfr. Monica Piovan, Osamu Tezuka. L’arte del fumetto giapponese, Musa Edizioni, Mestre, 2006, pp. 14-16.

    ³. Nel fumetto Osamu Tezuka. Una biografia manga realizzato da Tezuka Productions si racconta, anche con toni scanzonati, il costante pellegrinaggio di Tezuka dalla casa dei genitori, in quel di Takarazuka, alla capitale Tōkyō, con il piccolo esercito di editor in attesa di ricevere le tavole disegnate. Nella capitale il disegnatore trovò alloggio in alcune pensioni, nella convinzione di non farsi intercettare dai famelici redattori delle case editrici per cui lavorava, sino al definitivo passaggio all’appartamento chiamato Tokiwasō su invito del settimanale Manga Shōnen. Nello stesso fumetto si legge una sua profetica battuta sul tema del domicilio fisso: «È poco pratico andare avanti e indietro. In futuro mi costruirò una casa vicino alla Tōei Dōga». (Osamu Tezuka. Una biografia manga, vol. 3, p. 24).

    ⁴. Dichiarazione citata in Osamu Tezuka. Una biografia manga, vol. 3, p. 33 e ripresa

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