Mistero Magazine

Il paradosso di GARY GILMORE

«Gilmore scriveva praticamente di tutto. Qui forniva a Nicole una sorta di corso universitario con saggi su Michelangelo e Van Gogh, là c’erano pagine e pagine di discorsi scoperecci» (Norman Mailer). E tuttavia, nelle sue lettere dal braccio della morte all’amata Nicole Barrett, la cosa più emotivamente difficile da digerire sono i luoghi comuni, gli anonimi clichés come «Ti amo», o i semplici «Buongiorno, amore mio»: banali formule di contatto che diventano il significato più importante proprio perché è il tatto il senso a farla da padrone nei momenti in cui si è per forza distanziati, straziati dalla lontananza delle persone che amiamo e che ci amano. Sembra che ci si possa toccare soltanto con delle banalità (come accade ad esempio nelle lettere lasciateci dai kamikaze prima dell’ultimo volo), forse perché esse mimano un linguaggio di relazione, senza parole. Da animali.

E da freddo animale era stato il comportamento di Gilmore nelle sere del 19 e del 20 luglio 1976, quando uccise senza ragione con un colpo alla testa Max Jensen e Bennie Bushnell, nonostante avessero esaudito alla lettera le sue richieste e si fossero stesi a terra come era stato loro ordinato da chi stava per rapinarli: sì, da animale, ma non nel senso semplicemente insultante che di solito viene usato per definire un comportamento criminale che brilli – come quello ricordato – per ferocia e insensatezza; da animale anche nel senso della cavia che è stata sottoposta a un esperimento, sia pure involontario. L’assassino infatti passò la maggior parte della sua vita in riformatori e carceri, con pochi mesi di libertà fra una reclusione e un’altra (otto al massimo), fino a quando, dopo tredici anni di reclusione, venne finalmente espulso dalla costellazione del sistema carcerario americano e mandato nel mondo civile: non si può quasi dire “rimandato” perché molti aspetti di esso

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