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Il colore del mare
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E-book284 pagine4 ore

Il colore del mare

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Thriller - romanzo (228 pagine) - La faccenda stava diventando seria, e Morelli non sapeva cosa aspettarsi, ma faceva l’avvocato e quella che aveva davanti era la figlia di una persona uccisa due giorni prima.


Un industriale con la passione per i quadri di De Chirico viene trovato cadavere nella sua villa. Ingaggiato dalla figlia del magnate, l’avvocato Morelli dovrà indagare districandosi tra opere d’arte e donne, corruzione e denaro, amicizie e vecchi rancori, fino a dipingere il perfetto finale.


Luigi Grilli, nato a Ortona nel 1939, vive in campagna, sulle colline circostanti la città di Pescara. Sposato con due figli, si dedica alla scrittura e al suo hobby preferito, la coltivazione delle rose.

Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza a Bologna nel 1962 è entrato in magistratura nel 1965 e vi è rimasto fino al 2008, quando ho scelto di andare in pensione. In magistratura è stato in servizio come pretore e come giudice presso il tribunale di Pescara. Poi, ha svolto le funzioni di procuratore della Repubblica a Lanciano e, quindi, di sostituto procuratore generale a L’Aquila. Ha concluso la carriera come presidente del tribunale della sua città.

Nel corso degli anni ha pubblicato, con le case editrici Giuffré e Cedam, diciotto volumi di diritto penale, processuale penale e civile. Per Delos Digital pubblica romanzi gialli che traggono origine da vicende che ha vissuto in prima persona.

Nel 2020 è tra i finalisti del premio Tedeschi del Giallo Mondadori.

LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2021
ISBN9788825415322
Il colore del mare

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    Anteprima del libro

    Il colore del mare - Luigi Grilli

    9788825410969

    Personaggi principali

    Antonio Morelli (Totò), avvocato

    Biagio Mosca, sost. Procuratore della Repubblica

    Cetteo Ricci, industriale

    Gloria, moglie di Ricci

    Anacleto, cugino di Cetteo

    Marta Persico, segretaria d’azienda

    Chiricò, artista dilettante

    Il dottor Malerba, funzionario regionale.

    1

    La ragazza con il vestito di cotone

    Faceva caldo in quell’aula del tribunale di Pescara, un gran caldo, ma non se ne poteva andare. Era il suo lavoro. Era pagato per stare lì, a difendere quel giovane nomade che per la seconda volta nel giro di un mese si era fatto arrestare dalla polizia.

    Non era un fatto di cronaca vera, di quelli che portano clienti e titoli sui giornali, ma con moglie e quattro figli non si poteva permettere di scegliere tutti i clienti che avrebbe voluto. E, così, quella mattina l’avvocato Antonio Morelli – che gli amici chiamano da sempre Totò – si trovava lì, in pieno agosto, in quell’aula che sembrava costruita per far sudare la gente. Le pareti di cemento, a vista, aumentavano quel senso di tristezza che l’ambiente di per sé aveva e a nulla serviva qualche raggio di sole che cercava di entrare dalle piccole finestre poste in alto. Perché le avessero collocate in quel modo non riusciva a capirlo e, ogni volta che entrava in una di quelle aule, se lo chiedeva ma senza trovare una risposta che lo soddisfacesse.

    Non se ne sarebbe preoccupato se avesse potuto immaginare che c’era un cadavere che l’aspettava al varco e che gli avrebbe rovinato il resto della settimana. Quel cadavere c’era ed era anche una brutta faccenda!

    Il pubblico ministero aveva fatto una sceneggiata come se si fosse trovato in Corte d’Assise. Morelli non se n’era meravigliato perché lo conosceva da una vita e sapeva che Biagio Mosca amava recitare. Quello aveva avuto buon gioco con tutte le prove in suo favore!

    Lui, difensore di un imputato che aveva anche confessato, era riuscito a mettere insieme le solite chiacchiere sulle condizioni sociali del giovane, la mancanza di lavoro, una famiglia disastrata, ma non aveva carte da giocare e ne era consapevole.

    L’aveva saputo sin dall’inizio ma non aveva potuto rifiutare quella difesa perché il padre del ragazzo era una sua vecchia conoscenza e perché comunque era il suo lavoro. Un penalista che difende solo gli innocenti muore di fame e a Totò Morelli la fame non era mai piaciuta.

    Sapeva che il giudice era una brava persona, che si preoccupava più del caldo e del fatto che doveva affrettarsi per raggiungere i figli al mare che non della causa, e questo gli dava qualche possibilità di farla franca. Non che gli importasse molto di come si sarebbe concluso quel processo, tanto quel disgraziato lo avrebbe tirato fuori dal carcere la settimana dopo, quando sarebbe arrivato il Ferragosto. Certo, gli avrebbe fatto comodo che quel giorno stesso il ragazzo fosse rimandato a casa, perché i parenti avrebbero pagato la parcella subito e senza fare tante storie.

    Nell’attesa che il giudice rientrasse in aula gli venne in mente Milena, sua moglie, che gli rimproverava spesso che si occupava troppo degli zingari, dei drogati, dei disgraziati, e lo spingeva ad avere solo clienti di prestigio o, come diceva lei, di una certa classe. Di questi clienti ne aveva ma le aveva fatto presente che gli altri erano quelli che pagavano meglio e subito, senza fare tante storie perché hanno un rispetto sincero per il proprio avvocato, forse per il motivo che ne hanno bisogno. Spesso.

    Di una cosa era certo: era stanco e non ne poteva più di stare lì fermo, ad aspettare un verdetto che non avrebbe cambiato la vita di nessuno. Di certo non la sua, ma nemmeno quella del ragazzo che era portato per fare il delinquente e lo avrebbe fatto anche in seguito, probabilmente perché nessuno gli aveva insegnato che avrebbe potuto occuparsi d’altro.

    Gli venne la curiosità di vedere chi stesse soffrendo come lui. L’occhio si posò su una ragazza seduta in fondo all’aula. Con una faccina tutta smunta sembrava avere una gran pena, come se avesse un’idea fissa.

    Se ne stava tutta sola.

    Non ebbe l’impressione che facesse parte del clan. Per l’età, poteva anche essere la morosa del suo cliente, ma da come era vestita non ci avrebbe giurato. Oltre tutto – lo notò subito – non aveva quegli orecchini a boccole, d’oro massiccio e corallo, che tanto piacciono alle zingare, specie se giovani, e che farebbero la felicità di qualsiasi donna. Forse era una zingarella integrata, dell’ultima generazione, e questo avrebbe spiegato anche il suo abbigliamento, ma non ci avrebbe giurato… No, non ci avrebbe giurato!

    Non valeva nemmeno la pena di starci troppo a pensare.

    Il brusio cessò di colpo.

    Il giudice rientrò in aula.

    Stando in piedi, con le spalle dritte ed erette come l’angelo vendicatore, avvolto da quella toga nera che lo faceva sudare lesse la decisione, che era alquanto semplice: il suo giovane cliente restava in carcere e ci sarebbe rimasto almeno per sei mesi.

    Addio al saldo della parcella!

    Dopo aver letto la sentenza il giudice si ritirò verso la parte retrostante lo scranno e scomparve dalla vista dei presenti. L’imputato, che fino a quel momento era rimasto seduto accanto a Morelli, venne preso da due agenti della polizia penitenziaria che, senza tanti complimenti, lo portarono via.

    Si liberò della toga e la restituì a Marcello, il commesso del tribunale, che arrotondava lo stipendio dando in uso ai legali una toga non proprio nuova ma che, per essere nera, mascherava i suoi difetti. Lui, come tanti altri avvocati, aveva la sua in studio e la lasciava lì per non avere il fastidio di portarsela dietro ogni giorno. Era più comodo prenderla in affitto, dando una mancia a Marcello, che era anche una brava persona.

    Gli diede i soliti venti euro e l’altro, forse abituato alla spilorceria dei suoi colleghi, gli rispose con un sorriso: – Grazie, avvocato, grazie. Fossero tutti come lei!

    – Dici?

    – Sì. A volte fanno finta di dimenticarsene e… Lasciamo perdere, tanto non serve a niente! Grazie.

    Il pubblico cominciò a uscire dall’aula vociando, scambiandosi le prime impressioni e cercando conferma di quello che aveva sentito e capito. Non che ci volesse una particolare intelligenza ma i parenti sono sempre restii ad accettare certe decisioni. Per loro l’imputato è sempre innocente anche quando uccide la vecchia col gas.

    Avvoca’, che facciamo? – gli chiese don Antonio Bove, il padre del ragazzo, che comunque era maggiorenne e che non avrebbe dovuto seguire le tradizioni di famiglia.

    – Che facciamo? – gli rispose, facendogli il verso. – Tuo figlio è uno che non sa stare al posto suo, che non si sa regolare, e io che ci posso fare?

    – Mi state a dire che non ci sta di testa? – domandò il vecchio zingaro che, pur con quel caldo, portava il solito panciotto con un orologio nel taschino da far invidia a un antiquario. Era robusto, dalla stazza ampia, con un portamento che da solo incuteva un certo timore e nel suo ambiente un certo rispetto.

    Morelli: – Non ho detto questo, ma ci siamo vicini. Sì, perché ha confessato appena l’hanno preso. A confessare c’è sempre tempo e, se uno non sa rubare, non deve fare il ladro. Io miracoli non ne faccio. Non sono padre Pio, sono solo un avvocato, chiaro? E… – dopo una breve pausa: – Passa questa sera ché ci mettiamo d’accordo per farlo uscire. Non te lo prometto ma cercherò di farlo per Ferragosto.

    Morelli cominciò a mettere in ordine le carte dentro la borsa di cuoio. Era una bella borsa e ne andava fiero.

    Gliel’aveva regalata la moglie appena un mese prima, quando aveva festeggiato i quaranta anni, che non erano molti, ma che cominciavano ad esserci. Cercava di portarla con disinvoltura, in modo che tutti la notassero, perché la figura ci vuole, specie in una città dove ci sono più avvocati che clienti e la gente ci tiene alle apparenze.

    Don Antonio si stava avviando verso l’uscita quando lo richiamò. Avrebbe potuto farne a meno ma doveva farlo perché fossero chiari i loro rapporti: – Saluta, prima di andartene.

    – Scusate, avvoca’, scusate. Avete ragione, ma sono in pena. Il ragazzo non è cretino, come dite voi, ma non è nemmeno un’aquila, come pensa la madre. Io questo lo so. Sto in pena, non per le fesserie che ha fatto ma per quelle che potrebbe fare. Buongiorno, buongiorno.

    La tribù intera si defilò verso l’uscita.

    Dopo aver messo in ordine i documenti e dato tempo ai clienti di allontanarsi con i loro commenti, anche l’avvocato Morelli uscì dall’aula.

    Non fu un atto liberatorio ma si sentì sollevato nel respirare un’aria meno soffocata dal cemento e dai cattivi odori. Con la scusa della toga aveva evitato di mettere la cravatta ma portava la giacca, cosa che faceva solo quando doveva recarsi in udienza. Non gli andava di indossarla ma faceva parte del personaggio e in un certo senso della sua professione. In questo aveva seguito il consiglio di Milena che gli aveva comprato un indumento sul color blu marino in modo che si intonasse ai suoi capelli, scuri, e alla carnagione, non proprio scura ma olivastra.

    Non aveva percorso che qualche metro nel corridoio che dall’aula delle udienze conduce verso l’esterno quando si sentì chiamare: – Scusi, mi scusi tanto, posso?

    Era una voce giovane, un poco nervosa. Senza un motivo preciso sentì che la frase era indirizzata verso di lui.

    Morelli si voltò per un attimo e si accorse che era la ragazza a chiamarlo, quella che aveva notato poco prima in aula.

    Si incuriosì e comunque per educazione si sarebbe fermato egualmente, a parte il fatto che ogni anima che transita per i corridoi di un tribunale può essere un possibile cliente: – Dimmi, che c’è?

    La ragazza gli si avvicinò e distese il braccio porgendogli la mano per il saluto. La strinse.

    Vide per la prima volta i suoi occhi e gli sembrarono carichi di ansia, di timori. Sì, aveva notato giusto: pieni di preoccupazione. Doveva avere dei guai, forse era nei guai.

    Le sorrise.

    Difficile dire perché lo fece: forse perché era gentile per natura, per la sua cordialità, a volte brusca, ma sempre genuina. Cercò di metterla a fuoco, e in questo era bravo, ma fece fatica a darle un’età: forse sedici, forse venti anni, ma no, troppi… forse quindici. Brunetta, con gli occhi verdi, un faccino tutto latte e miele, aveva l’ansia negli occhi. Non gli sembrò la solita drogata che cerca soldi per il tram o per un panino. Senza un motivo particolare Morelli notò subito che non portava i jeans. Indossava un vestito di cotone, sul celeste, con una scollatura niente affatto male.

    – Che ti succede? Hai bisogno di qualcosa?

    L’ansia che la ragazza manifestava o forse la sua gentilezza lo portarono a sorriderle di nuovo, un pochino, lasciando la stretta della sua mano, assai piccola, quasi minuta.

    – Mi scusi, avvocato, vorrei parlarle.

    – Dimmi pure.

    Morelli si avvicinò ancora di più, quasi a farle intendere che si poteva fidare. Si avvicinava, ma non la toccava perché avrebbe potuto equivocare. Le disse con tono cordiale: – Sto andando al bar per prendere qualcosa di fresco. Mi tieni compagnia?

    – No, grazie ma l’accompagno. Vorrei parlarle di un incarico. Ho bisogno di un bravo avvocato.

    Era evidente che cercava di attirare la sua simpatia e gli sembrò ingenua, spaventata più che furba. Bisognava vedere fino a che punto. – Sono qua, dimmi.

    – È una faccenda complicata.

    – Se ti va, andiamo nel mio studio e ne parliamo. Che ne dici? Però, prima fammi prendere una birra perché ho sete, e dico poco.

    – Sì, va bene, è meglio – e si girò, facendo strada.

    La seguì come se fosse stata lei la padrona di casa, eppure avrebbe dovuto essere il contrario perché per lui, che esercitava la professione a Pescara da quasi quindici anni, il tribunale era come una casa. Non ne era convinto ma quasi, a differenza della moglie che, almeno a sentirla quando discutevano, ne aveva la certezza.

    La ragazza avanti, Morelli dietro e a un certo punto ebbe la sensazione che procedessero come se fossero padre e figlia. Lei, minuta e piccolina, lui grande e grosso: alto più della media, con i suoi ottanta chili e passa aveva una muscolatura che si faceva notare, forse per tutto lo sport che aveva praticato da giovane quando, titolare nella squadra di pallanuoto della città, aveva anche vinto un paio di campionati. Da sposato si era ritirato dall’agonismo e propinava agli amici questa motivazione per aver lasciato la squadra anche se a distanza di qualche anno si era convinto che era una bufala perché in realtà qualche atleta più giovane lo aveva scalzato dal podio … ma aveva evitato di ingrassare frequentando una buona palestra.

    Giunti al bar, lei gli si mise accanto e non prese nulla.

    L’avvocato salutò un paio di colleghi, vittime anche essi della giustizia estiva pescarese, e si premurò di pagare il caffè al sostituto della Procura, che li aveva preceduti nel bar.

    Gli disse: – Bella vittoria, complimenti.

    L’altro: – Fossero tutte così le cause! Quello non lo salvava nemmeno il Padreterno, caro Totò.

    Lui e Biagio Mosca – da alcuni anni in servizio a Pescara come sostituto del Procuratore della Repubblica – erano stati compagni di scuola alle medie e di banco al liceo classico. Non occorreva nemmeno che si parlassero tanto si capivano, ciascuno consapevole dei problemi dell’altro e soprattutto convinti della loro amicizia. Totò era felicemente sposato con Milena ed era costei che cercava in continuazione di accasare l’amico di famiglia ma con risultati deludenti: Biagio si guardava bene dal commettere quello che considerava un grave errore.

    – Comunque – replicò Morelli – potevano dargli i domiciliari. Stare in carcere con questo caldo non è salutare.

    – E chi lo tiene quello in casa! Forse sta più fresco al fresco – e Biagio sorrise per la battuta, che tutto sommato era scontata in quel periodo dell’anno e la faceva un giorno sì e l’altro anche.

    Totò non sorrise. C’era un limite a tutto, anche alle battute dell’amico, che era convinto di essere spiritoso e gli amici dovevano stare attenti a non incrementare il suo ego, che era già smisurato di per sé.

    La ragazza con il vestito di cotone era al suo fianco e seguitava a restare in silenzio.

    Morelli per qualche istante se ne dimenticò e, rivolto verso la cameriera, chiese una birra scura, fresca, quasi fredda. Avrebbe potuto farne a meno perché Lea, che lo conosceva da tempo, era già pronta con il boccale.

    Non era mai riuscito a capire come facesse a ricordare i gusti degli avvocati che frequentano il bar del tribunale ma è certo che ci riusciva, almeno per quanto lo riguardava. Si disse che ogni mestiere o professione ha i suoi segreti!

    Il dottor Mosca, rivolto verso la ragazza con un tono cortese, ma non troppo, quasi formale, disse: – Come va?

    Morelli cercò di gestire la sua meraviglia per quel saluto. Non se l’aspettava.

    Si conoscevano, questo gli era evidente.

    Lei all’inizio restò in silenzio, senza rispondere, con la fronte accigliata, come se fosse incazzata dura. Dopo pochi secondi, rispose: – Bene, grazie.

    Se Mosca era stato formale, lei lo aveva battuto di parecchio.

    Biagio si girò per salutare un collega e Totò, profittando di quella pausa e senza saperselo spiegare, ma con decisione, esclamò: – Andiamo perché sto facendo tardi.

    Prima ancora che lei avesse il tempo di rispondere, salutò l’amico con un cenno del capo e di nuovo: – Andiamo, è tardi.

    Giunto nel parcheggio antistante l’edificio – una volta tanto quasi vuoto – la invitò ad andare con lui.

    Gli era sembrata una buona idea per avviare il discorso e conoscerla da vicino ma lei rifiutò perché aveva il motorino e non insistette. La capiva perché anche lui, specie d’estate, quando poteva si serviva della moto Vespa, un poco datata nel tempo e scassata parecchio, ma ancora funzionante. Quella mattina aveva scelto di servirsi della Porche perché l’omino della televisione aveva annunciato che ci sarebbe stato un rovescio di pioggia e, dal momento che gli acquazzoni estivi sono peggio della grandine invernale, aveva fatto quella scelta.

    Arrivato in via delle Caserme borboniche, dove era diretto, vide che lei lo stava aspettando.

    Non se ne meravigliò. Anche quella mattina il traffico era caotico. Lo era sempre, tutto l’anno: d’inverno per via delle scuole e del commercio; d’estate, per i turisti, che scendono a flotte, incuranti dei prezzi, ma affascinati dal mare limpido e pulito.

    Giunto nella zona vecchia – quella dove si trovava lo Studio legale Antonio Morelli – dovette affrontare il problema del parcheggio, una faccenda di difficile soluzione dal momento che era vicino al mercato ortofrutticolo.

    Lui se ne lamentava in continuazione ma non era questo il modo per risolvere il problema che gli si ripresentava praticamente ogni giorno a eccezione di quando arrestavano Camillo, una brava persona che però non riusciva a completare una truffa senza farsi arrestare. Il suo cliente aveva un garage vicino lo studio e quando per la sua buona sorte quello finiva al San Donato gli permetteva di usufruire del suo locale. Non lo faceva per amore o per beneficenza perché Morelli lo difendeva gratis et amore Dei.

    Quella mattina Camillo non era ospite delle patrie galere e Morelli dovette cercare uno spazio dove parcheggiare la Porche.

    Non fu facile e il suo tentativo di occupare quello riservato al carico e scarico delle merci venne bloccato dallo sguardo di una vigilessa che, senza una sola parola, gli fece capire che stava sbagliando.

    Al terzo giro dell’isolato trovò quello che gli occorreva ma aveva perso tempo e per questo si pentì della scelta che aveva fatto: meglio il motorino… ma, ormai era andata così!

    Si avvicinò alla ragazza e le disse: – Seguimi, faccio strada.

    Entrato nella stanza si precipitò a chiudere la finestra per evitare che il caldo annullasse i benefici dell’aria condizionata. Si disse che doveva farlo presente a Giovanni, il segretario tutto fare, che per queste cose era distratto.

    Quando entrava in quello studio l’avvocato Morelli si sentiva realizzato: il locale era bello, non molto spazioso, ma arredato con gusto, anche perché del tutto si era occupata Milena, la moglie. Tutto era predisposto in modo da far ben figurare una scrivania stile ottocento, in massello di noce, solida, da dare l’impressione al cliente, ma anche a lui che ci si sedeva, che si trovava in un ambiente concreto. Sul tavolo una lampada stile anni Trenta fiancheggia un servizio di scrittura di vero cuoio, e i soliti codici che si trovano sui tavoli di tutti gli avvocati, con una sola nota stonata: una serie di matite colorate e penne stilografiche. Gli amici gli avevano fatto notare che la cosa non era di gusto ma, prima di darla vinta agli altri, si sarebbe impiccato.

    Morelli si sedette, spostò la matita rossa dalla destra alla sinistra. No, non ci stava bene, la mise al centro, e guardò la ragazza, che nel frattempo si era seduta anche lei, ma in punta di sedia, come a scattare al primo allarme. Più che angosciata, ora era tesa, almeno così gli appariva e, senza guardarsi attorno, come fanno molti clienti, restava con la fronte corrugata in attesa di vedere come si metteva la faccenda.

    – Ti ascolto, dimmi.

    Le sorrise, cosa che gli riusciva abbastanza bene perché era convinto che un sorriso aiuta ad aprirsi. Agli inizi della professione il suo maestro gli aveva confidato che il cliente, che pure va con le sue gambe in studio, non si fida mai e ci vuole un minimo di apertura, appunto un sorriso. Come amava ripetere agli amici con quel suo dialetto abruzzese, dal quale faceva fatica a liberarsi del tutto, ci vuole un minimo di buona creanza.

    – Sono Caterina.

    – Io sono l’avvocato Morelli, per l’esattezza l’avvocato Antonio Morelli, come avrai letto sulla targa che è all’ingresso. Avrai anche un cognome o sbaglio?

    – Il cognome ce l’ho: Caterina Ricci.

    Non aggiunse altro, forse per vedere la sua reazione, ma non ci fu nessuna reazione, anzi, l’avvocato si appoggiò allo schienale della poltrona e aspettava.

    Anche lei era in attesa, ma mostrava un’ansia notevole e non resse al momento: – Il mio nome non le dice niente?

    – Mi deve dire qualcosa?

    – Certo, non li legge i giornali? – rispose con tono asciutto, non indispettita, ma certamente tesa.

    Non aveva voglia di scherzare, specie con una mocciosa, ma doveva riconoscere che un minimo di curiosità cominciava a venirgli. Tagliò corto: – Ce ne sono tanti e non li posso leggere tutti, specie d’estate. Diciamo: cronaca nazionale o locale? Nera o rosa? Che colore ti piace?

    – Cronaca locale, nera – precisò la ragazza.

    Li leggeva, li leggeva sì, come fa un penalista a non leggere la cronaca locale?

    A quel punto una lampadina si accese, prima piccola, poi più grandicella, grande, poi immensa, un faro da illuminare lo stadio Adriatico, quello dove gioca la squadra di calcio del Pescara.

    – Hai a che fare con quel tal Cetteo Ricci di cui scrivono tutti i giornali?

    – Sì, sono la figlia.

    La osservò con maggiore attenzione restando in silenzio.

    Anche lei stava zitta e lo guardava con gli occhi lucidi e carichi di ansia. Forse il suo era solo dolore, niente di più, niente di diverso.

    La faccenda stava diventando seria, molto, e Morelli non sapeva cosa aspettarsi, ma faceva l’avvocato e quella che aveva davanti era la figlia di una persona uccisa due giorni prima e di cui i giornali, e non solo la cronaca locale, scrivevano pagine e pagine, a dismisura, senza considerare le televisioni, la radio, la gente, nei bar e sulla spiaggia, nelle mense aziendali, oltre che in ospedale, dove sembrava che Ricci avesse diversi interessi. Ne sapeva quanto ne sapevano gli altri, cioè ben poco, perché i titoli erano giganteschi, le locandine colorate e promettenti ma, quanto a sostanza, c’era poco.

    La figlia era lì, seduta davanti al suo tavolo, ed era stata lei a cercarlo.

    Era una

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