Romanzo mafioso. Lo Stato a Corleone
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Romanzo mafioso. Lo Stato a Corleone - Vito Bruschini
1
Chìnati alla tempesta
La paranoia di Saro Raìno era leggendaria tra i suoi uomini, persino maestosa nella sua astrattezza. I suoi più crudeli killer, pure Piddu ’u Tignusu, il miglior amico, tremavano quando partiva con uno dei suoi discorsi moraleggianti che terminavano invariabilmente con la condanna a morte di qualche ignaro malcapitato. Non aveva pietà per nessuno, Saro, e sospettava di tutti, anche dello stesso Piddu. In particolar modo da quando uno dei capi storici di Cosa Nostra, don Masino Buscemi, aveva rotto il patto di omertà, andando a raccontare al giudice Pellegrino gran parte dei loro segreti. Da quel giorno il carattere di Raìno era peggiorato. Quando poi il pool di magistrati era riuscito a completare l’istruttoria e a dare inizio al maxiprocesso, portando alla sbarra più di 400 presunti mafiosi, la ragione si era spenta nel suo cervello e aveva preso il sopravvento il solo istinto di sopravvivenza.
Saro era invidioso dei suoi stessi subordinati e quando avvertiva che stavano conquistando ascendente e simpatia presso gli altri uomini della famiglia, decideva di disfarsene, anche se erano efficienti e fedeli. Così era avvenuto con Pino Russo, detto Scarpuzzedda, il suo killer più fidato, fatto uccidere a tradimento da un suo stesso amico; e ora stava mandando in scena la stessa tragedia con ’u Tignusu, l’amico più caro e fidato.
Piddu era molto diverso da lui. Era più riflessivo, non aveva improvvisi e isterici scatti d’ira, come invece spesso capitavano a Saro, inoltre era gradito alle famiglie palermitane che si erano alleate con i corleonesi. Alla lunga, avevano finito per trattarlo alla pari, cosa che invece a Saro non era riuscito, perché appariva sempre come un mortale nemico.
Questa popolarità di Piddu lo disturbava e lo rendeva geloso. Temeva che con il tempo potesse mettersi strane idee nella testa, fino a prendere il sopravvento e impadronirsi della leadership dei corleonesi. Per questo aveva deciso di tenerlo sotto controllo, voleva valutarne la fedeltà.
Per sua fortuna, ’u Tignusu era un uomo tranquillo. Non era competitivo, l’idea del potere non lo ossessionava, come invece tormentava Saro. Si accontentava dei suoi traffici e viveva la vita con sobrietà. In questo era molto simile al suo antico compagno di scorribande. Anche Saro non amava ostentare i simboli della ricchezza. Faceva eccezione soltanto per sua moglie, alla quale non riusciva a negare preziosi regali, soprattutto pellicce, il sogno di tutte le donne.
Un giorno, Raìno aveva convocato una riunione nell’abitazione estiva di uno dei suoi capimandamento di Ciaculli. C’era il suo Stato Maggiore al completo, ma aveva convocato anche i due politici che avevano il compito di mantenere i contatti diretti con gli onorevoli di Roma, in particolare con il Presidente: Salvo Zappìa e Vito Pergolizzi. Aveva voluto vederli tutti per metterli a parte della strategia che aveva deciso di seguire nei mesi successivi.
«Almeno finché non finisce questa farsa del maxiprocesso», disse ai presenti, «dovremo smetterla di sparare. Per un po’ dobbiamo starcene tranquilli e a testa bassa. Ognuno continui con le faccende di tutti i giorni, ma non voglio che vengano commessi crimini o regolamenti di conti. Lasciamo in pace questa città, almeno per qualche mese. Però», e questa volta si rivolse direttamente a Salvo Zappìa e Vito Pergolizzi, «voglio che contattiate i vostri amici onorevoli. Il messaggio che dovrete riferire è questo: Cosa Nostra accetterà qualche condanna, fa parte del gioco. Ma non vogliamo sentir palare di ergastoli. Perché se così fosse, dite pure ai vostri onorevoli amici che scateneremo una tale ondata di terrore nelle città italiane che, al confronto, le bombe delle Brigate Rosse sembreranno i fuochi artificiali della nostra festa di San Leoluca. Mi sono spiegato?».
Zappìa e Pergolizzi chinarono gli occhi, in segno di accettazione. Il primo, in particolare, lo rassicurò che avrebbe portato il messaggio al suo amico Presidente e che avrebbe fatto di tutto per addomesticare il processo.
Palermo, 10 febbraio 1986
I lavori per chiudere l’istruttoria procedevano con grandi difficoltà. Gli avvocati degli imputati esploravano ogni cavillo per tentare di spostare il procedimento in un’altra città. Ma ormai i lavori per costruire l’aula bunker erano a un punto di non ritorno e i magistrati ricusarono ogni proposta della difesa.
L’aula, per facilitare gli spostamenti dei detenuti, fu costruita a ridosso del carcere dell’Ucciardone e, per scongiurare eventuali fughe, fu collegata alle celle con un tunnel sotterraneo. Fu progettata come un vero e proprio bunker: vetri antiproiettile, porte blindate e persino il tetto venne rinforzato, così da resistere a un eventuale attacco dal cielo.
Il timore di attentati mafiosi era vissuto dai palermitani con grande apprensione. Al momento di scegliere i giudici popolari, ci furono serie difficoltà. Tra migliaia di nominativi di cittadini idonei a ricoprire tale ruolo, ne furono scelti una cinquantina e, di questi, soltanto quattro accettarono subito l’incarico. Furono necessarie numerose altre estrazioni per eleggere i restanti sei giudici titolari e gli altri dieci di riserva. Questa precauzione fu voluta dai magistrati del pool, per contrastare eventuali defezioni dell’ultimo minuto.
Furono collaudati i sistemi informatici di cui erano dotati gli avvocati e i giudici per la ricerca veloce degli atti e finalmente la mattina del 10 febbraio, per la prima volta, nell’aula sfilò il plotone degli imputati. Tremila agenti, tra poliziotti e carabinieri, vigilavano su questa massa di gente.
L’attenzione dei presenti – avvocati, assistenti e quella degli stessi detenuti – era concentrata sul boss dei corleonesi, Ninuzzu ’u Ciancatu, l’uomo che aveva terrorizzato per molti anni la provincia di Palermo e che aveva portato i suoi viddani alla conquista della città, completata poi da Saro Raìno.
Ninuzzu all’inizio del processo era considerato ancora da tutti il capo di Cosa Nostra, anche se si trovava recluso dal lontano 1974. Quando entrò gli uomini d’onore tacquero e un silenzio rispettoso piombò per qualche secondo nell’aula.
’U Ciancatu fece l’entrata da solo, come una star. Vestiva un doppio petto scuro rigato, con un fazzoletto di lino nel taschino, la camicia immacolata con i gemelli d’oro massiccio e un grosso sigaro all’angolo della bocca. Sembrava uscito dritto dal film di Coppola, Il Padrino. Qualcuno dei boss minori, quando lo vide entrare, si diede di gomito, ghignando di nascosto. Ormai Ninuzzu, tra i maggiorenti della Cupola, non era più considerato l’intoccabile. Gli anni in galera avevano appannato il suo potere. Ormai era la caricatura di se stesso. Sapevano tutti che i sigari che si faceva venire dall’Avana facevano parte della messinscena. Non li fumava neppure, ma servivano a dare un’immagine di sé che non esisteva più.
Per mostrare alla Corte la sua sincera redenzione, in prigione si era messo a dipingere quadretti di paesaggi che ricordavano la sua campagna corleonese. In realtà, a realizzarli era il compagno di cella, Gaspare Musolino, che considerava un onore che l’ex boss di Corleone si degnasse di firmarli con il proprio nome.
Tra i capi famiglia di rispetto c’erano Pippo Calabrò, l’assassino di Pulvirenti, l’onorevole comunista che si era opposto all’istallazione dei missili nucleari a Comiso, e Bernardo Bova, il padre di Giovanni, che nel frattempo era diventato il braccio armato di Saro Raìno. Nelle gabbie dei boss c’era anche Francesco Scavone, uno dei più influenti rappresentanti della Commissione.
Il regista di quel caotico baraccone era un uomo dall’apparenza insignificante, basso di statura, il volto di un buon padre di famiglia, una voce per niente autorevole, spesso afona e dall’incipiente calvizie: Alfonso Lombardo, il presidente della Corte.
All’inizio gli avvocati della difesa tentarono di ricusarlo, sia perché proveniva dal civile e non dal penale, sia perché reputarono istintivamente che non avrebbe avuto la necessaria autorevolezza per tenere in pugno un processo così complesso. Ma presto si dovettero ricredere tutti perché il giudice Lombardo dimostrò non soltanto una competenza giuridica di prim’ordine, ma anche una forza morale e dignità da mettere in riga anche i criminali più prepotenti.
I primi giorni del processo gli imputati crearono al presidente non poche difficoltà: chi reclamava perché non era consentito fumare nelle gabbie, chi voleva l’acqua, chi era malato e voleva essere trasportato con la barella, chi chiedeva di poter essere scarcerato perché aveva quattro figli da sfamare… insomma, nelle prime udienze il presidente dovette risolvere non pochi problemi extragiudiziali.
Dopo qualche giorno, però, iniziò il dibattimento vero e proprio. Tra i primi a deporre fu uno dei pezzi da novanta, Pippo Calabrò, un killer tra i più feroci. Era accusato di associazione di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, ma soprattutto di aver portato a termine ben sessantaquattro omicidi. I suoi capi d’imputazione erano in totale centotrentasette. Quando era stato arrestato a Roma, era in possesso di un arsenale di armi da guerra: mine anticarro, mitra, timer, ma anche un certo numero di mobili e pezzi d’antiquariato per centinaia di milioni di lire. Calabrò per anni fu considerato il centro di smistamento degli affari tra mafia siciliana e camorra campana, e tra queste e la malavita romana rappresentata dalla banda della Magliana e per concludere anche il trait d’union con l’eversione nera.
Il presidente Lombardo gli chiese una testimonianza sugli omicidi eccellenti avvenuti in quegli anni a Palermo. Pippo Calabrò non negò di averne sentito parlare, ma respinse risolutamente di conoscere questa associazione chiamata Cosa Nostra. Secondo lui, era una pura invenzione dei giornalisti per vendere più copie e