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Confiteor
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E-book101 pagine1 ora

Confiteor

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Confiteor [perversione/confessione] è il primo romanzo breve di una triarchia governata dalla dominazione erotica. Un viaggio di perdizione oltre il confine del piacere e della passione, nei terreni oscuri dove l’amore è affabulazione, ossessione, perversione, fino alla sottomissione completa ad una follia omicida. La confessione di un marito che uccide la cosa più amata. La confessione di un amante dominato da una relazione perversa. Tra loro una donna, un’ossessione in comune: Monica.
Confiteor è «un racconto osceno, un’opera d’arte» (Luigi Settembrini).
LinguaItaliano
Data di uscita22 apr 2013
ISBN9788867558582
Confiteor

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    Anteprima del libro

    Confiteor - Luca Valerio Borghi

    LUCA VALERIO BORGHI

    Confiteor

    [perversione/confessione]

    Dietro alle finte persone di questo romanzo

    si nascondono le loro maschere.

    1.

    Chi parla perde, chi si confessa muore. La cosiddetta verità rende pesanti. La cosiddetta verità non ci lascia scappare.

    Chi parla perde. Per questo, credo, al processo, dopo avere tenuto la testa piegata sul banco dell’accusato durante tutte le sedute, quando nell’ultima udienza lo avevano chiamato a testimoniare era rimasto in silenzio, rifiutandosi di rispondere alle domande dell’accusa e incaricando il proprio difensore di leggere due righe di suo pugno con cui confessava di essere colpevole, di avere fatto tutto da solo e per il motivo che aveva detto subito alla polizia quando si era costituito e poi al pubblico ministero e che ripeteva ora davanti al giudice: di averla uccisa perché a quel punto la odiava, e la odiava perché l’amava.

    Quando il suo difensore ebbe finito di leggere, lui guardò in faccia il giudice come a pregarlo di mettere fine a quell’incubo e di pronunciare la sentenza dando una pena alla sua colpa e chiudendolo in una cella.

    Questo, voleva: scontare la sua condanna.

    «Si può accomodare» disse il giudice dopo un lungo silenzio e dopo avere ascoltato la lettura della sua confessione con le mani giunte davanti alla bocca.

    Lui chinò allora di nuovo la testa e si alzò con lo sguardo fisso sui piedi. Camminò con gli occhi a terra e andò a sedersi e si mise a fissarsi le ginocchia e a scrutare il pavimento come alla ricerca di un punto indefinibile. Forse quel punto indeterminabile in cui aveva perso tutto: se stesso, e lei, lei più di ogni altra cosa.

    Quel punto in cui aveva cominciato a morire continuando a vivere.

    Avevo seguivo ogni seduta di quel processo che mi coinvolgeva straordinariamente, anche se due sole persone avrebbero potuto dire fino a che punto arrivava il mio coinvolgimento.

    Una ero io.

    L’altra era stata uccisa, e chi l’aveva uccisa era lì: l’uomo accusato di un omicidio che aveva confessato. L’uomo che aveva appena lasciato il banco dei testimoni concludendo il processo senza neanche immaginare quanto io potessi esserne coinvolto. Io che non ero nemmeno stato chiamato a testimoniare né sfiorato dalle indagini.

    Ma che bisogno c’era, del resto, di testimonianze e indagini? Lui era il colpevole, l’aveva confessato. Lei la vittima, uccisa con un coltello da cucina.

    Che importava di me? Io cosa c’entravo?

    Ma quando il giudice lesse la sentenza di colpevolezza, condannandolo a quattordici anni di carcere, ebbi quasi la sensazione di sentire un rullo di tamburi che mi svegliavano per proclamare la mia esecuzione a morte. Per un attimo persi il respiro, come se la condanna fosse stata inflitta sulla mia testa.

    Poi lo vidi uscire dall’aula, l’omicida, l’uomo la cui vita componeva con la mia un’unica forma, la cui maschera si univa alla mia in un solo dramma.

    Eppure, lui non sapeva.

    Quando lo vidi alzare lo sguardo da terra e scrutare nella piccola folla del tribunale, credetti che cercasse me. Ma mi ingannai. Riconobbi, lì vicino, sua sorella: era lei che cercava con gli occhi lucidi come vetro. Lei, che gli somigliava esattamente e che lo guardò con lo stesso sguardo. La pena e la pietà di lui, così, sembrarono doppie.

    Poi di nuovo il suo sguardo si chinò. Due uomini della Polizia penitenziaria lo condussero fuori dal tribunale e, a bordo di un cellulare, lo portarono via.

    Passò del tempo dopo il processo, ma il pensiero di quell’uomo, omicida confesso e condannato, non riuscii mai a togliermelo dalla mente. Perché il pensiero di lui trascinava con sé quello della donna che lui aveva assassinato.

    Monica, sua moglie.

    Lui l’amava: come aveva potuto ucciderla? Come era arrivato a quel punto oltre il quale tutto l’amore diventa odio? Come era arrivato a perdere tutto cominciando a morire?

    Cominciai a capire che era stata proprio la sua confessione a smarrirlo fino alla rovina completa. Non però la confessione del crimine, che era quasi un fatto dovuto in un uomo onesto com’era lui. Un’altra era la confessione che lo aveva smarrito e rovinato: la confessione dell’amore che aveva per lei, la professione di dipendenza da lei, di bisogno di lei, di necessità che lei fosse, per lui, non nella vita, ma la vita stessa, tutta la vita. Questo le aveva confessato, piano, negli anni, e poi sempre più a gran voce negli ultimi mesi, con la voce però dei sospetti, dei pianti, delle grida, delle piccole violenze, delle rese bianche davanti alle sue braccia chiuse. 

    Questa confessione lo aveva reso una vittima prima di renderlo un assassino. Ucciderla, nell’ultimo atto di quel dramma, fu un finale di disperata impotenza, recitato fuori scena, orrendamente, inutilmente: lei lo aveva già lasciato senza vita. Se anche, al processo, non si fosse votato a cercare la condanna, non avrebbe comunque potuto difendersi perché era ormai un cadavere lui stesso e l’ultimo residuo di vita e di volontà l’aveva messo nell’impulso con cui aveva disteso su di lei, un numero incalcolabile di volte, il coltello con cui l’aveva dilaniata.

    Poi, una mattina, dopo una notte quasi insonne, decisi di incontrarlo. Era passato quasi un anno dalla sua condanna, due da quando avevo conosciuto lei, sua moglie.

    Monica.

    Io conoscevo Monica. Io e lei eravamo stati amanti.

    Feci richiesta al direttore del carcere. Dopo un mese potei incontrarlo. Normalmente sono i detenuti a richiedere le visite: hanno diritto dai quattro ai sei colloqui al mese, a seconda della loro condanna e delle loro condizioni. Un carcerato riceve visite di persone che non siano familiari e conviventi solo se ne fa lui stesso richiesta.

    In questo caso era il contrario: si trattava di un’evenienza insolita che il direttore del penitenziario concesse dopo che in un lungo colloquio con me ebbe aperto, sfogliato e chiuso più di cento volte una cartelletta anonima contenente non so quali pochi documenti sul mio conto, forse soltanto il mio casellario giudiziale vuoto, oltre alla fotocopia della mia carta di identità.

    «È al limite del regolamento» mi ripeté almeno dieci volte, grattandosi la testa. Non ebbi niente da obiettare. «Perché desidera vedere il detenuto?» domandò.

    «Come le ho detto» risposi «lo conosco appena. Monica me lo presentò circa due anni fa, alla sua festa di compleanno. Poi l’ho rivisto solo qualche volta, quando veniva a prenderla al circolo dopo le lezioni di tennis.»

    «Lei non è stato coinvolto nell’indagine» mi disse, calandosi gli occhiali dalla fronte al naso e sfogliando di nuovo il plico nella cartella.

    «No.»

    Mi guardò sollevandosi gli occhiali e cercando di mettere a fuoco qualcosa che non vedeva.

    «Monica non veniva più a lezione da me da diversi mesi quando fu uccisa» aggiunsi.

    Mi guardava fisso con gli occhi aperti stranamente.

    «Del resto non avevamo altri rapporti» dissi mentendo. «Non ci vedevamo al di fuori del circolo» dissi mentendo ancora. «Nessuno pensò di interrogarmi. E perché avrebbero dovuto? Non avrei comunque avuto nulla da dire» dissi mentendo per la terza volta.

    Il direttore si calò di nuovo gli occhiali sul naso e si curvò sopra ai fogli della cartella.

    «Il detenuto è reo confesso» disse. «Le indagini sono state molto scarne.» Poi mi guardò.

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