Hipolito ha trascorso le ultime ore aspettando. La tortura ha avuto inizio la notte precedente, di ritorno alla pensione dal caffè teatro. È arrivato alla camera con la vana illusione di addormentarsi il prima possibile e che il tempo passasse in fretta, ma nessuno di questi desideri si è compiuto. Non è riuscito a chiudere occhio e l’alba si è fatta eterna. Ha aspettato fino alla disperazione, osservando il cammino delle lancette sul quadrante dell’orologio. Ha fissato i vetri della finestra cercando il minimo indizio dell’annunciarsi del giorno. Consumato dall’impazienza, si è lanciato nell’ufficio di Alicia Urrutia per scusarsi con lei e con Tomas de los Visos perché non avrebbe potuto aiutarli nella gestione degli affari come concordato.
«Devo andare alla Collegiata di San Isidro» si è scusato, «devo accendere un cero, su richiesta di mia madre». Hipolito non ha la forza per raccontare tutta la verità e spiegare loro che ha mentito: durante una delle sue passeggiate notturne ha incontrato Rocio de la Torre, una cantante che somiglia tanto alla sua amata Gracia che potrebbe essere sua sorella. Proprio lei l’ha invitato ad accompagnarla alla visita in quella chiesa dove si venera il patrono di Madrid.
Certo è che è stato male per aver mentito loro o, per essere esatti, per aver detto loro una mezza verità: ha deciso che accenderà quel cero per Dolores, una volta in chiesa. In qualsiasi caso, non si meritavano quel comportamento, né tantomeno lui ha l’abitudine di fare così. Ma qualsiasi traccia di senso di colpa scompare quando Rocio gli si avvicina all’angolo del quartiere di Maravillas dove ieri gli ha dato appuntamento, e ancora una volta gli sembra di vedere la sua defunta sposa nei gesti e nello sguardo della ragazza.
«Buongiorno, Rocio» saluta, togliendosi il cappello.
«Buongiorno Don