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Giallo all'ombra del vulcano
Giallo all'ombra del vulcano
Giallo all'ombra del vulcano
E-book337 pagine4 ore

Giallo all'ombra del vulcano

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Info su questo ebook

Un'indagine di Giuliano Neri

La maestra del giallo italiano è tornata

L'autrice del bestseller Il giallo di Ponte Vecchio

È una mattina come tante, quella in cui Rachele De Vita saluta suo marito ed esce di casa per andare al lavoro. Cinque giorni più tardi il suo corpo viene ritrovato tra le rocce del tratto di costa compreso fra Aci Trezza e Acireale, straziato da sette colpi di pistola. Come si giustifica tanta ferocia nei confronti di una ragazza dall’esistenza apparentemente molto tranquilla? Le indagini sul caso vengono affidate al pubblico ministero Elena Serra, che inizia da subito a ricostruire nel dettaglio la vita della vittima: quel che ne emerge è un quadro complesso fatto di mezze verità, di piccole e grandi menzogne, che coinvolgono gli affetti recenti e passati della giovane archeologa. Giuliano Neri, a Catania per aiutare un amico in un’opera di restauro, sarà ancora una volta coinvolto in un caso di omicidio in cui l’arte si intreccia spesso con la realtà. Insieme al magistrato, si renderà conto che ci sono passioni distruttive che continuano a bruciare tra i vicoli della città ai piedi dell’Etna. Con la stessa forza del magma sotterraneo del vulcano…

Il cadavere di una giovane archeologa ritrovato lungo la costa catanese
Un intreccio familiare magmatico segnato da troppi segreti

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Letizia Triches è una storica dell’arte attratta dalla perversa creatività del criminale non meno che da quella dell’artista.»
Il Corriere della Sera

«Avvincente.»
la Repubblica
Letizia Triches
È nata e vive a Roma. Docente e storica dell’arte, ha pubblicato numerosi saggi sulle riviste «Prometeo» e «Cahiers d’art». Autrice di vari racconti e romanzi di genere giallo-noir, ha vinto la prima edizione del Premio Chiara, sezione inediti, ed è stata semifinalista al Premio Scerbanenco. La Newton Compton ha pubblicato Il giallo di Ponte Vecchio, Quel brutto delitto di Campo de’ Fiori, I delitti della laguna e Giallo all'ombra del vulcano, che hanno tutti come protagonista il restauratore fiorentino Giuliano Neri.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2017
ISBN9788822716033
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    Anteprima del libro

    Giallo all'ombra del vulcano - Letizia Triches

    1

    Dove sei

    Quella sera Giovanni Greco chiuse in anticipo la sua libreria, percorse poche centinaia di metri, ignorò i ripidi scalini – stretti tra due alti muri privi di finestre – che lo avrebbero condotto nel suo piccolo appartamento, e proseguì a testa bassa verso piazza Dante. Accese il motore dell’auto e puntò il muso della vecchia Audi in direzione di Picanello, il quartiere dove abitavano il figlio e la nuora. L’ansia, che aveva percepito al telefono nella voce di Elio, gli aveva provocato un fastidioso malessere.

    Suo figlio gli aveva riferito che, come ogni giorno, Rachele era uscita di casa molto presto, avvisandolo però di non aspettarla per la solita ora. Forse si sarebbe trattenuta a pranzo con la madre. Da quel momento non si era fatta più viva. Quando Elio, preoccupato, aveva chiamato la signora De Vita, lei gli aveva detto che non vedeva sua figlia da una settimana.

    Erano le sei del pomeriggio e Giovanni Greco aveva aperto il negozio da poche ore, ma aveva deciso lo stesso di raggiungere immediatamente suo figlio.

    Dopo venti minuti l’Audi era ancora immersa nel caotico viavai di macchine dell’infinita via Etnea. Con la sua vivacità quella strada era sempre piaciuta a Giovanni Greco, nonostante il traffico rumoroso, ma adesso i passanti, che camminavano distratti e con apparente leggerezza, come se fossero liberi da qualsiasi pensiero, lo innervosivano.

    E mentre i colori del cielo, prossimo al tramonto, calavano dolcemente nell’anima degli altri, rendendo lieve ogni cosa, l’approssimarsi della notte a lui confermava la certezza di una sciagura ormai consumata.

    Alle nove di sera, Elio e Giovanni Greco erano giunti alla conclusione che l’unica scelta possibile fosse denunciare la scomparsa di Rachele alla vicina stazione dei carabinieri. Le ripetute telefonate allarmate della signora De Vita, che chiedeva notizie di sua figlia, li avevano convinti della gravità della situazione. Non era mai successo che la ragazza non desse notizie di sé per tante ore di seguito.

    Il cancello si aprì con uno scatto secco e i due uomini entrarono. Ad accoglierli nella palazzina gialla di via Petrella c’era un appuntato, che li fece accomodare solo dopo una rapida ispezione visiva. Il carabiniere aveva notato la loro espressione tesa e si era messo per un istante sulla difensiva, poi si era reso conto di conoscere di vista il più giovane dei due uomini e perciò li aveva introdotti, senza indugiare ulteriormente, in una piccola stanza, dove un suo collega era seduto alla scrivania.

    Giovanni Greco cominciò a esporre subito i fatti, riferendo per prima cosa i propri dati anagrafici all’appuntato, pronto a trascriverli sull’apposito modulo. Nel frattempo, il primo carabiniere si stava chiedendo, incuriosito, chi fosse quel giovane alto e biondo. Fu quando udì il cognome Greco che gli si chiarirono le idee. Elio Greco abitava non distante da lì e dipingeva quadri. Uno strano mestiere, se di mestiere si trattava. Un altro ricordo affiorò nella mente del carabiniere, mentre l’angolo delle labbra gli si piegava in un sorriso appena accennato. Lo sapeva anche lui che nel quartiere tutti parlavano del pittore e di sua moglie.

    Mariano De Vita fu svegliato in largo anticipo rispetto all’ora prefissata, ma non obiettò nulla. Gli bastarono l’espressione drammatica di Rita, il suo viso pallidissimo, segnato da ombre violacee sotto gli occhi, per capire che doveva essere accaduto qualcosa di grave. La lasciò parlare senza mai interromperla. Nemmeno quando lei, piangendo e torcendosi le mani, gli confessò con un filo di voce di avergli sempre disubbidito e di avere continuato a incontrare Rachele di nascosto, venendo meno alle sue disposizioni. Forse avrebbe dovuto dirle che, di quegli incontri, lui era sempre stato a conoscenza, ma non volle darle una consolazione che non meritava.

    L’avvocato si alzò dal letto e cominciò a misurare la stanza con passi lenti, accarezzandosi il mento, sotto lo sguardo supplichevole di sua moglie. Poi si fermò, dando l’impressione di essere stato agganciato da un pensiero illuminante, quello che gli avrebbe permesso di risolvere ogni cosa, come accadeva di solito, ogni volta che un problema si affacciava alla soglia della loro quotidianità familiare. La signora De Vita soffocò un sospiro di sollievo e attese il responso del marito, che non si fece attendere.

    «Ci penso io. Tu non muoverti di casa, non fare nulla», le ordinò.

    «A chi ti rivolgerai?». Una domanda inutile per una risposta prevedibile.

    «A Luigi».

    Luigi Spano, oltre a essere il Procuratore della Repubblica di Catania, era intimo amico dell’avvocato.

    Solo a quel punto Rita De Vita si sedette sulla poltrona accanto al letto, pronta a rispondere alle domande che di certo suo marito le avrebbe rivolto.

    Infatti, giunsero. Brevi e precise.

    «L’ora esatta in cui è uscita di casa?»

    «Elio mi ha riferito che erano le sette di ieri mattina».

    «Così presto?»

    «In genere esce alle otto. Elio ha pensato che dovesse fare un sopralluogo da qualche parte».

    «Ha verificato con i colleghi della Soprintendenza?»

    «Sì, loro però non sanno di nessun sopralluogo. Rachele non ne ha fatto cenno nei giorni scorsi».

    «Non vedendola rientrare per il pranzo, Elio non si è preoccupato?»

    «Era convinto che fosse con me». Un’ammissione che Rita De Vita fece spostando lo sguardo in basso.

    «Quando ha cominciato a capire che qualcosa non andava?»

    «Verso le cinque del pomeriggio, dopo avermi telefonato».

    «A che ora ha denunciato la scomparsa ai carabinieri?»

    «Alle nove di ieri sera. Insieme a suo padre».

    Era la seconda volta che, nel giro di pochi minuti, ripeteva quelle cose a suo marito. Ma la prima lo aveva fatto in modo confuso e accorato; troppo approssimativo per l’avvocato, che aveva sempre bisogno di schemi chiari e privi di sbavature emotive, in modo da essere certo di offrire ad altri eventuali interlocutori un quadro esatto dell’accaduto.

    In quel momento non si sentiva disposto a ricordare gli avvenimenti tempestosi che avevano messo lui e sua figlia l’uno contro l’altra. Erano trascorsi quattro anni, ma la sua ira di padre non si era placata. L’ostinazione di Rachele a perseguire il proprio obiettivo rimaneva imperdonabile. Ancora adesso, a cinquantotto anni, un uomo della sua posizione non poteva accettare l’idea di essere venuto meno alla parola data a una persona di rilievo. Si era impegnato con un notevole dispendio di energia e di soldi per tanti anni affinché il suo progetto andasse a buon fine e poi, a causa di una figlia ingrata, tutto si era dissolto in una bolla di sapone.

    Mariano De Vita congedò sua moglie e si avviò verso la doccia. Solo dopo essersi fatto la barba ed essersi vestito con la ricercata eleganza di sempre si considerò pronto per la telefonata. Voleva essere certo di agire nel modo giusto, non voleva correre il rischio di esporsi. Quella mezz’ora di preparativi gli era servita per approntare una strategia inappuntabile.

    Il telefono squillò tre volte, la voce era quella di Luigi Spano in persona.

    «Pronto?»

    «Luigi, carissimo, sono Mariano. Dovrei parlarti di una questione un po’ delicata».

    Si trattava davvero di una questione assai delicata, talmente delicata che il procuratore, in seguito ad attenta riflessione su chi interpellare, alla fine prese la sua ponderata decisione e si rivolse al giudice Falco, fidatissimo e riservato.

    «Ho compreso il problema», gli disse Falco, convocato d’urgenza nel suo ufficio. Pochi istanti per riflettere e poi: «Ho la persona che fa per te», sentenziò il giudice con soddisfazione.

    «Conosci Mariano…», indugiò ancora Spano, per essere certo che l’altro fosse ben consapevole della situazione. A palazzo di giustizia, e non solo lì, l’avvocato De Vita era conosciuto per il suo rigore e per essere uomo intollerante e sicuro di sé.

    «Ma certo, non devi preoccuparti. Sta’ tranquillo».

    «E a chi avresti pensato?»

    «Al magistrato Elena Serra».

    «Una donna?».

    Sorpresa e inquietudine nella voce di Spano.

    «Ti assicuro che non potremmo fare scelta migliore».

    «Spiegami».

    «È molto discreta, scrupolosa. Non le sfugge nulla e non demanda nulla a nessuno. Sai cosa intendo. Scende in campo e segue le indagini personalmente. Non molla l’osso. Mai. Se la vedessi, non ci crederesti. Dietro quella sua apparenza di fragile cristallo nasconde una tempra d’acciaio. E poi c’è un altro aspetto da non trascurare».

    «Sarebbe?»

    «Non è di qui».

    «Da dove viene?», chiese il procuratore, improvvisamente sollevato.

    «Dal Nord. È arrivata a Catania tre anni fa e spera di tornarsene nella sua Torino, prima o poi».

    Tre anni? Quindi non si trovava in città all’epoca dello scandalo. Questo era indubbiamente un elemento a favore, pensò Luigi Spano, che ora annuiva con il capo, ormai disposto a conferire l’incarico dell’indagine sulla scomparsa di Rachele De Vita alla dottoressa Serra.

    Mariano De Vita le andò incontro con un mezzo sorriso.

    Mentre lo seguiva in una stanza spaziosa, con grandi divani in pelle e un enorme tavolo di cristallo nero, Elena Serra non poté fare a meno di mettersi nei panni dei numerosi clienti che frequentavano il prestigioso studio legale. Quell’uomo pareva proprio il prototipo dell’avvocato ideale. Un’impressione che si consolidò non appena De Vita cominciò a illustrarle meglio il problema. Aveva una parlantina sciolta e fluente, non ricorreva a termini complicati, legati al tipico gergo del loro ambiente. Le diede solo una descrizione pura e semplice dei fatti e le spiegò quello che si aspettava da lei. Si sentì sollevata per la chiarezza del suo interlocutore, ma nello stesso tempo provò un certo malessere di fronte a quel padre capace di condurre una conversazione tanto ineccepibile e controllata, come se in lui il desiderio di essere preciso sconfiggesse la preoccupazione. Sua figlia era scomparsa nel nulla e non si sarebbe detto che la cosa lo turbasse. A guardarlo meglio, la Serra ebbe l’impressione che gli occhi dell’avvocato fossero inaccessibili alla pietà. Un comportamento che era l’esatto contrario del suocero e del marito di Rachele De Vita. Così, almeno, le aveva riferito il colonnello Todaro che li aveva già interrogati. L’ufficiale dei carabinieri faceva parte del nucleo operativo di polizia giudiziaria di Catania e avrebbe collaborato con lei.

    «Sono felice che abbia assunto la direzione delle indagini», le stava dicendo De Vita. «Sa perché?»

    «Sono curiosa».

    Ci avrebbe giurato sulla motivazione, ma non lo diede a vedere.

    «Perché lei è donna e io conto molto sull’innato tatto femminile, sulla vostra capacità di immedesimazione, sul vostro intuito. Spero soltanto che non sia l’ennesima follia di Rachele. Ma, se così fosse, mi auguro, anzi sono sicuro, che lei saprà trattare la cosa con la massima discrezione. Basta scandali».

    Si guardarono per un attimo che al magistrato parve lunghissimo. Cominciava a capire con chi aveva a che fare. In lei subentrò una malinconia difficile da spiegare, ma cercò di assumere comunque un’espressione distaccata.

    «Ho alcune domande da rivolgerle», disse. «Riguardano il passato della sua famiglia».

    Lui le lanciò un’occhiata vagamente ostile.

    «Mi pare ragionevole», concesse infine. Il suo era il tono dell’avvocato che si accorda su un compromesso.

    Elena Serra aveva imparato a tenere a bada le numerose domande che le attraversavano la mente a grande velocità all’inizio di ogni indagine. Non doveva cercare di rispondere nemmeno a una. Per questo motivo, quando Todaro l’avvisò che era stata trovata la macchina di Rachele De Vita, si limitò a chiedergli il nome e il civico della strada del ritrovamento, dandogli appuntamento sul posto entro venti minuti.

    Parcheggiata in via Musumeci, proprio a due passi dal tribunale, c’era la Panda della ragazza scomparsa da due giorni.

    Mentre raggiungeva il luogo a piedi, la dottoressa Serra pensava a una curiosa coincidenza. Tutto era concentrato in un quadrilatero di alcune centinaia di metri. Solo ventiquattro ore prima, infatti, aveva avuto un colloquio con Rita De Vita nel monumentale appartamento di famiglia, situato nel vicinissimo viale XX Settembre, ad appena cinquanta metri dallo studio legale del marito. La signora, una donna bruna sulla cinquantina, dal colorito olivastro e dai lineamenti fini, l’aveva invitata a entrare in uno dei numerosi salottini, l’aveva fatta accomodare su uno scomodo divano ottocentesco e aveva aperto le ante a vetri di un mobile antico, con i ripiani pieni di bicchieri e qualche bottiglia. Aveva accennato il gesto di prendere un paio di minuscoli calici, poi si era bloccata.

    «Vuole del liquore di genziana?», aveva chiesto con voce appena percepibile e atteggiamento rispettoso.

    Da tutto quello che aveva detto in seguito, molto poco in verità, dato che cominciava le frasi senza finirle, era emerso solo un particolare interessante.

    Rachele aveva telefonato alla madre da un bar a metà mattina, il giorno della sua scomparsa, avvisandola che, se fosse riuscita a risolvere un problema, avrebbero potuto pranzare insieme, ma di non preoccuparsi se non l’avesse richiamata per la conferma.

    Se Rachele avesse deciso di scomparire di sua iniziativa, perché telefonare alla madre con la proposta di incontrarsi? Con quel dettaglio bene in evidenza, la Serra era quasi arrivata all’altezza del numero civico indicatole. Todaro la stava aspettando e accennò pochi passi nella sua direzione.

    La corpulenza del colonnello era adeguata al senso di dignità che emanava dalla sua persona. Sembrava dare peso a ogni frase che pronunciava, i suoi gesti erano misurati, ispirava fiducia.

    «Avete già ispezionato la macchina?», chiese la dottoressa Serra, osservando un paio di carabinieri al lavoro.

    «Sì», rispose Todaro, «ma non abbiamo rinvenuto niente di interessante. Nessun segno di lotta, l’abitacolo è perfettamente in ordine. Se ne occuperanno quelli del RIS».

    «Nessun effetto personale di Rachele De Vita?»

    «Nulla. Anche il portabagagli è vuoto, a parte i soliti attrezzi in dotazione alle automobili».

    Il magistrato chinò la testa, pensosa. Se fosse stata la proprietaria dell’auto a parcheggiarla, forse il suo appuntamento per risolvere un problema, come aveva detto alla madre, era nei paraggi. Una volta sistemata la cosa, avrebbe pranzato con la signora De Vita, che non abitava lontano, e poi avrebbe ripreso la sua auto per avviarsi verso casa. Accettando una simile ipotesi, bisognava dedurre che il problema si era trasformato in qualcosa di diverso, impedendole di tornare indietro.

    La Serra si guardò intorno. «C’è un bar qui vicino?», chiese.

    Todaro non si scompose per la domanda e si offrì di accompagnarla. Ne visionarono un paio senza successo e senza che il colonnello facesse il minimo commento, tenendo per sé l’interrogativo sul perché il magistrato non si ritenesse soddisfatta dai locali visitati. Si avvicinava al cameriere dietro il bancone, poneva una richiesta che lui, mantenendosi per correttezza a distanza, non era in grado di udire, e infine gli faceva cenno di uscire scuotendo la testa. Forse era solo una donna molto esigente.

    Finalmente la Serra trovò quello che cercava. Erano entrati in un piccolo caffè di via Firenze e dietro il bancone c’era la proprietaria, intenta a sciacquare delle tazzine. Alla richiesta misteriosa del magistrato la donna, una brunetta vivace, prima aveva aggrottato la fronte, quindi aveva cominciato a ciondolare con il capo avanti e indietro, alla fine aveva parlato.

    Fu a quel punto che il magistrato invitò Todaro ad avvicinarsi.

    «Dovrebbe avere con sé la foto segnaletica di Rachele De Vita. Me la dia, per cortesia», gli disse.

    Non appena la dottoressa ebbe tra le mani la fotografia, la mostrò alla proprietaria del bar. «È lei?», chiese.

    «Sì».

    «Ne è proprio sicura?»

    «Sicurissima. La conosco appena. Negli ultimi tempi non passa così di frequente come qualche anno fa. Secondo me non abita più da queste parti. Quando l’ho vista entrare, lunedì mattina, l’ho riconosciuta quasi subito».

    Elena Serra emise un lieve sospiro di soddisfazione per la sua intuizione e ingiunse alla barista, divenuta all’improvviso titubante, di ripetere esattamente al colonnello dei carabinieri quello che aveva riferito a lei.

    «Sarà stato poco dopo le undici di lunedì scorso e questa ragazza», affermò la donna, indicando la foto, «è entrata qui per bere qualcosa di fresco. Era molto accaldata. Ricordo di aver notato gli anfibi che portava ai piedi, perché le ho domandato se non le tenessero caldo. Mi ha risposto che erano scarpe comode per lei, visto che faceva l’archeologa. Poi mi ha chiesto se poteva fare un paio di telefonate e io le ho indicato il telefono dietro il paravento».

    «E le ha fatte, le telefonate?».

    Todaro non era stato capace di trattenere la curiosità ed era intervenuto, ma il mistero più grosso per lui era capire come il magistrato avesse saputo che Rachele era entrata in un bar il giorno della sua scomparsa.

    «Sì, ne ha fatte due», ammise la proprietaria. «Però non se ne è andata via subito dopo, si è seduta a un tavolino ed è rimasta lì per un po’».

    «Quanto tempo?»

    «Non lo so. Un quarto d’ora, forse. Sono entrati altri clienti, mi sono distratta e non l’ho vista più».

    Una volta fuori, la dottoressa Serra diede al colonnello le spiegazioni che desiderava, poi si accommiatò, dicendogli di preparare un decreto d’urgenza per avere i tabulati telefonici.

    Se una delle due telefonate di Rachele era stata per la madre, a chi era destinata l’altra?

    «Questo tratto di costa è rimasto inviolato. Sempre lo stesso nei secoli. Solo le case dei contadini e qualche azienda agricola», le spiegava Todaro, con un tono di voce che tradiva una certa agitazione.

    Avevano appena lasciato la litoranea, che univa Aci Trezza ad Acireale, percorsa, in quel primo pomeriggio di sabato 13 aprile, dai numerosi pendolari del mare.

    Il colonnello e il magistrato costeggiavano in auto la macchia mediterranea, attraversata ogni tanto da sentieri a malapena individuabili nella vegetazione.

    «E per andare al mare?», chiese la dottoressa Serra.

    «Roba da escursionisti. A loro piace addentrarsi in certi sentieri che arrivano alle calette più nascoste. A volte il terreno si ferma a picco sulle rocce e la discesa a mare è roba per persone esperte. Meglio arrivarci con la barca».

    Roba da escursionisti, appunto, come quelli che si erano imbattuti nel cadavere incastrato fra le rocce.

    Poi, il colonnello girò a destra, in direzione del mare, imboccando una strada di campagna alquanto dissestata. Avanzò per poche centinaia di metri, fermò la macchina a ridosso di un muretto di pietra, che delimitava un campo coltivato, e proseguirono a piedi. La terra in quel punto era brulla, ma agevole. Quando giunsero sul posto, si trovarono di fronte a un paesaggio da togliere il fiato. Una caletta di sabbia nera, delimitata dagli scogli. Ma quello che era stupefacente era il colore dell’acqua.

    Tanta bellezza per fare da cornice a una scena terribile.

    Un dramma antico che riviveva in tutta la sua crudezza. La vittima, sottratta al mare e deposta sulla sabbia, era una giovane donna esile, con indosso una maglietta e un paio di pantaloni. Non aveva le scarpe. Su di lei incombeva la possente figura del medico legale, già chino a esaminare le tracce della sua agonia. Alcuni carabinieri tenevano a distanza un gruppo di persone attonite, tra cui si riconoscevano i tre giovani che avevano rinvenuto il cadavere. Tre olandesi in vacanza, fra loro anche una ragazza, che si nascondeva la bocca con una mano. Per trattenere un grido di orrore, si sarebbe detto. Era accorso anche qualche anziano contadino dei dintorni. Una vecchia era inginocchiata al suolo con le mani giunte.

    Elena Serra, che precedeva il colonnello, raggiunse il medico legale, senza mai distogliere lo sguardo dal viso martoriato della ragazza.

    «Perché è ridotta in questo stato?», chiese.

    Molte ferite nelle regioni della testa, del collo, delle spalle. Abrasioni ovunque, in talune parti la carne appariva come strappata.

    «Probabilmente si tratta di traumi provocati dallo sballottamento sugli scogli, più o meno sommersi», fu la risposta.

    «A meno che non fosse già affogata prima, potrebbero essere stati questi traumi a provocare il decesso?», provò a supporre il magistrato.

    «Non credo», disse il medico. «Visto che le hanno sparato. È stata raggiunta da parecchi colpi d’arma da fuoco».

    «Mortali?»

    «Non tutti. Capirò di più in sala settoria. Ma sono quasi certo che sia stata gettata in acqua post mortem. La distribuzione delle ipostasi me lo suggerisce. Sono tipiche di un cadavere buttato in acqua subito dopo la morte. Il corpo assume la posizione prona, con il volto in basso e gli arti penzoloni, in questo modo il fenomeno ipostatico confluisce verso la parte anteriore: viso, torace, addome. Esattamente come si nota qui».

    Lo sguardo della Serra non lo seguiva più. Si era spostato invece sulla mano sinistra della ragazza. Portava una fede all’anulare. Ripensò all’unica fotografia di Rachele De Vita che aveva visto.

    «È possibile che la vittima sia stata uccisa e gettata in mare cinque giorni fa?»

    «Non lo escludo affatto».

    Giovanni ed Elio Greco entrarono per il riconoscimento della salma. Sfiniti, dopo una settimana di angoscia. Distrutti dal dolore, non parlarono. Tranne al momento di uscire.

    «Penseremo noi al funerale», disse il più anziano dei Greco.

    Lo disse secco, lasciando intendere che erano loro due la vera famiglia di Rachele.

    Poi fu la volta dei coniugi De Vita. A Elena Serra la madre di Rachele parve rimpicciolita. Aveva un aspetto dimesso. Indossava una gonna e una giacca grigie, come il colore della sua pelle. Forse sapere senza vedere sarebbe stato meglio per Rita De Vita.

    Quando il lenzuolo ricoprì pietosamente Rachele, fu scossa da una specie di fremito.

    «Se Dio esiste, bara», esclamò.

    «Rita non dire così». L’avvocato le era accanto.

    Ma lei non l’ascoltava e proseguiva a voce sempre più alta: «Si diverte a giocare partite truccate». Poi di scatto si voltò verso la dottoressa Serra. «Come si può morire a trentun anni?», chiese quasi urlando. «Dio, perché ci vuoi madri, se poi ci ammazzi i figli?».

    «Calmati, Rita». Il marito, un’espressione quasi assente, ebbe comunque la forza di afferrarla per le spalle. «È il destino», mormorò. «Dio ha creato la vita e anche la morte. Si prende quello che ti dà, senza una ragione».

    «No. La vita, la morte, non c’entrano niente e neppure il destino. La colpa è di Dio. È lui che me l’ha presa, ma non doveva prenderla così… in questo modo… la mia creatura…». Ora singhiozzava. «Avrà sofferto? Quanto avrà sofferto? Quanto?».

    Si guardava intorno, cercando qualcuno che le rispondesse. Di fronte a quello strazio, nessuno osò fiatare.

    La signora De Vita, infine, cadde in un mutismo stralunato e si lasciò portare via docilmente. Nella stanza rimase a lungo l’eco della sua disperazione.

    Elena Serra avrebbe dovuto essere abituata alle scene di dolore, ma quello di Rita De Vita le si appiccicò addosso, come l’innesco di una paura subdola. La sera stessa, appena rientrata a casa, il magistrato corse al telefono, e quando la voce annoiata di Serena le chiese: «Mamma, ma non dovevamo sentirci domani?», si abbandonò a un respiro di sollievo, non privo di un assurdo senso di colpa.

    2

    Sì, viaggiare

    Giuliano Neri sapeva di non avere scelta. Voleva portare con sé la macchina, quindi, l’unico mezzo per la Sicilia era il traghetto. Certo, sarebbe potuto arrivare in auto fino a Villa San Giovanni e poi attraversare lo stretto. Roba da poco rispetto a un’intera notte da trascorrere a bordo, pensò in un primo momento con un vago senso di nausea all’idea della lunga traversata. Ma si fidò di Massimo Lentini, che quei traghetti li conosceva bene, e optò per la soluzione suggeritagli dall’amico. Poiché Neri si trovava a Roma, a casa di Stella, gli conveniva

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