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Riparto da qui
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E-book134 pagine2 ore

Riparto da qui

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Info su questo ebook

Martina, 'Marti' come tutti la chiamano, torna nella città dove è cresciuta. Sono passati dieci anni da quella che è stata una vera e propria fuga, da se stessa, da un amore spezzato e da emozioni da cui non è stata capace di guarire. Martina torna ad incontrare ciò da cui è fuggita: gli amici di un tempo, i luoghi dove è vissuta e soprattutto Filippo, il suo migliore amico, che non ha più visto, ma con cui ha continuato a scambiarsi mail e confidenze. Filippo che, saputo del suo ritorno, vuole rincontrarla...
Sarà capace Martina di fare pace con il passato? e Filippo è veramente solo un buon amico? Riparto da qui è una storia avvincente, romantica, appassionata, con una grande protagonista capace di emozionare.

Beatrice Bracaccia vive ad Orvieto, una graziosa cittadina immersa nelle verdi colline umbre. Lettrice appassionata, si diletta da sempre a scrivere piccoli episodi di vita quotidiana che poi racconta con disancantanta ironia sul suo profilo Facebook. La sua sensibilità e vivacità fanno di lei una persona "speciale e fuori del comune, sempre pronta ad ascoltare e a sorridere", dicono gli amici. Riparto da qui è il suo romanzo d'esordio che pubblica con la casa editrice Librosì Edizioni.
Una nuova autrice emergente, degna di attenzione.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mag 2018
ISBN9788898190768
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    Anteprima del libro

    Riparto da qui - Beatrice Bracaccia

    Beatrice Bracaccia

    RIPARTO DA QUI

    Foto della copertina: Willy Leonardo Bracaccia

    Copyright © 2018 LibroSì Edizioni

    ISBN: 978-88-98190-76-8

    Cooperativa Editoriale Elzevira

    P.zza del Commercio, 35 - 05018 Orvieto

    Tel. 0763 342360 - librosi@librosi.it

    Questo romanzo è un’ opera di fantasia. Personaggi ed eventi sono invenzioni dell’autore. Sono presenti citazioni di luoghi reali reinterpretati in chiave romanzesca al solo scopo di arricchire l’azione e favorire l’intreccio narrativo.

    Martina

    Io e Pietro ci siamo messi insieme un sabato pomeriggio.

    14 aprile, terza media.

    Lui non era il più carino della mia classe, eravamo tutte innamorate di Simone, biondo, apparecchio ai denti, bocciato due volte, sempre in ritardo, un paio di sospensioni al suo attivo.

    Però era capitato che Pietro buttasse verso di me delle fugaci occhiate, di cui tutti, a quanto pare, si erano accorti. Ogni tanto avevamo anche parlato, più di tre frasi ciascuno. Insomma, si capiva che c’era qualcosa. Serena mi disse che lo aveva visto una volta con Filippo fuori dalla nostra aula, ed era certa che parlassero di me. Io non ne ero così convinta, ma invece aveva proprio ragione lei, perché di lì a poco ci fidanzammo.

    Andò più o meno così. Eravamo in sala giochi, luogo di culto del nostro gruppetto, come di tutti i gruppi della nostra generazione. In un momento lui si era staccato dai suoi amici e era venuto verso di me, che ero seduta a fianco delle mie amiche quasi pronta per andarmene via. Mi fece un cenno con la testa, come ad indicarmi di alzarmi e seguirlo. Lo feci, e gli andai dietro per almeno dieci passi. Poi lui si era fermato, si era girato e aveva detto: «Vuoi stare con me?».

    «Sì».

    «Ok, allora stiamo insieme».

    «Sì».

    «Va bene. Ciao».

    «Ciao».

    Quanto ci abbiamo riso. Fino alle lacrime quando ripensavamo a quel pomeriggio. Lui era impacciatissimo, io neanche avevo capito che stava succedendo. Mi confessò, qualche anno dopo, che avrebbe voluto prendermi le mani, ma le aveva così sudate da vergognarsi e non ne ebbe il coraggio. Il lunedì successivo, andai a scuola sentendomi ormai grande, voglio dire, ormai ero fidanzata. Lui mi aspettò fuori dal cancello.

    «Ciao».

    «Ciao».

    «Entriamo?»

    «Ok».

    Ed entrammo uno a fianco all’altra, tra gli sguardi di tutti, perché così stavamo dimostrando di essere effettivamente una coppia, ufficialmente. Quando suonò la campanella, mi trovai che mi aspettava fuori dall’aula.

    «Ti accompagno all’autobus».

    «Ok».

    E una volta arrivati alla fermata, a ben tre silenziosi minuti da lì, quando feci per salire il primo gradino si lanciò nell’intrepido gesto, mi dà un bacio sulla guancia e scappa via.

    Me ne innamorai all’istante, quel tuffo del mio cuore non lo si dimentica più. Ero diventata grande in un sabato pomeriggio. Ormai avevo un fidanzato e tutto il resto passava in secondo piano. Corsi a comprarmi il mio primo reggiseno, ormai ero una donna.

    Che darei per riprovare quella sensazione che mi chiudeva lo stomaco e mi faceva sentire così felice di essere al mondo! Quel piacere totale e immacolato che provi solo la prima volta che ti innamori, perché non pensi che un giorno quella tua straordinaria storia potrebbe finire, non lo sai quanto male atroce e inguaribile ci può essere dietro al distacco da quella meraviglia che adesso ti pulsa in petto. È proprio vero quando si dice che il primo amore non si scorda mai. Il calore del suo abbraccio, l’emozione del cuore che batte, che non più per una corsa sguaiata, ma perché dentro, adesso lo sai, era entrata la vita. Sembrava tutto così facile, semplice. Così tenero, a ripensarci oggi, che vorrei fermare il tempo con un clic, un battito di ciglio, uno starnuto anche, pur di non muovermi da lì. Forse ricordare non rende giustizia, si esagera un po’ nel dosare l’entusiasmo nel guardarsi indietro, il perché oggi lo so: quei giorni, quegli abbracci, quei baci avevano un nome: felicità. A 15 anni te lo puoi permettere, anche se non sei completamente scemo, di sentirti sul tetto del mondo, solo perché te ne vai in giro mano nella mano con un tipo che ha addosso il profumo più buono del mondo, ti invita a ballare i lenti, stretti e impacciati ma con la certezza di essere solo voi, uniti da quel turbine di emozione unica e irripetibile. Perché poi non lo sai che quella cosa lì se ne va via e potrebbe non tornare mai più.

    Mi piaceva così tanto quando mi chiamavano ‘la ragazza di Pietro’. Anni dopo seppi di lotte femministe volte a certificare che io donna non sono di nessuno, io sono mia e basta, il possesso non esiste. Io adoravo sentirmi sua, io intera mi sentivo solo a fianco a lui, non mi indeboliva affatto sentirmi così, era tutto quello che volevo, non desideravo altro, sognavo il giorno in cui i miei figli avrebbero potuto avere il suo cognome, fantasticavo visite dal dottore «Si accomodi Signora Viti» o alle udienze, dai professori dei nostri bambini «Dunque, vediamo un po’, lei è la Signora Viti, giusto?».

    2:13 a.m.

    Ultima sigaretta e poi me ne vado a letto.

    Quest’abitudine non me la toglierò mai; è una cosa a cui sono affezionata, lo faccio da una vita e sono schiava del timore che, se tentassi di privarmene, la nottata a seguire ne risulterebbe bianca, candida candida. Se è veramente così non lo so, non ci ho mai provato, per l’appunto. Mentre mi perdo in quest’ultima e profonda riflessione della giornata, un cinguettio del mio telefono mi avverte che qualcuno mi ha inviato un messaggio.

    È Valerio, mio fratello: «Tesoro, quando ti svegli chiamami, ciao».

    Lo richiamo subito, neanche termino di leggere l’ultima parola, mi risponde dopo mezzo secondo, non ho neanche il tempo di domandarmi, effettivamente, perché sia ancora sveglio, di martedì, a quest’ora.

    «Vale, ciao, sono ancora sveglia, che succede, che succede?».

    «Tesoro, ma sei ancora in piedi?».

    «Sì, te l’ho appena detto. Che succede? È papà? È successo qualcosa? Non può essere, ho parlato con lui alle dieci, è impossibile, vado subito, sono in pigiama, ma ci metto due minuti!».

    «Calma Marti, calma, stai tranquilla, il nostro paparino tutto ok».

    «Sì, ok... ma allora perché mi chiami a quest’ora?».

    «Scusa, ero sicuro che dormissi già», un momento di silenzio e poi: «aspettami, vengo da te», sospira.

    «Da me? Ma che sei matto? Dimmi subito immediatamente di che si tratta o chiamo la polizia».

    «La polizia? Ma che dici? È tutto a posto, te lo giuro. Anche Laura, tutto bene. Ma ho bisogno di parlarti, non al telefono però, tra un paio d’ore sono da te».

    Io non ci capisco niente, so solo che non si tratta di buone notizie se mio fratello da trecentocinquanta chilometri di distanza sta venendo da me. E di sicuro non sarà l’ultima sigaretta di questa sera. Di dormire, ormai, non se ne parla. E allora mi faccio un caffè, così mi tengo occupata per un buon quarto d’ora intero.

    Accendo di nuovo il riscaldamento, mi metto una felpa, sopra al pigiama. Ho tanto freddo, non vedo l’ora che arrivi Valerio mentre spero che non arrivi mai. Alle quattro e un quarto, eccolo che mi chiama.

    «Tesoro sono sotto casa, aprimi».

    Gli faccio incontro, mi abbraccia veloce e mi riaccompagna subito dentro; chiude la porta, si accarezza un po’ i capelli, mi fa sedere sul divano, si siede pure lui.

    «Dimmelo Vale, dimmelo. Lo so che non può essere una cosa buona che ti ha obbligato a farti trecento chilometri di notte fino a casa mia. Dimmelo».

    «Si tratta di Adele». La bellissima Adele. La donna più forte, regale, paziente, elegante ed intelligente che io abbia mai incontrato. Adele la mia grande amica, o amica grande, come mi correggeva sempre lei.

    Adele, la mia insostituibile sostenitrice. Adele che difendeva sempre e comunque me. Adele, che quando mi sono rotta il piede, oltre ad accompagnarmi all’ospedale, è rimasta fino a che non mi hanno fatto tornare a casa, con gesso e stampelle che non sapevo neanche usare, perché mia mamma aveva iniziato a tremare quando l’avevo chiamata per chiederle di venire a prendermi visto che non potevo guidare e non aveva retto alla tensione che si respirava in sala gessi, sentendosi, pertanto, costretta e giustificata a mollarmi lì, tanto, ringraziamo Dio, non ero da sola. Adele, che mi lasciava la colazione pagata al bar, perché con quei quattro euro che mi trovavo di più in tasca, così, potevo comprarmi le sigarette, fumarne almeno una dedicandole un paio di tirate fatte col sorriso, ed offrirne, dallo stesso pacchetto, una a lei quando andavo a cena a casa sua, almeno una volta a settimana, tutte le settimane, ogni giovedì, per sei anni.

    Adele, la madre di Pietro.

    Adele

    Prima di iniziare a frequentare casa Viti la temevo da morire. La vedevo passare ogni giorno, questa splendida signora dai capelli bianchi candidi, curatissima, con il cane al guinzaglio: un quadro perfetto. Era una principessa ai miei occhi, io, ragazzina inconcludente, che trascorreva ore su ore a fantasticare ad occhi aperti e ad occhi chiusi. Poi la sera che festeggiava i suoi diciassette anni, Pietro decise che mi sarei dovuta fermare a cena da loro, a casa di Adele, che avrebbe cucinato per tutti.

    Arrivammo mano nella mano, io e il mio adorato cavaliere, e tutto era già pronto.

    Lei mi accolse dicendo questa frase: «Molto piacere, tu sei Martina, lo so già, io sono Adele, lo sai già. Se mi dai del Lei mi incazzo, se sei una maleducata non sarai mai più invitata a casa nostra, se sei una con la puzza sotto il naso, hai sbagliato posto. In tutti gli altri casi, sei la benvenuta».

    Basita risposi «No» che non significava niente, e mi sono odiata a morte per quello stupido no. Quanto ci abbiamo riso, io e Adele, su quel mio No, negli anni a seguire, ogni tanto la ritirava fuori questa storia, lei faceva me ed io facevo lei, ed era uno spasso; mi aveva così intimidita che non capivo più niente. Volevo dire che, "No, non sono

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