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Carne coltivata: cosa sappiamo?

USA e Singapore la producono e consumano; il governo olandese ha investito milioni di euro per la creazione di un ecosistema per la carne coltivata e la fermentazione di precisione; il governo britannico ha annunciato un centro di ricerca sulla carne coltivata; quello tedesco ha stanziato milioni di euro per accelerare la transizione e sostenere gli agricoltori che desiderano passare alla produzione di proteine vegetali, fermentate e coltivate. In Italia, il dibattito sulla carne artificiale è invece ancora più che acceso, quindi la strada per vederla sul banco del supermercato, e chiedersi se e come cucinarla, è ancora lunghissima.

Facciamo quindi un passo indietro e ripercorriamo i gradini che portano alla definizione. Il processo di produzione inizia quindi prelevando alcune cellule da un animale vivo (ad esempio, cellule muscolari di bovini, maiali, tacchini, polli, anatre e pesci, tra quelli sperimentati finora), queste vengono poi coltivate in un ambiente nutritivo (in vitro), dove si moltiplicano e si differenziano in tessuto muscolare. Questo cosiddetto viene inserito con altre sostanze nutritive e acqua in un fermentatore dove la condizione delle cellule varia e iniziano a distinguersi le varie parti di carne, come grasso, muscolo, per creare prodotti simili alla carne che consumiamo tradizionalmente. Infine, l’acqua viene rimossa e la carne è “pronta”. La carne artificiale quindi non rappresenta un’alternativa ma, a favore delle argomentazioni di quanti si battono per gli animali, rappresenterebbe un’alternativa al loro allevamento e abbattimento. Una bellissima idea? Si, no, forse. Le motivazioni si basano, da una parte, su studi che smentirebbero i dati sostenuti da gran parte dell’Europa (ovvero, che un sistema di produzione di carne coltivata che utilizza energie rinnovabili potrebbe ridurre l’impatto sul clima fino al 92%, l’inquinamento atmosferico fino al 94% e l’utilizzo di terreni fino al 90% in meno rispetto a uno scenario di produzione di carne bovina convenzionale); dall’altra, su Gli studi italiani al momento suggerirebbero che la carne coltivata non sarebbe migliore per l’ambiente di quella bovina, ma soprattutto, l’Italia sostiene il “ ”, con l’ausilio niente meno che di Coldiretti e altre associazioni di categoria contrarie a “un prodotto sintetico e ingegnerizzato, che non salva l’ambiente perché consuma più acqua ed energia di molti allevamenti tradizionali, non aiuta la salute perché non c’è garanzia che i prodotti chimici usati siano sicuri per il consumo alimentare e, inoltre, non è accessibile a tutti poiché è nelle mani di grandi multinazionali.  ”. Secondo uno studio pubblicato sull’, su dati raccolti nei paesi già coltivatori di carne, la carne coltivata sarebbe efficiente nella riduzione dell’impatto ambientale, prima di tutto perché, evidentemente, l’uso del suolo agricolo è ridottissimo rispetto a quello degli allevamenti, non è necessaria di conseguenza l’enorme quantità di foraggio e letame che gli allevamenti intensivi richiedono con ricadute esponenziali sulle emissioni. Di conseguenza, considerando che l’agricoltura animale è il maggior responsabile della deforestazione e la domanda globale di carne è in continuo aumento, la carne coltivata potrebbe utilizzare fino al 90% di suolo in meno, contribuendo a soddisfare la domanda e creando spazio per gli ecosistemi. Inoltre, . Secondo studi della Commissione Europea in materia di Agricoltura e Sviluppo rurale, l’Europa somministra oltre il 45% dei raccolti che coltiva agli animali e importa oltre 25 milioni di tonnellate di soia per i mangimi animali ogni anno. Anche questi numeri scenderebbero. (come trattamento e come misura preventiva), Di conseguenza, tutte le malattie scaturite dall’allevamento intensivo, come ad esempio la peste suina africana e l’influenza aviaria, il campylobacter e la salmonella, si scongiurerebbero. i punti critici per il clima risiedono infatti nell’energia utilizzata per mantenere la temperatura nei reattori e per la produzione biotecnologica degli ingredienti del terreno di coltura. I produttori di carne sintetica dovrebbero quindi ottimizzare l’efficienza energetica e cercare energia rinnovabile per rendere la carne coltivata un’alternativa sostenibile a tutte le carni convenzionali. I governi dovrebbero quindi tenere grande considerazione della crescente domanda di energia rinnovabile di questa industria emergente: gli investimenti pubblici nella ricerca sono infatti fondamentali per accelerare i progressi e renderli accessibili all’intero settore, che potrebbe così affrontare i costi dei mezzi di coltura cellulare. Infine, Per arrivare a ciò, anche il linguaggio è fondamentale: il Good Food Institute (ente no profit nato nel 2016 per studiare l’alternativa proteica e sostenibile, attivo a livello mondiale e promotore di studi di ricerca in linea con l’europeo Food 2030 e l’European Green Deal, Farm to Fork strategy and Bioeconomy strategy) preferisce al termine carne sintetica il termine “carne coltivata”, meno fuorviante: il termine “sintesi” infatti implica la creazione di molecole complesse attraverso una serie di reazioni chimiche, mentre nel caso della carne coltivata, si preleva un campione di cellule e lo si lascia moltiplicare in un ambiente controllato “come accadrebbe all’interno del corpo di un mammifero”. Coltivare la carne è quindi una potenziale soluzione? Probabilmente no se fine a sé stessa, se rappresentasse un’altra carne presente al supermercato, per di più, esclusiva a livello economico. Forse sì, invece, se mezzo e fine di (ben più) ampie rivoluzioni, prima di tutto mentali.

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