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Il vicario delle Ardenne
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E-book352 pagine5 ore

Il vicario delle Ardenne

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Info su questo ebook

Possono due fratelli amarsi senza destare scandalo. Si, solo se vivono ai margini della società civile. Anzi, lontani dalla società civile. Balzac ne racconta il dramma, vissuto in una Francia post Rivoluzione. Finché i due protagonisti, Joseph e Mélanie, vivono lontani, in un’isola sperduta delle Americhe proprio per sfuggire alle persecuzioni dei sanculotti, non hanno regole, non hanno leggi a cui obbedire. Sfuggiti per miracolo ai pirati e reintrodotti negli ambienti d’origine, scatta il divieto di amarsi. I loro sentimenti sono puri, talmente intensi da togliere il respiro. Però non possono viverli. La separazione porta a inevitabili conseguenze, a scelte da cui non è più possibile tornare indietro. Il loro amore sarà alla fine possibile? E che ruolo ha in tutto questo il crudele pirata Argow?

LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2014
ISBN9788897093473
Il vicario delle Ardenne
Autore

Honoré de Balzac

Honoré de Balzac (1799-1850) was a French novelist, short story writer, and playwright. Regarded as one of the key figures of French and European literature, Balzac’s realist approach to writing would influence Charles Dickens, Émile Zola, Henry James, Gustave Flaubert, and Karl Marx. With a precocious attitude and fierce intellect, Balzac struggled first in school and then in business before dedicating himself to the pursuit of writing as both an art and a profession. His distinctly industrious work routine—he spent hours each day writing furiously by hand and made extensive edits during the publication process—led to a prodigious output of dozens of novels, stories, plays, and novellas. La Comédie humaine, Balzac’s most famous work, is a sequence of 91 finished and 46 unfinished stories, novels, and essays with which he attempted to realistically and exhaustively portray every aspect of French society during the early-nineteenth century.

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    Anteprima del libro

    Il vicario delle Ardenne - Honoré de Balzac

    XXXII

    Prefazione

    (da leggersi, potendo)

    Siccome si potrà censurare, e senza dubbio quest’opera sarà censurata, comincerò dal dire a mia discolpa che io sono giovane, senza esperienza, ignaro della mia lingua, quantunque studente in lettere… e allora i critici non sbaglieranno se troveranno qualche peccatuccio di stile che salta fuori qua e là… Quest’opera però non è mia, perché se l’avessi fatta io non mi sarebbe certo venuto in mente di scrivere una prefazione. Il mio amor proprio, infatti, non mi permette di scrivere una sola parola quando sia persuaso che non sarà letta.

    Fatti tacere con questa franca confessione i malevoli, mi rivolgo alla parte più sana del pubblico, a quelli che avranno il buon senso di leggermi, a quelli non ancora presi dal delirio della politica, a coloro che, slanciandosi in un mondo ideale creato da un autore valente come me, vivono con esseri immaginari, che li divertono o qualche volta li annoiano, perché non c’è nulla di perfetto, nemmeno nei romanzi.

    A costoro ho serbato la spiegazione dell’enigma compreso nelle prime righe di questa prefazione. Sarò sincero, oserò confessare i miei torti e comparire davanti al tribunale dei lettori di romanzi, chiedendo perdono se parlo di me… Ma siccome dobbiamo star insieme un bel pezzo, perché avrò un trenta opere da pubblicare, credo che potremo senza pericolo aprirci l’animo nostro.

    Dicono che io sono bisbetico, soggetto alle affezioni nervose. Un medico mio amico m’assicura che ho gli ipocondri sviluppatissimi… Qualcuno penserà che sia una sciocchezza, ch’io informi il pubblico di quello che ho e che non ho… Ma è forse una cosa singolare che uno voglia per sé a vent’anni quanto il genio non ottiene che dopo la morte? Pazienza!

    Lo sviluppo dei miei ipocondri indica come io non possa vivere con alcuno, come veda ovunque il vizio, la corruzione, come tutto mi sembri tinto di nero, spregevole, basso. Ho degli amici che mi sfuggono, persuasi che io abbia tutti i difetti che trovo negli altri. È una vera impostura, perché sono un uomo discretissimo, niente affatto invidioso, quantunque letterato, povero, e di null’altro curante fuorché d’un po’ di danaro e di gloria.

    Mi sono, quindi, poco tempo fa riparato al Pêre Lachaise, a detta del mio medico per i miei ipocondri, a detta mia per la noia in cui m’è venuto il genere umano. Speravo di trovarvi uomini virtuosi, e di modi gentili… Ma ho trovato ben altra cosa.

    Cominciamo col dire che in questo luogo sono tutti modelli di virtù, in genere, numero e caso. Il mondo è alla rovescia. Le spose sono fedeli, le madri adorate, i figli legittimi, nessuna donna è schizzinosa e caparbia, gli uomini sono la virtù personificata con ottimi attestati di buoni costumi. Insomma, è tutto un altro mondo, dove regna una pace, una calma, una decenza ammirabile.

    Ho visto anche dei pomposi signori recare per comando delle loro signore, con aria addolorata, le offerte delle vedove, e sparger fiori sulla fossa per procura, e chissà forse ancora non piangessero a comando.

    Insomma, ho passeggiato con vero piacere fra gli archivi della morte, e vi ho trovato quella pace, quella libertà che fanno dolce la vita. Non ho attaccato briga con alcuno, nessuno ho offeso con le mie parole, nessuno si è rizzato dalla tomba rimproverando i miei sarcasmi innocenti. E se si toglie qualche statua atteggiata dallo scultore in modo che sembra guardi in cagnesco, me ne sarei partito soddisfattissimo della gentilezza dei miei ospiti. Invece, un giorno ho incontrato un giovanotto non lontano dalla tomba d’Eloisa e siccome mi ero quasi svezzato dell’importuna compagnia degli uomini, esaminai quel cristiano come si esamina un panno di cui dobbiamo vestirci per forza.

    E qui è cominciato il mio delitto.

    Mi sono avvicinato quatto quatto e mi sono accorto che stava seduto su uno di quegli sgabelli riducibili a un bastone. Teneva sulle ginocchia un grosso plico di carte su cui andava facendo degli sgorbi.

    Ho riconosciuto uno degli artisti che disegnano monumenti e vivono della morte. Un’idea mi ha fatto avanzare verso di lui senza complimenti… M’hanno sempre detto che il mio volto non è molto gentile, e che se m’incontrassero in mezzo a un bosco scapperebbero anche i miei più cari amici. Se potessi incontrarmi da me medesimo forse farei lo stesso anch’io. Sia come sia, il mio improvviso mostrarmi e il mio sorrisetto hanno messo in fuga il giovanotto.

    Rimasto padrone del campo, l’ho esplorato per lungo e per largo. Ho scoperto una colonnetta di marmo su cui era stato scolpito: Fra poco. Quell’inscrizione mi ha fatto cambiar del tutto d’umore. Il terreno su cui innalzava la tomba era pesto, nudo d’erbe, non mostrava la cura che si prodiga ai sepolcri.Tutto esprimeva un dolore selvaggio, cupo, muto, senza pompa. Forse quel giovane prometteva più di quanto non avessi immaginato.

    Fattomi in disparte, l’ho rivisto tornare a quel marmo su cui si è appoggiato e ha ripreso a scrivere. Non un sospiro, non una lacrima. Non si rodeva le unghie. Mi ha fissato per qualche istante, finché si è abituato alla mia presenza. Approfittando dei momenti in cui scriveva mi sono avvicinato, finché non sono giunto a tre passi da lui. Poi, prima che avesse tempo di proferire una parola, mi sono messo al suo fianco.

    Ma appena lo sconosciuto si è accorto di me, si è alzato ed è scappato una seconda volta.

    L’indomani ero di nuovo al cimitero. Arrivando alla tomba cui mi ero fermato il giorno prima, ho ritrovato il giovane, sempre intentissimo a scrivere con la medesima rapidità, sempre pallido, sempre con gli occhi semispenti, con i capelli umidi di rugiada. Aveva forse passato lì la notte? Ma come? Perché?

    Ah, non ho avuto alcun dubbio. Si trattava di un affare serio, ma serio assai. Avevo davanti a me uno sventurato? Ero preso da vivissima compassione, e anche da una certa curiosità di sbirciare un tantino in quel manoscritto. Toccando allora le corde più patetiche della mia voce ho detto allo sconosciuto: Signore, mi pare molto afflitto. Se posso esserle utile in qualche cosa… Sono studente in lettere, e…

    No.

    Quel no, quantunque pronunciato con accento severo, hacominciato a darmi qualche speranza, perché se non altro il giovane mi aveva parlato. In quel momento gli è caduta la penna di mano. L’ho raccolta e, porgendogliela con tutta quella buona grazia che mamma natura m’ha concesso, ne ho ottenuto un cenno di testa piuttosto amichevole.

    Ne rimasi contento, e come quei cani che tengono dietro al loro padrone, odorando e occhieggiando finché possono il boccone che tiene in mano, ho continuato a seguire con l’occhio la penna, quando scorreva da un capo all’altro del verso, e quando andava a bagnarsi nel calamaio.

    Mi sono scervellato per capire che razza d'eventi inducessero un uomo a scrivere all’aria aperta, anziché in uno studio ben caldo e su un comodo tavolino. All’improvviso il giovane ha fatto uno sgorbio alla fine della pagina, ha arrotolato lo scritto in un altro foglio di carta, si è alzato dallo sgabello, si è seduto per terra, ha appoggiato la testa contro il marmo, ha incrociato le braccia, ha chiuso gli occhi e non si è più mosso.

    Era bello quel volto, nobile quella postura. Ma in ogni suo atto c’era una certa impronta di bizzarria, direi anzi di pazzia, e fattomi forte di tutta l’eloquenza acquistata in dieci anni spesi a studiare i sapientoni di cui va superba la Francia, gli ho detto: Giovanotto, mi ascolti. Ci sono dei momenti in cui l’anima abbattuta, prostrata, mal regge il peso delle miserie umane… talvolta il fiore della vita perde il suo delizioso profumo, e pochi freddi pensieri bastano a precipitarci dall’alto del trono immaginario costruito su fantastiche idee… ma alla notte succede il giorno, al dolore il piacere, al rigido inverno la primavera… suvvia, si tolga di dosso la sua afflizione come un mantello troppo pesante.

    Al suono della mia voce, il giovane ha sollevato gli occhi e ha risposto:

    Di grazia, signore, lasciatemi in pace, lasciatemi morire tranquillo.

    Morire! ho gridato, correndo da lui, e prendendolo per la saccoccia in cui stava il manoscritto.

    Come posso vivere? La mia anima è là e mi ha indicato il marmo contro cui era appoggiato. Intanto, con mia grande consolazione, quel suo movimento gli aveva fatto cadere di tasca il manoscritto.

    Ebbene, viva senz’anima. Ce ne sono alcuni che non ne hanno, farà come loro.

    Amico mio ha aggiunto lui mentre posavo una mano sulle sue palpebre. La morte è dolce agli infelici.

    Eh, mio signore e amico, per disgraziati che siamo la vita è cara a tutti. È un peso, se vogliamo, ma un peso che portiamo volentieri, e se gli uomini non lo tirassero un po’ di qua un po’ di là, lo porteremmo volentieri anche nell’al di là…

    Acqua! Acqua! ha invocato e il manoscritto è scivolato per terra.

    Che cos’ha? ho detto io, raccogliendo il rotolo.

    Io muoio… io voglio… voglio morire… Addio Mélanie, addio madre mia.

    Senza perdere tempo ho intascato il manoscritto e sono corso a cercar qualche soccorso. Invano. Tornando indietro ho trovato l’infelice morto, con la bocca piena d’erbe, le unghie conficcate nel terreno, le membra contratte, le labbra posate su un ritratto di donna. Mi sono affrettato a raccogliere quella miniatura. Non per la catenella né per il cerchietto d’oro puro che l’adornavano, ma perché quel ritratto doveva, a mio avviso, aver parte importantissima nell’avventura terrena di quel giovanotto. La sua morte mi ha addolorato e ho trovato qualche conforto solo pensando che aveva voluto a ogni costo morire, e che quand’anche fossi giunto prima, certo avrebbe rifiutato ogni soccorso.

    Nel lasciare il cimitero ho visto una carrozza a due cavalli correre a gran galoppo. Si vedevano sulla portiera insegne da Marchese. Una donna ne è uscita esclamando: Salvate mio figlio… salvate il figlio mio!

    Quel giovane aveva una madre, ma se con ciò qualcuno credesse di contrastarmi il diritto di proprietà sul manoscritto, risponderei: Il giovane m’ha chiamato amico. La sua benevolenza mostrava certo l’intenzione di lasciarmi il manoscritto, perché questo tipo di carte non si affida che ad amici. L’intenzione è chiara e manifesta.

    In fondo, alla fine che cosa avrebbe fatto la madre? Avrebbe rotto il ritratto, stracciato il manoscritto e la Francia sarebbe rimasta priva di questo lavoro.

    Io ho letto il manoscritto, e mi sono persuaso che non è stata mai redatta una storia più commovente. L’ho mostrato a un fior di libraio del mio quartiere, ci saremmo aggiustati benissimo nel prezzo. Ma poi lui ha protestato di non voler stampar nulla se prima un letterato non ci aveva messo mano. Io allora, guardandolo con quella nobile altezzosità che s’addice a un ingegno modesto, gli ho detto: Sono studente in lettere, lo sa? e s’intende benissimo come tale dichiarazione fosse necessaria.

    Ordunque, quanto leggerete è purtroppo verissimo, ed è un diamante grezzo da me pulito, incastonato e sfaccettato. Se ci troverete qualche magagna datene colpa al morto, e se ci sarà del merito, vogliate, ve ne prego, attribuirlo al curatore.

    Saprete anche quanta fatica c’è voluta per indovinare con la sola immaginazione quanto il manoscritto del giovane non diceva, e per ordinare la storia in modo che ne uscisse un’opera drammatica nell’orditura e nei caratteri.

    Avevo qualche danaro in saccoccia - un caso, perché le saccocce d’uno studente in lettere sono sempre vuote - e ho speso il mio patrimonio per andarmene a piedi ad Aulnay-le-Vicomte. Là mi sono informato dei particolari omessi dal giovane, e ho dato al quadro una cornice che, modestia a parte, si troverà, voglio credere, di qualche pregio.

    Siccome poi il libraio non mi ha rimborsato le spese del viaggio intrapreso per interesse di tutti, supplico coloro che avranno la bontà di leggermi di fare in modo che se ne intraprenda una benedetta seconda edizione, unica maniera d’impedire la completa rovina di un povero studente che comincia le sue prime operazioni di Letteratura commerciale. Nel dar termine a quest’amichevole colloquio con i miei giudici, li supplico anche di perdonarmi d’averli messi al corrente dei miei affarucci, e raccomando un’altra volta d’armarsi di pazienza e di coraggio, e segnatamente di concedermi la loro amicizia. Per la mia, sarebbero sicuri di ottenerla… a una seconda edizione.

    E. Saint-Aubin

    Studente in Lettere della

    Università Reale di Francia

    Isola S. Luigi, 30 settembre 1822

    I

    Era un affaccendarsi in tutto il villaggio d’Aulnay, vicino alla foresta delle Ardenne. La campana della chiesa suonava con forza e rapidità. Quasi tutti i coloni, poggiati alle porte delle capanne, guardavano in silenzio verso l’imboccatura del casale, mentre le donne, cianciando da un capo all’altro della contrada o dalle finestre, avrebbero messo la curiosità in corpo anche allo stoico più sperticato.

    Parlavano della gioventù, dell’ingegno, della condotta d’una persona attesa. Molti, raccolti in crocchi, sembravano intenti a discutere d’importanti argomenti e ognuno, vestito con sfarzo molto maggiore di quanto non richieda un dì di festa, aspettava il tocco della messa, per esser presente alla cerimonia d’insediamento d’un giovane vicario, mandato dal vescovo d’A. I più dotti, vale a dire coloro che leggevano correntemente, portavano un libro di preghiere, vecchio cimelio di famiglia con i canti laceri e bisunti.

    Non c’è nulla di più facile che render ragione del mormorio, dei discorsi, dello sghignazzar dei villani, dell’attesa dipinta su tutti i volti nell’occasione d’un evento che può sembrar semplicissimo.

    Il comune d’Aulnay-le-Vicomte, in quanto capoluogo del cantone, era perfettamente separato dalle circostanti città da tre leghe che non finivano mai. Figuratevi quindi se ottocento buoni uomini cacciati in una valle solitaria non hanno ragione d’infastidirsi quando ne capita uno di più in mezzo a loro, e soprattutto quando capita munito d’una autorità difficile a collocarsi nella gerarchia dei poteri campestri. Tutte le autorità del luogo erano convenute sul sagrato della chiesa per discutere una decisione tanto straordinaria quanto inaspettata.

    Per dare un’idea dell’effetto prodotto nel villaggio dal decreto episcopale, val la pena collocare il lettore nel centro del conventicolo dei caporioni locali. Il personaggio più prestigioso era il sindaco,droghiere del villaggio. Accarezzava con una certa soddisfazione gli avanzi d’una vecchia veste di florence bianca. Accanto a lui si trovavano i sergenti del potere municipale, in altre parole la guardia campestre con la sua bella piastra e il suo accendino, e il portalettere in alta uniforme.

    Poco lontano da quel triumvirato, il signor Engerbè, il più grosso fittaiolo del villaggio, e Marcus-Tullius Lesecq, maestro di scuola e precettore del figlio del fittaiolo, sembravano l’un contro l’altro puntellati. Al centro si trovava il signor Lecorneur, esattore, il quale, le dita intrecciate sulla pancia, ciarlava con un aggiunto, sindaconel l8l5. Il giudice di pace, con tanto di toga e di berretto quadrato, saltava intorno a quel gruppo, un po’ a dritta e un po’ nel centro, senza mai star fermo un momento.

    Alcuni abitanti gironzolavano qua e là per saper di cosa si parlasse in quel concilio, e per capir da che parte tirava il vento politico.

    Sì, signori, lo dico e lo sostengo gridava Marcus-Tullius, con una voce stentorea. Se monsignore manda un vicario, è perché il signor Gausse non sa il latino. Si ha un bel dire che sono stato io ad averne informato monsignor vescovo, ma è cosa che tutti sanno anche troppo, senza che nessuno vada a raccontarlo.

    Capirete dunque continuò "che monsignor vescovo ha dovuto dare un vicario al signor Gausse, più per badare alla sua condotta che come aiutante, perché il sacerdozio poi, summus pontifex,non è sì gran peso che…"

    Che diavolo! Signor Marcus-Tullius, bisogna essere di buona fede soggiunse Lecorneur, che pranzava spessissimo dal curato. Il signor Gausse non merita questi affronti, è un buon curato, di costumi irreprensibili, e da quando io sono in carica, non s’è mai fatto ripetere due volte l’avviso di pagare i contributi. Chi l’ha mai visto guardare una donna in faccia? Perché la Marguerite… ha i suoi anni… Avete un bel sapere il latino, signor Marcus, ma non si diventa geni con il latino.

    E nemmeno con le tabelle e i tariffari rispose il maestro di scuola.

    Non ho mai fatto ostentazione del mio sapere… non lo negherete… riprese l’esattore. E quantunque io sappia la regola del tre, non me ne sono ancora vantato: ma tornando al curato, tutto il latino con cui condisce le parole non vale le ottime massime che c’insegna in buon volgare; quelle sì che hanno del sale, tutti le capiscono, e qualche volta sono migliori di tante prediche. Per finirla poi, e rispondere a voi che dite che il sacerdozio non è sì gran peso, pensate un po’, di grazia, che qui vi sono ottocento persone da battezzare, confessare, maritare, da raccomandar loro l’anima; considerate inoltre che il signor Gausse ha settantasette anni, che è infermo e ha bisogno d’aiuto: e se finalmente gliene mandano uno, che cosa c’è di così straordinario? Oh, dicono che questo vicario è giovane! Caspita, è naturale! Mandano forse un vecchio ad aiutare un altro vecchio?

    Sì, sì, sono parole belle e buone disse il sindaco. "Ma v’ingannate nelle vostre conghietture. Se ci mandano il vicario, è solo considerando che il signor Gausse ha dato giuramento, e…"

    A queste parole il portalettere e la guardia campestre chinarono la testa, volendo dire lo so anch’io.

    Lecorneur, soffocato da quest’argomento d’alta politica, tacque.

    Marcus-Tullius, nemico del curato, volle dar l’ultimo colpo.

    "Se i costumi del signor Gausse sono puri, non è per merito suo, e se è invitus, come dice Cicerone, se ne compensa poi con la golosità, vino et inter pocula."

    Il giudice di pace buttò l’olio sul fuoco aggiungendo: È una disgrazia l’avere un curato inetto, perché un vicario è un peso per il Comune.

    L’aggiunto, dimesso dal suo impiego di sindaco nel 1815, prese allora la parola.

    Ma di che vi lamentate? Il Comune non è forse abbastanza ricco da poter pagare un vicario? A meno che le sue rendite non siano diminuite disse dando un’occhiata significativa al suo successore. Ma il guaio non sta qui. Vedo bene di che si tratta; voi siete ambiziosi e avidi di potere. Or bene, poiché il signor Gausse è più ricco di voi, è forse una buona ragione per cucirgli i panni addosso? Mangia bene e beve meglio, dite voi: e perciò ha forse fatto male il suo mestiere? Ha sepolto un vivo per un morto? Ha rifiutato di venire a un battesimo, di benedire i matrimoni, anche un po’ stagionatelli? Lui è ricevuto al castello, e voi no…

    Come, come? gridò il droghiere. La signora Marchesa non m’ha forse convocato due volte?

    Sì, per pregarvi di comandare le riparazioni alla strada del castello rispose in tono beffardo l’aggiunto.

    E un’altra volta, il giorno di San Luigi vi abbiamo pranzato io e la mia sposa rispose il sindaco.

    Sia com’esser si voglia, le vostre teorie sulla venuta del giovane vicario non hanno senso logico: è cosa chiara e palese che vi sono altre ragioni, segrete, importanti, politiche forse… Insomma, leggete i giornali e vedrete lo stato della politica europea.

    Il signor Lecorneur, vedendosi spalleggiato, prese di nuovo le difese del parroco. Rivolgendosi al sindaco -meravigliato dalle parole del suo implacabile predecessore - gli disse: Insomma, signor sindaco, chi è che prende da voi più caffé, zucchero e cioccolata del signor Gausse?

    È vero rispose il droghiere.

    Marguerite non si compera due vesti all’anno?

    Sì.

    Non siete voi che somministrate il panno e la tela al curato?

    Anche questo è vero.

    I maccheroni, il pepe, il sanvincenzo, l’olio, le candele di cera… non siete voi che glieli vendete?

    E spero anche non se ne debba pentire, dal momento che non l’ho mai ingannato, né nel peso, né nella qualità della mercanzia, perché… sebbene nel sistema decimale… non vi sia più d’una mezza libbra… perché… siccome la divisione… essendo formata in altro modo, per questo… capite… sono come cinque quarti per libbra, e…

    Il sindaconon ebbe mai la fortuna di riuscire a farsi intendere… né di dirne una per il giusto verso: guardò Tullius e questi, avvezzo a quel segno d’intelligenza, terminò il periodo.

    "E il signor Gravadel ci avrebbe rimesso non poco nel suo negozio, negotia,se i cinque decigrammi non fossero stati a buon dritto sostituiti alle quattro quarte dell’antico regime."

    Ecco! disse il sindaco. Non ci abbiamo guadagnato!

    L’esattore terminò questa digressione decimale esclamando: È come i nostri cinque centesimi che non fanno che un soldo d’una volta e prendendo il signor Gravadel per un bottone penzolantegli dal vestito, gli ispirò doppia inquietudine, dicendogli: Non è vero, tornando al signor Gausse, che avrebbe potuto far le sue provviste dal nuovo droghiere del villaggio?

    Oibò, signor esattore, Iames-Stilder non ha quasi niente in bottega! Fabbrica male i liquori, bagna il sale, gonfia il riso, e caccia della cicoria nel suo caffé macinato: lo so da fonti attendibili, e so anche dove va a prenderla.

    Potrebbe essere, signor Lecorneur, e il signor Gausse fa il suo dovere venendo a far le sue spese nella vostra bottega: ma confessate inoltre che non dà mai pranzi senza che ci siate anche voi!

    È vero.

    E anche oggi non siamo forse invitati alla colazione per l’insediamento del vicario?

    Sono stato dimenticato disse Tullius con ira.

    Vi furono delle buone ragioni per farlo soggiunse l’esattore.

    ripigliò il sindaco,ormai interamente conciliatosi con il curato. Voi, Tullius, voi dipendente del signor Gausse… voi…

    Voi non avete alcuna pietà per lui disse Lecorneur. Lo soffocate sotto il peso della vostra erudizione e del vostro latino.

    È vero continuò il droghiere. "Ma il vostro orgoglio potrà anche sgonfiarsi; il sotto prefetto ha detto ultimamente che l’accumulanza era proibita."

    Ora, soggiunse Lecorneur, voi siete segretario del sindaco,maestro di scuola, primo cantore, esattore al mercato… e…

    E fanno quattro cariche, se il conto è giusto soggiunse Gravadel. E se non avrete più riguardi per i vostri superiori, potreste anche…

    Perderle disse l’esattore.

    A queste parole, e allo spavento di Tullius, Gravadel, fattosi più mite, soggiunse: So che voi mi siete utilissimo per il carteggio, ma non per questo dovete credervi un’aquila; avrei voluto vedervi io, con tutto il vostro latino, quando si trattava della riparazione delle strade comunali.

    Sì, statene anche a parlare saltò su il fittaiolo che fino allora non aveva fiatato. Avete sì ben speso i mille franchi che c’è mancato poco che l’altro giorno la mia giumenta grigia non si rompesse il collo in una fossa mal sistemata!

    Tullius aveva già troppo da fare con il sindacoe il signor Engerbè per dire una parola, perciò se ne stette impassibile.

    Il fatto è che avreste potuto ripararla meglio gridò l’antico sindaco,rizzandosi sulla punta dei piedi e accarezzandosi il mento.

    Gli occhi scintillanti del droghiere minacciavano una tempesta, ma il buon esattore la stornò dicendo a Lesecq: Avrei voluto vedere io a che cosa vi avrebbe giovato Cicerone, nel rendiconto dei prestiti forzosi, al tempo del passaggio degli alleati!

    Engerbé, vedendo il precettore di suo figlio martoriato da tutte le parti, soggiunse: È vero che non ve la siete cavata male, signor Lecorneur; perché in quel tempo là, o press’a poco, le vostre rendite sono aumentate e avete comperato la casa: ma non lo dico per parlare: oh bella, a ognuno il suo mestiere.

    Sì, disse Lesecq, "Cuique suae clitellae, ognuno la sua clientela."

    Ma dove metteremo questo giovane vicario? domandò il giudice di pace.

    Nel presbiterio rispose Gravadel.

    Si potrebbe notò l’esattore, ricavare di che alloggiarlo dalle imposte addizionali.

    Ne abbiamo anche troppe, di tasse gridò il fittavolo.

    Signori disse Marcus-Tullius, pavoneggiandosi e piantandosi in mezzo al crocchio. Volete che vi dica io la vera ragione dell’arrivo d’un giovane vicario grande e grosso?

    Qual è? domandarono in coro il sindaco,l’aggiunto, l’esattore e il fittaiolo.

    Ma disse Lesecq non capite che la Marchesa di Rosann avrà voluto dare un posto a uno dei suoi protetti? Non si ha sempre accortezza da vendere lontano da Parigi, capite, e sappiamo tutti che il povero signor Gausse non è tanto destro da barcheggiarla.

    Marcus-Tullius non era mai sì contento come quando aveva detto una cattiveria: avrebbe sacrificato tutto per far un po’ lo spiritoso. Povero e bisognevole dei soccorsi dei suoi capi, cuciva loro i panni addosso senza pietà, ma tutta la cattiveria stava nella lingua.

    Intanto che i buoni compari d’Aulnay-le-Vicomte cianciavano tra loro, il curato Gausse era in un grande impiccio. Una semplice lettera venuta dal vescovado d’A. lo avvisava che, il 4 maggio, il signor Joseph, giovane seminarista che aveva di fresco ricevuto gli ordini, sarebbe venuto a sollevarlo dalle sue auguste funzioni con il titolo di vicario, e sarebbe stato posto in grado con pompa e dignità. Al vescovo pesava di non poter presiedere a quella cerimonia, per cui avrebbe nominato tre curati dei dintorni per farne le veci.

    Si capirà che le parole giovane seminarista furono diffuse in tutto il villaggio dalla serva del curato, che non si trattenne dall’infiorar quest’epiteto con commenti e congetture che solleticarono a buon dritto la curiosità.

    Finalmente due giorni dopo Marguerite, aiutata dal maggior dei cantori, scopava e ripuliva il presbiterio con la massima diligenza: la polvere che vi aveva preso alloggiamento fu combattuta con tanta tenacia che dovette sgombrare da quei luoghi sino allora ritenuti inaccessibili. Tutto divenne lustro come l’oro; la serva gironzolava nella cucina intorno a cinque fornelli accesi. Piovevano le provvigioni e chi le portava dava un’occhiata ai preparativi di Marguerite e, dopo l’occhiata, diceva il suo parere, e intanto chiacchierava un pochetto e la nostra serva ci dava dentro di gusto.

    Il curato, di buon mattino, aveva speso una mezz’ora a discendere nella sua cantina per far la scelta dei vini più buoni e dei migliori liquori.

    Terminati i preparativi, già da più di un’ora era tutto tranquillo al presbiterio e Marguerite, seduta in cucina davanti al cammino, riposava sui propri allori.

    Marguerite gridò il curato dalla sua sala, le cui finestre erano guarnite di vecchie tende di rosso lampasso. Marguerite?

    Son qua.

    La tavola è apparecchiata?

    Sì, signore.

    Conducimi un po’ là, figliola, che io mi goda quella bella vista.

    Il buon vecchio, con tanto di pancia, per potersi levare dalla seggiola di velluto d’Utrech rosso aveva bisogno del bracciotto della domestica Marguerite, che lo condusse verso la sala da pranzo tappezzata d’una bella carta a fiorami verdi.

    La giubba di nero velluto del buon curato non gli arrivava mai sino alle larghe brache, e la sua camicia, che saltava fuori qua e là all’altezza dei reni, rompeva l’uniformità del colore: sicché potete formarvi un’idea del suo fare trasandato. La faccia del signor Gausse corrispondeva ai suoi modi: senza esser troppo rosso aveva buon colore; i suoi occhi azzurri

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