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Le memorie d'un contadino - Tomo secondo
Le memorie d'un contadino - Tomo secondo
Le memorie d'un contadino - Tomo secondo
E-book505 pagine7 ore

Le memorie d'un contadino - Tomo secondo

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Info su questo ebook

Secondo tomo del capolavoro di Luigia Codemo, pubblicato nel 1856 e accolto favorevolmente dalla critica italiana e francese. "Le memorie di un contadino" narra le vicende personali di Domenico Narcisi, umile contadino che si trasferisce per necessità a Venezia. Con una sensibilità estrema – particolarmente rilevante per l'epoca – Luigia Codemo racconta la miseria del Veneto asburgico senza filtri, regalando ai suoi contemporanei un vero e proprio manifesto di patriottismo, ai posteri un documento inestimabile sulla vita, i riti e i costumi dell'esistenza nelle campagne alla metà del XIX secolo. Adoperando una lingua ibrida, che risente tuttavia in maniera importante della lezione manzoniana, l'autrice dipinge un affresco a tutto tondo dell'orizzonte di vita di Domenico, che nel corso del romanzo entra in contatto con una miriade di personaggi ben definiti e complessi, che arricchiscono l'opera di una coralità che si presta particolarmente bene al tema trattato. -
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788728410929
Le memorie d'un contadino - Tomo secondo

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    Anteprima del libro

    Le memorie d'un contadino - Tomo secondo - Luigia Codemo

    Luigia Codemo

    Le memorie d'un contadino

    Tomo secondo

    SAGA Egmont

    Le memorie d'un contadino - Tomo secondo

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1856, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728410929

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    ……tutto è vero!

    Shahspeare.

    PERIODO V.

    …‥venne quel benedetto giorno.

    Manzoni , Prom. Sp.

    CAPITOLO I.

    I disinganni di Carlo.

    « Caro Menico,

    Venezia, settembre 1840.

    T u vuoi sapere cosa sia d

    i me. In due parole eccomi a dirtelo; passo di disinganno in disinganno. La morte fu il primo anello della triste catena. L’esigenze di tal signorina, a te nota, furono il secondo, le incompiute fabbriche per mancanza di denaro furono il terzo. Sai, mio buon amico, che ho avuto il grillo della pietra? ch’ero presso ad erigermi sulle rive del Piave un Sanssouci, un asilo pei miei ozi come quello del poeta romano? Ebbene, come accade di spesso, il conto preventivo era la metà al di sotto di quello che si doveva spendere per innalzare questa villa, compiuta la quale non mi restava più un soldo per viverci dentro e godermela. Fortunatamente a tempo mi arrestai: un’ala è tuttora nelle regioni del pensiero; il pozzo che avevo cominciato a scavare è una fetida pozzanghera; il giardino che volevo disegnato all’uso detto inglese, ha per monticello un ammasso di cocci, di pignatte e di tegole rotte, ha un ponte che si sfascia, una grotta buona per uso di stia, ed un lago che non contiene acqua, se non quando, impietosito, il cielo gliene versa.

    A compensarmi dello sfacello de’miei amori e del mio patrimonio, avevo pensato di attaccarmi ad un’altra cosa ancora … indovina! te la do in mille!… amico mio, quest’áncora di salvezza nel mare delle illusioni perdute era la gloria letteraria. Immáginati che già credevo di farmi un nome e di guadagnar denari, di asciugare con essi il mio debito grosso come quello dell’Inghilterra, e di procurarmi nella vita una missione, nobile e santa, tendendo ad alto scopo, come è quello di offrire alla mia patria i prodotti d’un ingegno povero, ma volonteroso e pieno di sensi onorati,

    A qual ramo della letteratura m’attaccherò io? Dissi fra me: la filosofia sarebbe la mia passione; ma è ella codesta materia pe’miei denti? Una scienza tanto incerta, tanto difficile, che dai più remoti tempi in qua siamo ancora alle stesse lotte tra sensismo e spiritualismo; e nella quale tutto ciò che ha potuto fare uno spirito illuminato, ma, a mio credere, fuor di strada, fu di mescolare un po’degli uni, un po’degli altri, e, fattone un pasticcio, slanciarlo nel mondo filosofico battezzandolo col nome d’eclettismo. Che direi io di nuovo? potrei io spiegare la sede dell’anima? potrei spiegare come si modifichi il nostro ente sotto l’opera della sensazione? e, non potendo aprire gli occhi alla luce dell’eterno vero, direi, divenuto ateo, materialista, il corpo umano è un orologio a cilindro? e ancor che il dicessi, come potrei dimostrarlo?‥ Ma è meglio lasciar da banda così arduo tema: o siam credenti o non siamo; se siamo, la sola filosofia del vangelo ci basti, fuori di quella non v’hanno che tenebre ed incertezze: Hoc unum scio me nihil scire. Il dolore altra volta, lo sai, mi fe’divenire incredulo, ma di mano in mano che la fierezza di quell’ambascia è svanita, la speranza rientrò nel mio cuore, e con un grande italiano intelletto ho detto a me stesso, che ad ogni obbiezione degli scettici si è risposto colla voce della coscienza, che par loro energicamente contraddica.

    Dunque eleggasi la poesia; ma sono io veramente poeta? Il poeta deve creare; pur se non lo potrò, come i sublimi fecero, racchiudendo in grandi epopee molta parte, per così dire, dello scibile, potrò almeno dar l’espressione de’miei sentimenti; dirò cosa provo al meraviglioso aspetto della terra, come soffro quando il dolore mi assale; descriverò il modo con cui l’ebbrezza della gioja inonda il mio spirito.

    Ma potrò io accennare ad alcun che di cui non si sia parlato da mille poeti che furono e sono al mondo? ripeterò le tirate con cui si lagnano delle asprezze della vita? intonare un’elegia da far piangere chi ci crede? anelare alla morte da sano e ben pasciuto, e sempre in compagnia di tutta la moltitudine de’moderni poetini, a’quali ruberei, anco senza avvedermene, le frasi consacrate? No, si lasci questo genere di poesia.

    Dunque il romanzo storico? la bugia vera o la verità falsa. I Francesi ci hanno fatto fortuna, si servirono dei personaggi storici come di chiodi, e a quei chiodi quante corbellerie attaccate!‥

    Altro genere di romanzo? Non mi sento in caso; non ho quello spirito di osservazione, quella conoscenza del cuore umano che occorre per lo svolgimento e per l’esito del dramma famigliare, e poi anche in questo la gran paura del plagio! La mia eroina morirà di tisi o d’indigestione, oppure volgarmente si mariterà come tutte le eroine da commedia, e finirà la mia storia eol noto veneziano intercalare:

    « I à fato noze

    « de rave composte? ec. ec.

    Il mio eroe sarà un poeta incompreso o un giuocatore di bigliardo?‥

    Mi decisi per un quid ch’era un po’di tutto; filosofia, scienza, dramma e un mondo di cose adorne della veste poetica. Le chiamai Meditazioni e composi beato, aspettandomi onore e talleri; l’ispirazione potentemente attratta dall’armonia delle lodi e dall’argento scendeva con un traino expres ad invadere le cellule del mio cervello.

    Lavorai adunque indefessamente; a volte il mio mi pareva un lavoro sublime, a volte orribile; com’ebbi finito, pensai di leggere il mio componimento a qualche persona che potesse giudicarne. Scelsi … nol crederesti se tel giurassi, scelsi la mia vecchia balia che vive in casa mia; il popolo, dissi, è il più gran giudice, esso riceve nell’animo ingenuo le sensazioni che la parola gli desta; esso, non mal disposto da sistemi, da teorie, acconsente di buon grado al moto del cuore, non cribra, nè misura, nè ristà incerto per tema di compiacersi d’una cosa che un altro potrà trovare meschina. La mia balia dormì saporitamente mentr’io le leggeva i miei versi. — Ho errato, dissi, nella scelta, il verso sciolto non è fatto pel popolo. Ora, meglio avvisando, reciterò il mio poema a persona che non sia popolo, nè un’alta intelligenza. — Durai fatica a trovarla, perchè quando io annunziava a’miei amici di voler leggere un poema, chi con una scusa, chi con un’altra, tutti mi fuggivano. L’amico, a cui lessi finalmente il poema, mi rispose ch’era bello, scientifico, ma che non riusciva interessante, ch’era fatto pegl’intelligenti, ma non per la mediocrità. — Lo lascierò adunque giudicare da un grand’uomo, — dissi fra me: il grand’uomo mi trovò delle tare così fatte ch’io ne rimasi avvilito; mi fu detto che quell’alta intelligenza accoglieva di molte cose nel vasto petto, fra cui anco un po’d’invidia. Sollevai l’animo abba tuto ed offersi ad uno stampatore il mio manoscritto; a pagargli tutte le spese con un soprappiù, egli era, il dabben uomo, contento di stamparlo … Se mi fossi trovato uno zolfanello vicino avrei abbruciato il mio componimento. Adesso te lo mando, perchè tu lo legga e lo conservi …. Quale effetto ti farà? la voce che asseconda, ajuta l’armonia del verso, la fisonomia che s’anima e l’occhio che brilla fanno parere men brutta la poesia; tanto meno leggendolo da te, ti piacerà il mio lavoro.

    Eccoti narrato il quarto mio disinganno; quale sarà il quinto? Non sia mai per essere quello dell’amicizia ch’eterna ti professa

    Il tuo Carle.

    CAPITOLO II.

    Un poema propizio al sonno.

    Se questo poema si annunciasse col nome di qualche grande autore, dissi scorrendone alcune pagine, esso piacerebbe, e molto più se l’autore fosse morto; forse perchè trattandosi di un estinto l’invidia s’ammansa‥ Ammirare i frutti dell’altrui intelligenza è adunque cosa che costa agli uomini?

    E ruminando tali pensieri per la mente, me ne andai a Boboli, dove, seduto sotto gli alberi, progredii nella lettura delle Meditazioni del marchese Carlo Raggi. Sull’imbrunire mi mossi, e m’avviai col manoscritto in tasca alla casa del principe Attella. — Presso di te, mia Eleonora, dissi a me stesso salendo le scale, io trovo quella gioja di cui nulla al mondo mi può disingannare.

    Trovai il principe sul suo seggiolone, e gli feci un inchino; Eleonora, seduta vicino a lui e alla baronessa Gazzadori, a cui pure diressi un complimento, mentre guardavo la mia giovinetta con un fare ch’io voleva e non poteva rendere cerimonioso.

    — Vorrei parlarvi, — susurrò ella a bassa voce per non essere intesa che da me; e poco ci voleva: lo zio era un po’sordo e la baronessa dormigliava:

    Io accennai che non sapevo il come; poi mi sedetti innanzi a tutti e tre, pensai alcuni minuti al quid agendum, poi senza gridare Eureka, benchè me ne venisse voglia, cominciai, rivolgendomi al principe:

    — Eccellenza, avrei a pregarla di un favore…

    — Dite su, buon amico.

    — Ecco: un mio caro conoscente, un buon giovane da Venezia, il marchese Carlo Raggi mi ha scritto una lettera, con cui m’invita a presentare ad un personaggio di mia scelta un suo poemetto, il quale personaggio possa dare un valevole giudizio di questo suo componimento io non conosco qui in Firenze che una persona, la quale sia in grado di sodisfare al desiderio del mio Carlo.

    — L’abate Ornetti, mi disse il principe.

    — Egli è a Fiesole, eccellenza…

    — Il conte Carrace.

    — Il conte è occupato a far vedere le meraviglie di Firenze ad una signora tedesca che gli fu, come ella sa, raccomandata… Il marchese avrebbe caro ch’io gli ritornassi con qualche prestezza il suo manoscritto… Infine, dissi precipitando le parole, sarei a pregarla, eccellenza, di volere ella stessa udirne la lettura e darmene un giudizio quale può uscire dalla sua mente.

    Il vecchio spalancò gli occhi e li ficcò bene addentro nel mio viso, per vedere se io parlava da senno o mi burlava di lui; ma, assicuratosi della mia attitudine seria e modesta, mi rispose:

    — Figlio caro, io non me ne intendo… quand’ero giovane l’ho studiata la poesia… ma adesso…

    — Eh via, eccellenza, continuai, senza perdermi d’animo, ella è di spirito svegliato, io la udii a recitare i versi del Salvioli con tanta enfasi, che non può non darmi la prova del suo animo, informato alla bellezza del linguaggio delle muse.

    — È vero… quelli mi piacquero a’miei giorni. "

    « Tardi a’roman spettacoli

    L’altera Giulia venne,

    E i primi onor del Lazio

    Su l’altre belle ottenne »

    brontolò il principe lusingato nel suo amor proprio, ma pure — soggiunse: — non saprei; via… per dare un giudizio… ci vuol altro.

    — Eccellenza, insistetti, la sua modestia è tanto grande che non le permette di tenersi qual è‥; via, mi lasci…

    — Leggete pure, amico, disse il principe con un sospiro di rassegnazione.

    Cavai fuori dalla tasca il poemetto, e cominciai dalla invocazione della musa, la tiritera che del resto, non era cattiva, ma che riusciva difficile a comprendersi alla prima lettura. Dopo il primo quarto d’ora levai lo sguardo come per interrogare il principe; egli mosse due volte la testa, e mi disse:

    — Bello… bene… bravo! — La baronessa lavorava coll’ago ad uncino un merletto, e tutta intesa a movere l’indice, col quale ella passava il filo sull’ago, non parea avvedersi nemmeno ch’io leggessi.

    — Che le sembra di questo mio amico? — le chiesi.

    — Ha molto genio, ha molto genio; — ed Eleonora:

    — Mi sembra che non ci sia molta ispirazione, ma per compenso una bellissima forma. —

    Io ripresi la lettura: al secondo quarto d’ora, rialzai gli occhi e guardai il principe; egli se ne stava quatto, quatto, nell’attitudine d’un uomo che ascolti. Le sue palpebre superiori tendevano ad unirsi, a baciare le inferiori… si vedeva il globo dell’occhio fermo, mentre la palpebra faceva sforzi per rimanere aperta, e poi piombava all’ingiù; pure si accorse ch’io lo guardava, diede un suono gutturale che valeva per una parola di approvazione… io continuai. Al terzo quarto d’ora, intesi un respiro eguale, un romoretto come di persona che dormisse… era il principe che beatamente russava, — e uno — dissi; poi diedi un’occhiattina di soppiatto alla baronessa. Ella lottava tuttavia col sonno invasore; colle mani alte, col dito teso che tentava di passare il filo, la si movea tre o quattro volte rapidamente, poi si fermava come una macchina che abbia qualche disordine organico; di tratto in tratto inchinava la testa al modo di chi fa un grave saluto… Io ripresi la lettura del poema; dopo pochi minuti udii un nuovo rumore, come di qualche oggetto che cada per terra, mi volsi e guardai la baronessa; l’ago ad uncino l’era scappato di mano, ond’ella colle braccia nel grembo, colla bocca semi - aperta, faceva un duetto coll’eccellentissimo suo signore. Pur lessi ancora un poco: non mi fidavo di smettere interamente la cantilena, finchè i miei arghi non fossero ben addentro nel regno di Morfeo. Talvolta finchè dura il monotono suono, che valse ad addormentarci, si dorme, e, fatto di novo silenzio, si è desti.

    Questa volta non fu così.

    — Eleonora, mormorai; che volevate voi dirmi?

    CAPITOLO III.

    Nobile e plebeo.

    La mia giovinetta si volse a dritta ed a sinistra, guardò successivamente lo zio e la dama, e vedendoli a dormire come due tassi, non potè trattenersi dal sorridere.

    — Ah! malizioso, mi diss’ella, questa era la surania di leggere il poemetto.

    — Ho contato sulle eminenti qualita soporifere dei poemi in verso sciolto a’nostri tempi, e vedo che non avevo torto… ma dunque….

    — Avrei potuto in una lettera… ma in vece di scrivere amo meglio di parlarvi, Domenico. Dopo quella sera, — continuò Eleonora con una titubanza di voce, ch’era veramente l’espressione d’una pudibonda riserva, — voi, lo spero, non avrete più alcun dubbio sopra le disposizioni del mio animo a vostro riguardo. Uomo al mondo non ha ottenuto un pensiero da me… fino al giorno in cui io vi ho conosciuto… respinsi la vostra immagine, titubai, tenzonai col mio cuore… ora ogni lotta cessò… ove non v’incresca potete, — mormorò Eleonora facendosi rossa e abbassando gli occhi, — mover parola allo zio…

    — Ah! Signore benedetto! consentireste a divenire mia moglie? — esclamai a risico di svegliare i dormenti.

    — Qual dubbio! rispose la giovinetta in tono di regina offesa; se non avessi in verun modo potuto sperare di divenir vostra, avrei soffocate le mie lagrime fin nel più profondo del cuore.

    — Ma come lo potrò? il principe acconsentirà egli?

    — Ecco la barriera; ma chi molto ama, molto ottiene: io non ho coraggio di parlargli… voi siete uomo, infine tocca a voi; lo zio mi adora, apritegli il vostro pensiero…

    Qui il principe si scosse, noi rimanemmo in silenzio.

    — Ditegli… continuò Eleonora, ma di nuovo ristette, perchè il vecchio era sveglio del tutto.

    — Che ora è? — borbottò egli, con la voce di persona che ritorni dal paese dei sogni.

    — Sono le undici, eccellenza.

    — Andrò a letto, Eleonora. Addio, signore, — mi diss’egli congedandomi della mano.

    — Buona notte, — risposi, e mi ritirai.

    — Oh che storia, che storia pensavo fra me tornando a casa… chiederla in isposa io al principe… non potrebbe recarselo ad oltraggio? non era meglio tirar dritto così almeno per un altro poco di tempo?‥ Ma la mia casta, la mia santa fanciulla crede di mal fare nutrendo un amore segreto, non legittimato dal consenso del suo padre d’animo!‥ bene, sia fatta la sua volontà; ma qual cimento, mio Dio! Eccomi tornato in angosce che uguagliano in fierezza le prime.

    Non gli dirò che i miei genitori sono due contadini… no, essi invero non si possono così chiamare, piuttosto appartengono alla classe dei possidenti: hanno casa propria, non pagano la pigione; che serve che la non sia un palazzo come quello del granduca? hanno de’campi, degli alberi che dan le castagne. Che monta se mio padre le fa cader proprio lui dai loro rami? Eva e suo marito, le più nobili creature che abbia avuto il mondo, doveano ben cogliersi i frutti dagli alberi; tanto è vero che nessuno gli ajutò nel tirar giù il pomo fatale. Mia madre sa leggere, mio padre sa far di conto; sono liberi ambedue, non servono a nessuno. Quanto a me poi, sono artista; che vale ch’io non mi chiami Schiavoni o Hayez? Ho in vece un bel cognome poetico, possedo trentamila franchi!‥ e con tutte queste consolazioni mi logorava un tal dubbio della riuscita, che di spesso cambiavasi in crudele certezza.

    La mattina mi vestii con un certo lusso: dall’apertura di un gilè di velluto nero a grandi quadriglie, filettate d’oro, usciva un’immensa cravatta di raso oltremare, la quale, come una corazza, mi ricopriva tutto il petto; sul bel mezzo della quale, fra le pieghe del raso così lucenti, così spiccate mostrava la testa uno spillo d’oro, con una grossa perla bianca tenuta fra gli artigli di una zampa d’aquila; portavo i guanti color del fiore di rosmarino, i calzaretti a vernice e la mia barba era profumata di pat-chouly, l’odore più aristocratico che v’abbia.

    — Sotto a queste spoglie come sospettare un villano? Il principe cederà davanti ai superbi tessuti del mio vestito; — dissi tra me.

    — Eccellenza, cominciai quando mi vidi al suo cospetto, le apparirà molto strano… ancorchè, a vero dire, io non sia, anzi io sia… cioè voglio dire… m’intendo…

    Il buon vecchio mi guardava come se gli avessi parlato in cofto.

    — Vorreste… anch’io v’intendo, — diss’egli; io lo interruppi smanioso di persuaderlo che non ero un contadino.

    — Si, replicai, sono un onesto possidente, ho dei campi, e posso…

    — M’immagino.

    — Mio Dio, datemi forza.

    — Quel poema… era vostro…

    — No, no… — il cuore mi mancava.

    — Lasciatemi dire! Che serve il fingere? Vorreste ch’io vi ajutassi a pubblicarlo… che io ve ne dessi il mezzo…

    — No, eccellenza, non è per questo, ch’io le parlo; per l’amor di Dio, mi accordi un po’di attenzione; — il principe fe’un gesto che voleva dire: sbrigatevi. Egli era buono, ma sapeva d’esser principe, e di non avere che sicut in quantum dovere di creanza e di pazienza con un povero artista.

    — Eccellenza, ripresi, sono un onesto possidente, i miei genitori non esercitano alcun mestiere, vivono di rendita; io sono artista, ho trentamila franchi che mi danno al cinque per cento…

    — Perchè mi dite queste cose? che mi fanno piacere, ma che… — e qui il principe si fermò per non dire: non m’importano.

    — (E meglio sparar la bomba,) pensai, e fattom i cuore gli risposi: Gliele dico, perchè vengo a chiederle la mano di sua nipote Eleonora ch’io amo, e da cui so no corrisposto… — Un subito aggrottamento di ciglia del principe mi cacciò in gola il resto del discorsetto, preparato: lo vidi da una faccia umana, cordiale, piena di bonarietà e di giovialità, divenire un uomo dal viso freddo, contegnoso; parve che le linee delle guance divenissero più profonde e come di bronzo, e i labbri si contraessero per un moto convulso; mi squadrò da capo a piedi, poi fissando in me uno sguardo agghiacciato, pari a quello d’un serpente, stese la mano al campanello e lo scosse; un servo si presentò.

    — Conducete il signore alla porta di strada, — diss’egli, sempre guardandomi. lo, tutto curvo della persona, presso ad affogare di dolore, di rabbia, seguii il domestico, e senza saperne il come, mi trovai sul Lung’Arno.

    CAPITOLO IV.

    Fedelta e speranza.

    T ornato a casa trovai nel mio studio una graziosissima visita e veramente opportuna. Quell’lgnazio Valcoli, quel tale, di cui v’ho accennato altra volta, il quale era solito di venirmi ad empire le orecchie de’suoi discorsi tutti d’un genere odioso, molesto; era un vantatore, un uomo, che dalla mattina alla sera faceva il proprio elogio da sè (forse vedendo che se non l’intesseva da lui, nessuno se ne sarebbe presa la cura); un uomo che, quantunque di cattivissima fama, prendeva l’aspetto di Catone, di moralista; e, perch’io lo fuggiva, piccato nel suo amor proprio, m’avea tolto di mira e non ristava di perseguitarmi, di graziarmi colla esposizione dei suoi meriti, delle sue fortune, e di schiccherarmi, con un fare pieno di boria, evangelici sermoni. Per chi abbia alla sua volta un po’di pretensione, come l’aveva io, non è a dire quanto intollerabile riesca il colloquio con un uomo di tal fatta; più siamo superbi, più ci sono care le persone modeste, poichè le ci rispettano nella nostra fralezza, e nascondendosi dietro la loro umiltà ci lasciano, con nostra grande soddisfazione, mostrarci da più di loro.

    Valcoli m’era adunque in ogni tempo una visita uggiosa; e non occorre ch’io dimostri quanto lo mandassi a mille diavoli in quella mattina, in cui la presenza della persona più cara, eccetto quella di Eleonora, m’avrebbe arrecato fastidio.

    Lo salutai appena, ed accolsi con faccia stravolta le sue solite interminabili filastrocche vantatorie. Quand’Iddio volle, dopo d’avermi annunziato cento volte, che se ne andava (cosa alla quale io invero non opponeva resistenza) se ne partì finalmente. Appena fui solo, la rabbia fino allora contenuta scoppiò impetuosa, terribile dal mio seno. La bella cravatta di raso, il gilè di velluto, lo spillo, furono gettati a terra; li calpestai coi piedi, morsi il fazzoletto di battista, mi strappai i capelli, e feci tanto romore che la Letizia accorse spaventata.

    — Signorino, oh! cosa ha, signorino? — esclamava la Letizia, e come io non le rispondeva, si ritrasse dietro la porta.

    — Infami nobili… scellerati signori, — proruppi alfine — scacciarmi come un servo, non degnare di rispondermi… bene faceva Robespierre a tagliarvi a tutti la testa; perchè non c’è stato in ogni paese un uomo come lui? Perchè ha permesso Iddio che la vostra infame semenza non fosse tolta dalla terra? Ma tornerà un altro novantatrè, e allora verrò anch’io a vedervi a morire, a godere de’vostri spasimi, o iniqui, che piantate con tanto sangue freddo il pugnale nel cuore de’vostri fratelli!‥ sì, vi faremo morire, capiterà la vostra volta, ci vuole un diluvio di sangue che lavi le vostre scelleratezze!‥

    E già nella mia mente fuorviata accatastavo patiboli, forche, supplizi di ogni genere, il più spaventoso, il più truce.

    — Ora comprendo perchè Théroigne divenne la furia della guigliotina‥ va bene, così farò io‥ — continuai piangendo con lagrime di fuoco.

    — Se l’ha coi signori le do ragione, — disse Letizia facendo capolino alla porta.

    Non so perchè, ma a trovarmi della stessa opinione con la figlia del portinajo mi punse nel mio amor proprio; con tutti i miei furori demagogici non sopportavo associazione d’idee con una pettegola come quella; mi contenni adunque, e facendola alla mia volta da signore violentato nel suo domicilio: — Va via, le dissi; lasciami quieto.

    Come fui solo: — Oh quale scorno! — ricominciai; quale obbrobrio! mio Dio, quale profonda ferita! come vendicarmi, come ritorcere la punta del pugnale avvelenato nel petto di quel vile prepotente!‥ suscitare una sommossa, provocare un incendio? Oh! perchè è passato il tempo in cui, pur di trionfare, vendevasi l’anima al diavolo? oppure, perchè non siamo più ai giorni d’Eufemio da Messina, di Leclerc, del conte Giuliano, dell’imperatrice Eudossia? Quelle erano vendette memorabili, eterne; secolo pigmeo in cui nemmeno è concesso di divenire perversi!‥ quale giubilo! Rapirgli Eleonora, poi metterlo in una prigione, anzi in una gabbia, come quella che adoperava Luigi XI, e andar là, e salutarlo, e deriderlo colla mia sposa al fianco… Ma vi consentirebbe ella, quell’angelo di mitezza, e di soavità?… No, questo mezzo sarebbe impossibile. Schiacciarlo adunque in un’altra maniera più nobile, più generosa e più possente, avvilirlo colla grandezza d’animo! Ma starebbe in me il farlo, quali mezzi avrei mai? la memoria della mia pochezza mi appariva alla mente, non mi resta che un fatto; attendere fino a quando ella verrà, dalla domestica violenza, unita ad un altro uomo, ad un grande, e nel punto in cui la carrozza colle sue rote lucenti la trasporterà dal tempio alla casa, gettarmi sotto ai piedi de’cavalli, essere frantumato dalle loro zampe, che scalpiteranno sul mio misero corpo. Allora il cocchiere atterrito farà sosta, lo sposo ne chiederà il perchè, Eleonora emetterà la testa dallo sportello, e vedrà le mie membra lacere, i miei lineamenti sanguinosi stravolti; getterà un grido di pietà e di spavento: il vecchio scellerato mi guarderà ancor egli, e, riconosciutomi, quale bisbiglio, quale confusione!‥ — chi è?‥ è un giovine che si è ucciso per amore; oh poveretto! — dirà la gente… Eleonora avrà tosto smarriti i sensi… lo sposo comincierà a volgere sguardi dubbiosi, pieni di sospetto e di collera; la gelosia sorride, e già pone fra lui e la sua donna una barriera di diffidenze e di rimorsi. Il vecchio poi, quello sì davvero che si morderà le dita, che temerà d’avermi sempre, spettro tremendo, davanti agli occhi; ma io, generoso e grande, gli dirò prima di morire parole fioche, appena comprensibili per cui sarà perdonato‥ — Addio, il cielo conceda ogni felicità a voi ed alla mia Eleonora —‥ E nell’idearmi questa morte così commovente, povero gonzo ch’io era, mi venivano le lagrime agli occhi. Adesso che so come vanno le cose del mondo, mi vien proprio da ridere a ricordarmi quei pianti, adesso rispondo a me stesso per allora: — Testa poetica che sei, il principe e lo sposo (di Eleonora non parlo) avrebbero detto alla vista del tuo cadavere sanguinoso: — Povero giovine, è peccato che sia morto così come un cane: ma egli era, a quel che ci fu detto, una testa romantica, un uomo esaltato; camerieri, fatelo portar a casa sua, e noi tiriamo dritto.

    Ma allora guai a qualunque m’avesse parlato in questo senso. Ero alle ultime parole della mia orazione demagogica, quando udii bussare alla porta; la apersi, pronto a guardare in cagnesco qualunque mi si fosse presentato, ma ben presto cambiai attitudine … Quegli che bussava era un servo del principe, un buon vecchio fedelissimo alla famiglia; mi porse una carta, poi si ritrasse senza pronunciare una parola. Un profumo di violetto, ch’esalava quell’involtino mi avvertì da chi partisse; lo apersi, esso conteneva una foglia d’edera col motto scritto in caratteri celesti da una cara mano: —  Ove m’attacco, io muojo, e più sotto come ad iscrizione: Fedeltà e speranza. — Al vedere il casto, soavissimo pegno, ogni truce immagine, ogni intemperato desiderio di vendetta, ogni fiero impulso disparve dal mio cuore; mi sciolsi in lagrime di affetto, di dolore, di riconoscenza, in cui per lunga pezza sfogai le interne passioni, disperato ma non del tutto infelice, come un uomo che ondeggi tra la vita e la morte.

    Io non mi proverò ora a descrivere lo stato del mio cuore ne’giorni che succedettero a quella dolorosa catastrofe; ognuno che può concepire l’idea d’una potente passione, la quale freme e s’agita in un potente organismo, è in grado di figurarselo. La mia vita era di farneticare, di vedere cogli occhi della mente compirsi i fatti ch’io bramava con tutte le forze dell’anima. Quello che più evidentemente mi sorrideva, era il più feroce di tutti; la morte del principe. A volte mi pareva cosa tanto probabile che la stimavo già avvenuta… allora qual delirio, qual giubilo!‥ Eleonora era mia, nessuno me la contendeva… mi slanciavo alla finestra per respirare l’aria e temperare il mio interno incendio: che se m’accadeva per caso di veder proprio in quel momento il principe, a cui io cantava le esequie, passare in carrozza bello, rosso, grasso come uno che beatamente digerisca il pranzo… oh! qual caduta… qual disinganno!… allora poi eccomi pronto a persuadermi d’un’altra stoltezza, e a ritenerlo un uomo immortale, oppure ch’egli avrebbe vissuti gli anni di Mathusalem, e sentendomi affranto, ammalato dal lungo soffrire ecco in me il presentimento di morir prima… come mi ribellavo allora!‥ come fremeva il mio spirito del prostrarsi della materia… come passeggiavo ansiato, concitato per dirmi che non era vero, per provare la forza de’miei tessuti… per far paura alla morte. Ma chi può dire il mio spasimo quando vedevo Eleonora dal balcone pallida, patita, melanconica, e pensavo all’Ernesta in quei momenti maledicevo anco a quel po’di gagliardia che prima mi diede conforto … A che mi giovava vivere s’ella languiva?‥ allora quali stringimenti di cuore… quali pentimenti!‥ allora vedevo il castigo di Dio sospeso sul mio capo per avere chiesta la morte del principe; mi buttavo ginocchioni, chiedevo scusa al Signore, lo pregavo di non punirmi, di non tormi quell’essere tanto caro, e gli permettevo in concambio di lasciar vivere il principe quanto gli fosse piaciuto. Così si alternavano nel mio pensiero gl’iniqui voti alle fantastiche paure, le temerarie presunzioni ai superstiziosi terrori, e alle crudeli incertezze, così da una fallace lusinga m’abbandonavo ad un puerile scoramento, e accoglievo nel mio cervello una moltitudine d’idee che io stesso stupiva di tutte contenerle.

    CAPITOLO V.

    La Majonnese.

    Circa un mese dopo questa dolorosa catastrofe l’abate Ometti mandò per me facendomi dire ch’egli m’attendeva nel suo scrittojo; io obbedii a malincuore, poichè odiavo la presenza di qualsiasi persona, dopochè m’era tolta quella della mia amata.

    — Ve l’avevo detto, — cominciò egli dunque — che voi avreste fatti degli spropositi, che non avreste rispettate le barriere sociali; un po’del demagogo io lo avevo scoperto in voi…

    — Che vuol dire? — domandai corrucciato e riciso, e per l’impazienza scomponevo il tavolo dell’abate.

    — Non ve la prendete colle mie cose, diss’egli, non fate nuovi guasti, troppi ne avete compiuti fin ora.

    — Di che guasti mi parla? — replicai stizzoso.

    — Avete sedotta l’anima candida della duchessina di Taviano, mi rispose l’abate, assestandosi la parrucca, perchè almen quella fosse in ordine. La giovinetta si disperò, sebben nol mostrasse, del rifiuto che vi diede il principe, il quale vedendola a patire di giorno in giorno, gliene chiese il motivo, ond’ella… è buona vedete, ma ha una testina‥ già la razza… si sa… basta, ella insomma gli disse che vi amava, e moriva per non potere esser vostra.

    — Eleonora, angelo mio! — esclamai prorompendo in giubilo.

    — Bravo, belle cose da tenersene tanto paghi… andate là che avete compiuta una magnanima impresa. continuò l’abate… il priucipe, pel dolore e la vergogna, tanto si sconvolse che fu colpito d’apoplessia.

    — Mio Dio, esclamai…. (udir compiuto il mio desiderio mi rallegrava, ma anco m’atterriva; perchè mi pareva opera mia un fatto a cui certo ero estraneo).

    — Sicuro, ecco portato lo scompiglio, il terrore in una casa come quella, e dire che sono stato io che v’ho condotto… io che non voglio impicci. La duchessa che ho veduta stamane, e che non può nemmeno scrivere una riga m’ha detto di narrarvi l’avvenimento, ed ecco che per causa vostra mi tocca fare di queste belle ambasciate, — mormorò l’abatino, uomo irresoluto, che cedeva e poi se ne pentiva.

    — Dovevate tralasciare, — gli risposi.

    — Eh sì, con quella maniera della duchessa, come si fa a dir di no? Questo, continuò Ornetti stringendo gli occhi, è il risultato delle cattive massime, del pervertimento sociale; tutti vogliono ascendere, tutti, il più che sia possibile: un artista si mette in idea di sposare una duchessa, senza ricordarsi che la piramide, questo solido edificio, è l’emblema della società, civilmente ordinata. Per sostenerla ci vuole alla base il popolo; se questo diserta le file, crolla l’edificio.

    — Che farò? — dissi, interrompendo l’abate; è morto il principe?

    — No, è perduto a metà, e parla a stento; voi, mio caro, dovreste mettere il cuore in pace: se sua eccellenza d’Attella muore, il tribunale di Napoli sceglierà alla duchessa un altro tutore, la metteranno in convento, o la mariteranno con qualche principe suo pari; già a quest’ora, io lo so, alcuni illustri maritaggi le si erano offerti; ella li respinse, ma una volta che la sia…

    — Starà a vedere‥ — risposi; e con un gesto che mandò alla prima per aria tutti gli oggetti dello scrittojo, mi tolsi dalla camera dell’abate e volai alla casa del vecchio accidentato: scorsi colà un andare e un venire di camerieri, scivolai non visto da alcuno, nemmen dal portinajo; giunto nell’appartamento superiore m’imbattei nella baronessa…

    — Come sta, come va il principe?… — le chiesi: ella, con quella solita flemma, mi rispose:

    — Pare che abbia avuto un colpo.

    — Ma come fu?

    — Ecco, avete a sapere che don Basilio non era mai contento di quel che gli faceva il cuoco, e il mese scorso lo cambiò; il nuovo gli apparecchiò l’altro giorno un’insalata che chiamano mahonaise, perchè l’ha inventata Richelieu.

    — Avanti, baronessa, spicciatevi…

    — Il principe, continuò ella, diceva che quando un cuoco ha fatto una pietanza per bene, bisogna papparsela tutta, e impedirgli di rifarla, perchè s’è veduto che due volte non riesce, e che dopo la seconda si perde anco l’illusione. Così fece egli per la majonnese, che tanto gli piacque, e che da questo cuoco per la prima volta gli veniva presentata, e mangia e mangia‥ alla fine poi… successe quel che successe.

    — La versione è di molto prosaica — pensai, e ad alta voce: m’aveano detto ch’egli s’era inquietato…

    — Uhm! disse la Gazzadori, io non ne so nulla…

    Allora ch’io non conosceva il metodo delle grandi famiglie di non raccontar i fatti propri a nessuno senza motivo, mi parve impossibile che la baronessa ignorasse: e già stavo da vero chiacchierone spifferandole, a maniera di inchiesta ogni cosa, quando una voce soave attirò altrove la mia attenzione.

    — Domenico! mi disse Eleonora, venendo dalla stanza del principe,…. voi qui?

    — Non potei trattenermi…

    — Avete fatto bene… il povero zio… avete udito? che disgrazia‥!

    — E come sta?‥

    — Un po’meglio… e voi come vi trovate? — domandò Eleonora, non sapendo come nascondere il suo turbamento…

    — Io? potete immaginarlo…

    — Donna Eleonora, il principe vi vuole, — esclamò la baronessa, già un momento prima scomparsa.

    La giovinetta volò tutta premurosa allo zio: io la seguii…

    — Accada ciò che può accadere, dissi fra me, voglio starle più vicino che posso; ed entrato nell’anticamera del principe, m’accomodai sopra un’ottomana rossa, che la circondava.

    — Mi pare che dopo il salasso parliate più facilmente, — mormorava con dolcezza la nipote allo zio.

    — Sì,… rispondeva questi borbottando,… ma ho male qui allo stomaco… ah! quella majonnese!

    — Non fu sola la majonnese, disse Eleonora, sospirando … povero zio; io morirò dal rimorso, se voi non guarite…

    — Fa caldo… ho molto caldo…

    — Volete ch’io apra la porta?‥

    — Si… sì…

    Eleonora dischiuse un po’l’uscio, e diede un tremito repentino, vedendomi seduto su quell’ottomana.

    — Domenico, per carità, mi susurrò ella sottovoce, a che mai vi esponete?‥ s’egli indovina… s’egli vi fa scacciare dai servi… non temete?

    — Vi è qualche cosa di cui io debba aver paura? — risposi con voce cupa, e guardando la giovinetta con due occhi incantati, febbrili. Ella mi fissò tutta sgomenta in aria di compassione, poi fece ritorno alla seggiola a bracciuoli dov’era coricato il principe, il quale per una bizzarria tutta propria non avea consentito a starsene a letto.

    — Ah! quella majonnese, borbottava il vecchio.

    — E i dispiaceri che vi ho dati, replicava con accento di dolore la duchessa.

    — Morirò … certo … lo sento, e allora sarai felic.

    — Ah potete voi dirlo!… che dico, pensarlo!‥ no, no, il rimorso ucciderà me pure, morirò anzi prima di voi, mio buon zio.

    — Morirai? proferì il principe con voce tremante… tu, mia diletta Eleonora? no, no, io son vecchio, io devo morire, io t’ho veduta bambina, t’ho veduta crescere… se tu fossi morta, come farei a viverc?…. somigli tanto alla mia povera sorella. E qui il principe piagnucolò un poco di quel pianto stentato dei vecchi, che fa tanta compassione. Io che al primo annunzio del brutto accidente avevo provata, mista al terrore, una gioja barbara quanto stolta; all’udirlo intenerirsi parlando, mi commossi io pure, e tutto meravigliato mi asciugai una lagrima. Che razza d’uomo sono io mai? Alle volte ho dei pensieri così brutti, così cattivi che mi vergogno a ricordarli, e poi quando stanno per attuarsi le speranze, che perfidamente m’inebbriarono, eccomi divenuto tutt’altro… è egli mostruoso, oppure semplicemente umano?

    — Sì certo, ch’io morirò, se non mi perdonate.

    — Ti perdono.

    — Ma dovete perdonare anche un altro,‥

    — Mi hai detto che morivi, se non lo sposavi… maledetto pittore, — soggiunse il principe con lingua più spedita, come se. la collera in quel punto trionfasse dell’intormentimento dei muscoli.

    — No, no, per carità non lo maledite, proruppe Eleonora con voce di soave rimprovero, e poi si mise a piangere anch’ella; io sforacchiava la stoffa del mobile su cui ero seduto per isfogare gl’impeti che in modo vario ed orrendo mi assalivano.

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