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Ultimi fuochi per Paludi
Ultimi fuochi per Paludi
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E-book315 pagine

Ultimi fuochi per Paludi

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Info su questo ebook

E' la notte di San Giovanni e arriva l’estate, tra furti di rame e morti ammazzati, campi rom e ville in collina, bande di strada e fabbricanti di armi, cameriere melomani e nani lanciati dalle vetrine.
Dalla Barriera di Milano alla Gran Madre, dai Murazzi a Borgo Po, dal Quadrilatero alla Falchera. Il commissario Paludi è alle prese con l’indagine più pirotecnica della sua carriera mentre Torino si incontra in piazza Vittorio per un ultimo esplosivo spettacolo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2012
ISBN9788875637316
Ultimi fuochi per Paludi

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    Anteprima del libro

    Ultimi fuochi per Paludi - Beccacini Fabio

    Cop_ultimi_fuochi_paludi.jpg

    I tascabili

    Il nostro indirizzo internet è:

    http://www.frillieditori.com

    info@frillieditori.com

    Di Fabio Beccacini nel catalogo Fratelli Frilli Editori:

    Via del Campo

    Giorgio Paludi, 44 anni il giorno dei Santi

    Sushi sotto la Mole – Giorgio Paludi indaga

    editing e impaginazione

    Michela Volpe

    layout copertina

    Sara Chiara

    copyright © 2012 Fratelli Frilli Editori

    Via Priaruggia 31/1, Genova – Tel. 010.3074224; 010.3772846

    tutti i diritti riservati

    isbn 978-88-7563-731-6

    Fabio Beccacini

    Ultimi fuochi per Paludi

    LogoFratelliFrilliEditori.JPG

    Fratelli Frilli Editori

    A Jola

    Life is a tale told by an idiot,

    full of sound and fury, signifying nothing

    William Shakespeare, Macbeth.

    Il primo colpo esplose nel mortaio alle 22.30 precise.

    Fu un colpo scuro di piccolo calibro immediatamente seguito da una bomba con paracadute e da una cacciata.

    Il cielo di Torino iniziò a saturarsi di colori.

    Cinquantamila persone stavano con il naso all’insù, il fiume rifrangeva le luci dei fuochi d’artificio nel nero della collina e una nuvola di fumo fece scomparire il monte dei Cappuccini come un gioco di prestigio.

    La ragazza stava passeggiando in punta di piedi sulle scarpette nuove nuove, il cuore le faceva fu fu fu invece di battere. Era in ritardo di venti minuti e non riusciva a smettere di guardare l’orologio della farmacia che lampeggiava in fondo alla strada.

    In piazza Vittorio e nelle vie limitrofe lungo il Po era un brulicare di venditori dell’ultim’ora, palloncini colorati, piadine alla porchetta, sguardi al cielo. La chimica legava in un caleidoscopio l’arte militare delle esplosioni mentre un chiacchiericcio estivo si incollava ai vestiti e dalle casse lungo il ponte una musica pedante era intervallata dai lanci.

    Quando il primo fuoco brillò nel cielo, i battiti della ragazza si arrestarono per una frazione di secondo. Una piccola morte, un attimo di niente, che la invase e la scosse come uno schiaffo. Poi la seconda esplosione le diede ossigeno, la fronte le si imperlò di sudore, la bocca si aprì sulla gola.

    Al centro del fiume, sulla chiatta, l’artificiere controllò le spolette poi innescò una sequenza di bombe a crociera di stelle. Si sentì partire un brusio di ammirazione.

    La polvere di alluminio ravvivò le fiammate, l’antimonio esplodeva in bagliori lattiginosi, il clorato di bario e il solfato di rame pitturarono la notte di smeraldo e celeste.

    Era il ventiquattro di giugno e tutto doveva ancora iniziare. Gli innamorati si baciavano, la gente brindava ai tavoli, le battone camminavano avanti e indietro in cerca di clienti, i cani tentavano di nascondersi tra le gambe dei padroni.

    La ragazza si sentì perduta e iniziò a correre, per quel che poteva, giù giù, verso il fiume. Le sue scarpette cucivano un sentiero, una gimkana attraverso la folla. Forse la calligrafia di quella serata, un girare intorno a un punto preciso che non voleva affrontare. Era innamorata? Non lo riusciva a capire, ma era tutta umida. Dentro e fuori. Forse era colpa dell’estate lì davanti che stava arrivando con quelle promesse banali. Gelati, passeggiate, giorni di sole, notti piene di luce. Normalità per tutti, poveri e ricchi. Una lotteria di emozioni da poco da vincere con un invito ai fuochi. Quella stessa sera. Stavolta sarebbe andata bene. Sarebbe cambiato qualcosa. Anche per lei finalmente. Si sorprese in quel discorso e sorrise. Raggiunse il parapetto sul fiume e diede un’occhiata di sotto.

    I murazzi erano gremiti di gente, c’era chi aveva preso posto già dal tardo pomeriggio nei dehors dei locali per vedere le traiettorie dei fuochi scintillare sui gazebo sorseggiando mojito e cosmopolitan. Era una guerra ambiziosa e paziente di appostamenti per aggiudicarsi l’angolo migliore del cielo.

    La ragazza si morse le labbra, era stata una stupida. Non si era voluta salvare il numero del suo cellulare. Adesso in quella confusione le sarebbe servito un miracolo per poterlo rintracciare... magari se non avesse perso tutto quel tempo a comprare quelle scarpe; e che male le facevano! Si chinò a sistemare il plantare poi si guardò attorno con preoccupazione.

    La luci dei lampioni erano state abbassate al minimo per non disturbare l’esibizione. Un pallettone di mercurio incrociò una crociera di stelle tricolori mentre l’inno di Mameli andava lento come una melina e si missava su una celebre aria pucciniana

    La ragazza si girò d’istinto, le sembrava che qualcuno l’avesse chiamata, ma c’era soltanto il venditore di barzellette a 5 euro che tentava di raccontargliene una. Lo allontanò e prese d’infilata corso Cairoli. Si sforzò di passare in rassegna le schiene della gente. Sgomitò tra le occhiate infastidite delle mogli e gli occhi lattiginosi dei mariti. Con una certa fatica riuscì ad arrivare in fondo a via Maria Teresa dove la folla iniziava a diradarsi.

    Sbatté i piedini per terra e le venne da piangere. Si disse che era una scema, doveva smetterla di comportarsi da bambina. Quante volte glielo aveva detto sua madre?

    Poi partì quella canzone elettrica, la tastiera midi anni ottanta, la fisarmonica di Astor Piazzolla e la voce di Grace Jones che si aggrappava al tango in un groviglio.

    Strange I’ve seen that face before,

    Seen him hanging ’round my door,

    Like a hawk stealing for the prey,

    Like the night waiting for the day[1].

    L’uomo le mise le mani sugli occhi, lei ne riconobbe i calli e la marca del tabacco che fumava. Le venne da fare la pipì. Strinse i pugni dall’emozione. Sentì il corpo di lui aderire al suo, il ventre e la muscolatura tesa sotto i vestiti. Lo chiamò per nome, ma la voce non le usciva. Le parole le erano rimaste sepolte nello stomaco come un bolo. Sperò che la canzone potesse dire qualcosa per lei. La vita faceva certi scherzi... quant’è che desiderava di sentirsi così. Impotente. Aveva perso il controllo degli organi, niente più rispondeva. Lui le avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, e forse lo sapeva. Tutto andava a sbalzi, il fiume la stava trascinando in una guerra. Sentiva il calore irradiarsi dal basso ventre fino a conquistarle le guance in quel rossore che fin dall’adolescenza l’aveva fatta dannare. Non era mai stata capace di nascondere nulla e adesso lì, in quella notte di luci, pensò di amarlo. Prese tutta l’aria che poté dentro ai polmoni. Doveva riuscire a dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, che era contenta magari. Sì, felice. Perché no. D’un tratto ebbe paura. Nel cielo si inseguirono delle coppie a intreccio e a controbomba. Decine di botte a stucchi e lanci a pioggia coprirono la canzone in un crescendo di eccitazione. La gente sorrideva, si baciava, si abbracciava, qualcuno schiattava come un cane. Era iniziato il gran finale e alla ragazza scoppiò il petto.

    Nessuno avrebbe mai potuto notare un colpo in meno, o uno in più. Lo sparo di una semiautomatica è poco più che lo schiocco di un petardo. La ragazza si sedette su una delle panchine senza più forze e l’uomo la baciò. Lei si accasciò, esausta di quell’emozione improvvisa. L’uomo la accompagnò nell’abbraccio. Poi la ragazza chiuse gli occhi e lo trovò.

    Il primo ricordo della sua vita.

    Lei nel bianco della neve. Un odore di crema. Odore di burro di cacao, le dita della madre sulle sue labbra per non farle screpolare. Una presenza fisica, ruvida, la sensazione di pelle morta sui polpastrelli e il calore. Attorno tanta gente come adesso nella notte più lunga dell’anno. Dicembre del 1990. Aveva tre anni e le sembravano tanti astronauti. No quello no. Non poteva sapere cos’era un astronauta a soli tre anni… Allora pensò che non si possono avere ricordi indelebili. Il tempo li cambia e gli dà nomi diversi. Ogni volta ricordiamo la stessa cosa, interpretandola, e il mondo si allarga. Quasi vent’anni prima. Il suo compleanno. E adesso quest’amore la stava sfinendo in un attimo troppo intenso. La ragazza sentì svanire i sensi, che stupida, probabilmente presa dai preparativi si doveva essere dimenticata di mangiare... Certo! Non aveva mangiato niente fin dall’ora di colazione, erano arrivati quegli uomini era uscita con loro di corsa dal bar e...

    L’uomo alzò gli occhi al cielo, la notte su Torino era un incendio, dalla basilica di Superga alla luna a tre quarti la città se ne fotteva. Brillava la terra su quel circo patetico. L’uomo continuò ad abbracciarla fino a farle male, sentiva l’odore della sua pelle entrargli dentro e complicargli la vita. Chissà a cosa stava pensando in quel momento.

    Lui chiuse gli occhi e trattenne quella sensazione senza lasciare che l’emozione lo confondesse avvolgendolo sul nastro del ricordo.

    I poveri avrebbero continuato a mangiare zucchero filato e i nuovi regnanti ad affacciarsi dai terrazzini della piazza in discesa dove centocinquant’anni prima si decisero le sorti del futuro Regno. Adesso si discuteva di Tav e di Ztl, acronimi che intenerivano il significato di più misere battaglie.

    Era il solstizio d’estate, la notte più corta dell’anno, il giorno in cui le streghe ballavano il sabba e la gente moriva nei modi più stupidi. Adesso lui stava pensando alla scena finale di un film che aveva visto qualche anno prima in un cinema all’aperto di periferia. C’era un uomo che saliva sulla metropolitana di Los Angeles all’alba, poi schiattava seduto su una poltroncina, ma nessuno se ne accorgeva e il treno continuava il suo viaggio per tutto il giorno.

    Il viaggio di un morto sul treno dei vivi.

    E lui adesso non sapeva più che viaggio aveva di fronte.

    E lui adesso era morto e perduto come solo un vivo può essere. E chissà se la ragazza coi capelli di vaniglia riusciva ancora a sentire la canzone finire la sua corsa in francese.

    Dans sa chambre, Joel et sa valise,

    un regard sur ses fringues,

    Sur le murs, des photos,

    Sans regret, sans mélo,

    la porte est claquée, Joel est barré.[2]

    [1] Strano, ho visto il suo viso prima, l’ho visto girare intorno alla mia porta, come un falco che insegue la sua preda, come la notte in attesa del giorno.

    [2] Nella sua camera, Joel e la sua valigia, uno sguardo ai suoi vestiti, sui muri, delle foto, senza rimpianti, senza melodramma, la porta è sbattuta, Joel se n’è andato.

    Primo Tempo

    La Stampa,

    articolo di Mario Pancan

    Siamo entrati nella fabbrica abbandonata dietro corso Regina Margherita e ci siamo fermati nel cortile esterno. C’era un ragazzo appeso a una recinzione, legato mani e piedi con del filo di ferro. Era sospeso in aria come un insetto. Bala˘ poi ha preso un pezzo di rame, una matassa grande quanto una ruota di scorta, ha iniziato a frustarlo sulla schiena... Mi ha detto che avrei fatto la stessa fine. Il ragazzo era tutto sporco di sangue. Bala˘ gli aveva messo uno straccio in bocca perché non potesse urlare. Mi diceva: ‘Guarda bene, questo è il gradino della morte per chi cerca di scappare...’.

    Sono i dannati dell’oro rosso. Ladri di rame. Ragazzini schiavi fatti arrivare dalla Romania per tagliare guaine, bruciare cavi, cannibalizzare vecchie fabbriche dismesse come la Cimi Montubi. L’imponente indagine del commissariato di Torino Centro, agli ordini del commissario Giorgio Paludi, è chiusa. Il PM Carla Fresia ha chiesto il rinvio a giudizio per 35 persone: tre sono ricettatori italiani, gli altri romeni di Coropceni, piccolo paese contadino al confine con la Moldavia. Posizioni diverse per accuse molto pesanti: associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù, violenza sessuale, sequestro di persona, estorsione, furti in serie. Sono stati arrestati tutti tra il 23 e il 25 di marzo in un’imponente caccia all’uomo. Il 30 luglio dovranno comparire davanti al gip Marianna Lanteri. Nel frattempo, dei 7 imputati accusati dei reati più gravi, è rimasto in carcere solo il capo Adrian Tanasi detto Bala˘, la Belva. Quasi tutti gli altri – compreso il testimone chiave Muscalu Ocit – hanno fatto perdere le loro tracce. Sono spariti nel nulla. Telefoni staccati. Persiane abbassate. Ombre clandestine. Gli avvocati sono senza notizie da settimane.

    Gli inquirenti ipotizzano che alcuni possano essere tornati in Romania, dopo aver ricevuto pressanti minacce pervenute durante i mesi di custodia cautelare. Come il messaggio fatto recapitare prima dell’estate a Ioan Giurcanu, un avvertimento molto esplicito Dipende da te con una una foto del figlio strappata a metà. Si capisce perché, per spiegare quello che avevano scoperto, gli investigatori avrebbero usato anche la parola mafia. è un’organizzazione capace di imporre un regime di terrore il commento laconico del PM Giachino Volli.

    Dal carcere di Nuoro dove è stato rinchiuso La Belva continua a terrorizzare i suoi ragazzi e i suoi complici. Per riuscire a trasferirlo lì, gli agenti della polizia penitenziaria avevano dovuto immobilizzarlo e sedarlo.

    Ora i giorni torinesi di Adrian Tanasi, fra il novembre 2009 e l’estate del 2010, sono agli atti. Pagine di verbali che fanno rabbrividire, voci di invisibili che nessuno prima dell’indagine coordinata dal commissario genovese aveva mai raccolto: I ragazzi vivevano dentro la fabbrica, il cibo lo portava Bala˘. Pulivano il rame, lo spelavano, lo caricavano in macchina, non uscivano mai, erano come animali in un canile. Sporchi, costretti a dormire su pezzi di cartone e pallet, mangiavano per terra, sempre nello stesso capannone. Uno di questi fu ritrovato coperto di lividi, era stato picchiato da Bala˘. Si chiamava Iulian, aveva soltanto 17 anni....

    Eccolo Iulian, nel verbale firmato dal testimone chiave Muscalu Ocit: Con la mia Chrysler e la Dedra di Bala˘ siamo andati alla Ceat di Settimo Torinese per recuperare il resto del rame. Improvvisamente Bala˘ ha detto che voleva far veder a Iulian il bagagliaio, ma era solo una scusa. Ha iniziato a picchiarlo, urlava, voleva tanti soldi. Forse 2000 euro, e li voleva subito. Bala˘ ha tirato fuori un coltello, l’ho fermato prima che l’ammazzasse. Iulian era pieno di sangue, con le labbra spaccate e un occhio pesto. Non si muoveva, l’abbiamo lasciato lì solo perché è passato un contadino e c’era il rischio che ci scoprissero. Il carico di quel giorno venne poi venduto da un ricettatore di via Veronese, anche lui a processo: 4000 euro in contanti per una tonnellata e 200 chili di oro rosso. Poi dalle parole dei complici di Bala˘ si è incominciato a intravedere molto di più. Non solo il rame. Un traffico di ragazzi e di donne. Il racconto dell’orrore.

    Una moldava vittima della Bestia fu trovata in una casa abbandonata, dietro piazza Stampalia. Era dicembre. Mio marito Gabriel stava accendendo il fuoco, Bala˘ era ubriaco. Si è girato all’improvviso, ha preso Gabriel per le spalle e l’ha sbattuto fuori, poi ha afferrato una grossa vanga e l’ha colpito rompendogli le costole. Gabriel urlava, sentivo che chiedeva di lasciarmi andare. Ma Bala˘ non mi lasciava: ‘Se provi ad andartene t’ammazzo’. Mi disse. Mi ha portato nella roulotte e mi ha violentata. Piangevo, ma non c’era nessuno. Poi, la sera Bala˘ ha chiamato un taxi, è venuto a prenderci alla casa abbandonata. Abbiamo attraversato la città. Appena siamo arrivati nel suo alloggio, vicino a Porta Nuova, mi ha violentata di nuovo. Il palazzo è stato successivamente localizzato con l’aiuto dei carabinieri di via Morgari in una traversa di San Salvario. "Sono rimasta a casa di Bala˘ per una settimana. Eravamo dalle parti della stazione, lo capivo perché vicino passava il tram, il 18 quello che arriva fino a Mirafiori.

    Non sono riuscita a scappare perché Bala˘ chiudeva sempre la porta a chiave. Mi ha preso il telefono e il passaporto, mi ha violentata ancora sul suo letto, non usava mai il preservativo. Mi voleva umiliare in ogni modo. Voleva che facessi la puttana come altre due ragazze che vivevano a casa sua. Mi diceva che solo quello ero capace di fare nella vita. Una delle due ragazze si chiamava Anna, mi ripeteva continuamente: ‘Fai tutto quello che vuole Bala˘. Fai come me, ti conviene. Tanto non valiamo niente. E anche meno di niente...’". Adesso Anna è una donna distrutta, vive presso una comunità della cooperativa il Margine.

    Venticinque giorni prima

    Il sole sorge alle 05.10 e tramonta alle 21.42

    In provincia si sa, non succede mai nulla.

    Quel giorno invece si erano divertiti a incaprettare un ragazzo, mutilarne il cadavere e gettarlo da un viadotto.

    – Cose che capitano.

    Disse il dottor Lucentini, poi prese a forbirsi il baffo con noncuranza.

    Il commissario Paludi si chiese che cosa potesse intendere il medico legale con la sua affermazione, forse che se uno veniva gettato da un viadotto poteva capitare che fosse morto. Poi decise di non indagare oltre l’animo del dottore, ormai era abituato alle sue manie, e cercò di concentrarsi sul cadavere.

    Muscalu Ocit, diciannove anni di Coropceni. Testimone chiave di un processo che si sarebbe dovuto tenere da lì a qualche mese contro il racket dell’oro rosso. Il maxi processo sul furto e il contrabbando di rame che con tanta dedizione erano riusciti a mettere in piedi. Adesso Muscalu se ne stava immobile per sempre, ancora imponente nel suo metro e ottantacinque. Legato mani e piedi con il nastro di una persiana avvolgibile e sfigurato dalla caduta. Paludi sbuffò.

    La segnalazione anonima era arrivata in centrale un’ora prima, la chiamata era partita dalla cabina della telecom numero 4529 nei pressi della stazione dei treni di Susa sul secondo binario. L’uomo, pronuncia italiana, nessuna inflessione dialettale, secondo il verbale, si era limitato a indicare sommariamente la zona del ritrovamento e aveva riattaccato. Cercate sotto una rampa della statale venticinque nei pressi del Golf Club. Non dirò altro. Arrivederci. Nessuno sul posto sembrava averlo notato. Nessun indizio. Una bella pelatura di cazzi.

    Il commissario Paludi si guardò davanti. Il sole era intrappolato dietro una coltre di nubi pettinate da un leggero vento di scirocco, le macchine sfrecciavano sulla superstrada, verso la tangenziale. Il corpo era a una ventina di metri dall’estradosso del guard rail, doveva essere rimbalzato e rotolato lungo la scarpata fino alle cesura di un canale di scolo in cemento che delimitava il campo di carciofi. Oltre il campo e la discarica si estendeva un bosco ceduo di pochi anni. Platani forse. Paludi non era mai stato in grado di distinguere un albero dall’altro, avrebbe scambiato un ciliegio per un palo telegrafico. Lucentini continuò il suo spettacolino.

    – Paperino si fa le paperine ed è felice. Topolino si fa le topoline ed è felice. Pippo... – il dottor Lucentini guardò il cadavere, si avvicinò per fare un paio di tamponi e controllare la postura. L’ispettore Anastasi lo interruppe.

    – E Pippo?

    – Pippo è triste.

    Il commissario li maledisse. Erano una bella squadra di coglioni, un medico legale con il vizio delle barzellette sporche, un ispettore di polizia narcolettico, e un novellino che si stava fumando una sigaretta sulla scena di un delitto. Il commissario gli chiese gentilmente di avvicinarsi e poi gli diede una sberla. L’agente Brigazzi era abituato agli scatti d’ira del suo superiore e non se la prese, il commissario gli fece cenno di allontanarsi, poi accese una Stop senza filtro.

    Forse aveva ragione Brigazzi, dopotutto erano nel bel mezzo di un piccolo spiazzo utilizzato saltuariamente come discarica abusiva a poche centinaia di metri da uno degli svincoli della statale del Frejus subito dopo Avigliana. Un po’ di cenere non avrebbe certo potuto inquinare la scena del crimine.

    Il commissario perlustrò la zona, era piuttosto comoda, si usciva dalla superstrada si gettava di sotto la lavatrice e tanti saluti. Solo che stavolta c’avevano buttato un ragazzo di nemmeno vent’anni. Uno che aveva passato l’adolescenza a compiere reati, furti, intimidazioni, rapine, uno che doveva picchiare la gente per conto di un mostro, tanto da esserlo diventato forse anche lui stesso.

    Giorgio Paludi, 49 anni il giorno dei Santi, si fece schermo con la mano per guardare in lontananza, si vedevano passare i primi motociclisti che salivano per passare il week-end ai laghi fare le S in mezzo agli autoarticolati. Il commissario alzò lo sguardo e riconobbe la Sacra di San Michele con il suo monastero sul monte Pirchiriano che dominava la valle in controluce, dovevano anche averci girato un film ma non ne ricordava il nome. La voce nasale del dottore lo interruppe dalle divagazioni.

    Livor mortis al dorso ancora modificabile alla pressione del dito. Fuoriuscita di sangue dall’angolo della bocca, dal naso e da entrambi i canali auricolari. Fa un caldo pazzesco – quindi si chinò a controllare gli occhi.

    – Pupille isometriche, dilatate.

    Paludi guardava in alto verso lo svincolo, non distava più di otto nove metri in altezza.

    – Agente venga qui e mi dia una mano.

    Recuperò lì vicino un paio di sacchi pieni all’orlo di immondizia. Li considerò. Pesavano abbastanza. Risalì il tornante e la bretella, arrivato più o meno a metà curva sollevò di sotto i due contenitori. Aveva il fiatone. Uno dei due sacchi si fermò pressappoco a un paio di metri dalla luce della carreggiata, l’altro scivolò non troppo distante dal cadavere dell’uomo. Guardò l’ispettore e il medico legale per capire se per loro poteva quadrare. Poi tornò nella discarica seguito dall’agente.

    Lucentini scosse la testa.

    – Non l’hanno gettato da lì. Le ferite sono molto più gravi, non è abbastanza alto.

    Il commissario era meditabondo.

    – Oppure l’han gettato proprio da lì. Ma era già morto.

    – Perché?

    Domandò l’ispettore Anastasi.

    – Perché? Chi? Quando? Siamo qui proprio per questo ispettore. Per dare delle risposte a cosa ci faccia un ragazzo di novantacinque chili a pochi passi dall’autostrada, una bella mattina di giugno. Morto.

    – Maggio.

    – Che cosa?

    Trenta giorni ha novembre con april, giugno e settembre. Di ventotto ce n’è uno, tutti gli altri ne han trentuno. Oggi è il trentuno di maggio.

    Paludi ne aveva abbastanza, si sfilò i guanti e li gettò nella spazzatura. Lucentini si accorse di aver pisciato fuori dal vaso.

    – Priorità commissario?

    Il commissario alzò le spalle. Muscalu era solo un povero cristo che aveva deciso di parlare, un ex criminale del quale a nessuno importava niente. Quel pezzo di merda del PM gliel’aveva passato di straforo come fosse stato un caso di taccheggio in un centro commerciale. Non era nemmeno sceso dalla macchina appena giunto sulla scena del delitto. Si era limitato a guardare di

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