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Il bacio della mantide: Rose e veleni per il maresciallo Bonanno
Il bacio della mantide: Rose e veleni per il maresciallo Bonanno
Il bacio della mantide: Rose e veleni per il maresciallo Bonanno
E-book363 pagine6 ore

Il bacio della mantide: Rose e veleni per il maresciallo Bonanno

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Info su questo ebook

L’affascinante Agatina Barresi, detta la Catanisa, è sposata con Cristenzio Marchiafava, rampollo di una ricca famiglia nobiliare di Villabosco. Dopo aver a lungo accarezzato il sogno di divenire madre, ha dovuto arrendersi. Da quel momento la convivenza tra i due ha assunto il peso di una condanna, tenuta insieme dalla necessità di salvaguardare le apparenze. Fino a quando la Catanisa esplode due colpi di pistola contro il marito la sera che un romantico velo di neve è sceso su Villabosco, sconvolgendo l’atmosfera perfetta di una romantica serata che il maresciallo Saverio Bonanno sta trascorrendo in compagnia della bella Rosalia Santacroce, sensibile assistente sociale. A Bonanno non piacciono le persone arroganti, men che meno quando hanno i santi in paradiso, e se il suo fiuto gli suggerisce che c'è del marcio va a muso duro. Contro tutto e tutti. Tanto più che per pudore o coda di paglia, il professor Marchiafava tiene bordone dal letto d'ospedale alla consorte. Quando i suoi peggiori presentimenti si avverano, Bonanno non si stupisce, ma c’è in gioco il buon nome dell'Arma da tutelare, e la pistola d’un carabiniere da ritrovare. Una pistola che spara e uccide tutti quelli che incontra sulla sua strada. Siciliani e albanesi. Quale mano preme il grilletto? A Bonanno spetta sbrogliare la matassa, mentre sotto il cielo dell’isola seguiamo anche le vicissitudini di un ragazzino kosovaro, Mishna, costretto in fretta e furia a diventare adulto per colpa di belve senza scrupoli che stuprano, saccheggiano, uccidono senza mai volgere lo sguardo al cielo. Mishna ha un paio di stivali da recuperare e deve portare a compimento la propria missione. Ne va del suo onore. Ma l’innocenza non potrà mai più recuperarla. Come lui tanti altri bambini nel Kossovo.
Una nuova, intrigata indagine, per il maresciallo dalla scorza dura e il cuore di panna, come sempre affiancato dal fidato brigadiere, Attilio Steppani e dal carosello di personaggi che abbiamo già conosciuto nei precedenti romanzi.

Roberto Mistretta, vincitore della 40° edizione del prestigioso Premio “Alberto Tedeschi” Giallo Mondadori, con La profezia degli incappucciati, primo siciliano ad aggiudicarsi tale riconoscimento, vive e lavora a Mussomeli (Cl), la Villabosco dei suoi romanzi. Laureato in Giornalismo, scrive per il quotidiano La Sicilia. Ha curato l’inchiesta sul Giallo siciliano con interviste a Santo Piazzese, Gaetano Savatteri, Domenico Cacopardo, Ottavio Cappellani, Andrea Camilleri e altri autori. E’ autore del radiodramma Onkel Binnu sulla cattura di “zio Binnu” (Bernardo Provenzano), trasmesso con successo dalla WDR di Colonia nel 2008 e replicato a settembre 2018. E’ autore dei volumi: Giudici di frontiera, con prefazione di Giancarlo De Cataldo, raccolta di interviste a magistrati impegnati in prima linea nella lotta alla mafia; Il miracolo di don Puglisi, che racconta la conversione di Giuseppe Carini, oggi testimone di giustizia, avvenuta grazie al parroco di Brancaccio; Rosario Livatino: l’uomo, il giudice, il credente, una completa biografia del giudice ragazzino assassinato dalla mafia; Il titano di pietra/Mussomeli e il suo castello, con foto del Maestro Melo Minnella. E’ autore della serie del maresciallo Saverio Bonanno tradotta con successo in Austria, Germania e Svizzera e riproposta in Ebook, a maggio 2018, dal suo editore tedesco, la Luebbe di Colonia. Con questa casa editrice, ha pubblicato: Il maresciallo Bonanno/Un’indagine siciliana e Il canto dell’upupa (finalista a Salernoir 2019).
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2019
ISBN9788869433726

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    Anteprima del libro

    Il bacio della mantide - Roberto Mistretta

    1

    Bocca impastata e chiodi negli occhi. Agatina Barresi scese dal letto e trovò il bacio gelido del marmo. Rabbrividì, ma si costrinse a rimanere in sottoveste. Gravami onirici e lame nei pensieri.

    Restò a lungo a guardarsi attorno. Conosceva a memoria quella camera da letto, la sua alcova: il trumeau in noce di Ferrara, il comò intagliato dai mastri d’ascia, l’ottocentesca lumiera in cristallo di Boemia, le cornici in argento sbalzato e cesellato. E le foto in bianco e nero. Si mosse verso la finestra e si riempì d’alba. Le campane di Santa Lidia Purpuraria riverberavano i primi bagliori della Montanvalle, ricamata d’arancio e turchese. Il mattino si stiracchiava dietro le gibbosità delle colline. Il centro storico di Villabosco galleggiava nel silenzio, avvolto nella nebbia. Un gallo salutò il giorno. Nelle case in pietra del quartiere, qualche vecchina ancora allevava le galline e faceva colazione con un tuorlo fresco mescolato a marsala e zucchero. Uno zabaione denso e gustoso, che sapeva di famiglia.

    Quale famiglia?

    Il palazzo barocco, dove s’era illusa di afferrare la felicità, la soffocava. Le mancava la lava del suo vulcano, la neve che ne imbiancava il nero cratere sino a primavera inoltrata, l’orizzonte che si allargava sul mare di Catania e lambiva il verde di aranceti e limoneti che si estendeva a perdita d’occhio.

    Agatina contemplò la figura che ronfava nel letto.

    Cos’era rimasto di tanti sogni?

    Apparenze cerimoniose, rispettabilità di facciata. Respirò sapore di fallimento, unghiate maligne le aggredirono le pieghe del ventre freddo. Si sentiva immersa in un blocco di ghiaccio. Da ragazza aveva creduto agli uomini e alle loro promesse. Poi gli anni erano passati, uno dopo l’altro, lasciando rughe sulla pelle e sfregi nell’anima. E quel senso d’oppressione gravava su ogni singolo gesto. Su ogni respiro. Le mancava perfino l’aria.

    Si riempì i polmoni, cercando il giorno anche dentro di sé. Un rumore la fece girare. Lui aveva steso il braccio dalla sua parte, cercandola tra le lenzuola. Lo fissò: un tempo si era sentita protetta. Lui era così coinvolgente e rassicurante, col suo eloquio forbito e i modi signorili, un gentiluomo del secolo passato, così diverso dai tanti che aveva conosciuto. Lo aveva sposato. Carrozza, fiori e rinfresco nel baglio dell’ex feudo.

    Quante illusioni!

    Contemplò la propria immagine riflessa nella specchiera. Era ancora soda e attraente, con la carne ben distribuita nei punti giusti. Quando incedeva con le minne in fuori e i fianchi ancheggianti, lo leggeva in faccia agli uomini quali appetiti suscitava. Si compiacque di se stessa pensando a ciglia gagliarde che la carezzavano: l’albanese, conosciuto così rocambolescamente sotto Natale, ardeva di desiderio. E il desiderio gronda energia. Pura. Animalesca. Ferina.

    Lo aveva sentito fremere sotto le sue unghie smaltate quando gli aveva regalato la libertà.

    Come ti chiami?

    Valon, signora.

    Valon, da valoj, ribollire. E nulla come la bramosia della carne muove il mondo.

    Con passi felpati, Agatina si mangiò la stanza, frugò nel cassetto segreto del trumeau, percepì la carta morbida. Lesse.

    Amore mio, non so più cosa è bene né cosa è male.

    La pistola, come sempre, la ritrovò accanto. L’impugnatura aderì perfettamente alle sue dita, sottili e morbide, e la Walther PPK le fiorì in mano. Agatina la strinse. La fissò.

    Ogni errore si può correggere.

    Ne saggiò la consistenza, ne ammirò le linee dritte e armoniose. Letali.

    Davvero potrei arrivare a tanto?

    Puntò decisa la canna della calibro 7.65 contro i cuscini e con freddezza prese la mira.

    Il marito si girò di fianco.

    Bum, fece Agatina sottovoce.

    Sulla Montanvalle, luce abbagliante orlava di nuova consapevolezza il nascere del giorno.

    ***

    È un giorno di marzo. Un tuono squarcia il silenzio del mattino. Sotto il cielo del Kosovo gravido di pioggia, Mishna perde l’innocenza.

    Il soldato serbo è ubriaco. Gonfio di vino e di rancore. Ciuffi sudici e arruffati spuntano da sotto il basco, formano un’isola crespa con la barba incolta. Il soldato spiana il mitra su Serge, il padre di Mishna, lo tiene sotto tiro. Ha la sua stessa corporatura, gli stessi lineamenti. Potrebbero essere fratelli se non fosse per quell’arma puntata e per gli occhi, pozzi di ferocia iniettati di sangue. Il soldato sputa e ringhia. È un animale pronto ad attaccare.

    Serge non si muove. La consistenza della lama che gli preme sulla schiena gli dà forza. L’ha nascosta per fronteggiare pericoli come quello, ha dovuto imparare a difendersi nella terra dove è nato e cresciuto. La sua terra. Ma quel posto non gli appartiene più. I serbi sono armati, sono pericolosi. Nessuna autonomia. Nessuna libertà per gli albanesi del Kosovo.

    L’uomo accumula terra in terra, e di terra muore. Non una sola manciata ne porta con sé.

    Se solo riuscisse a prendere il coltello. Serge non è uno sprovveduto, è guardingo, attento. Ma il soldato ubriaco è spuntato all’improvviso da dietro i massi dove smaltiva la sbornia, non lo aveva visto. Un errore mortale. Serge gli legge negli occhi sentenza e condanna. Allontana Mishna con uno spintone.

    Gravità, forza, accelerazione. La violenta spinta sbilancia Mishna, lo fa cadere lontano. Il ragazzino si fa male alla spalla. La fitta gli risale lungo i fasci nervosi del collo.

    Il soldato ringhia.

    Cosa sta abbaiando?

    Serge non perde di vista il soldato. Sprona Mishna ad allontanarsi.

    Suo figlio è ancora vicino. Troppo vicino.

    Corri, Mishna, non fermarti, corri.

    Il soldato bestemmia, digrigna i denti, spara. I colpi sono tonfi secchi, alzano pugni di polvere, abbattono vite. Serge crolla nell’erba. Chiazze scarlatte gli fioriscono sul petto.

    Non pensare, Mishna, corri.

    Disperazione, amore, coraggio. Un padre difende il suo cucciolo fino all’estremo. Serge si rialza col peso del mondo sulle spalle, brandisce il coltello, ma la vista già si annebbia.

    Non toccarlo.

    Il soldato gli molla un calcio, gli anfibi trovano la lama che schizza lontano. Un raggio solitario si fa largo tra i nembi, la indora tutta. Barbagli luminescenti seguono la sua parabola, e si perdono in una polla di luce tra l’erba rorida di pioggia e linfa purpurea. La vita di Serge scorre via.

    Il sangue degli uomini ha lo stesso colore sotto ogni cielo. Lo stesso odore. La stessa consistenza. Vita e morte. L’uomo sconvolge l’ordine naturale delle cose. La morsa dell’odio brucia i sentimenti, fa a pezzi i sogni dei bambini.

    Corri, Mishna, corri.

    Serge non può più proteggerti. Gli orchi calano a orde dalle montagne. Sei solo adesso, solo con la tua paura a farti compagnia.

    Corri, Mishna, corri.

    L’innocente si allontana portando con sé l’orrore. Divisa sudicia, il soldato è un avvoltoio curvo su suo padre, intento a sfilargli gli stivali.

    Senza i suoi stivali un uomo è nudo, figlio mio, non permettere a nessuno di toccarteli.

    Padre, geme Mishna tra le lacrime.

    Gli risponde una nuova raffica di mitra. Il soldato sputa odio e rancore.

    Muori, cane.

    Serge non si muove. Mishna è lontano, fuori dalla portata di tiro del soldato, si ferma, rimane a guardare inorridito. Il sacrificio di Serge lo ha salvato. Fissa vittima e carnefice, incide a fuoco quelle immagini nel suo cuore.

    Il soldato leva al cielo gli stivali di Serge. Esulta brandendo il suo trofeo. Lo sfida.

    Mishna non ha più lacrime. Gli uomini non piangono. Accetta la sfida.

    Li riprenderò, padre, lo giuro sul Kanun, lo giuro sul nostro sacro codice.

    ***

    Nome in codice: Operazione merlo.

    Il maresciallo Saverio Bonanno pensava al sole di luglio e si rivedeva a passeggiare sul bagnasciuga di Gallipoli, a godersi raggi infuocati e a rimirare le grazie esposte con generosità da belle ragazze lucenti di abbronzante che si rosolavano sulla spiaggia pugliese.

    Capperi, congelo! si lamentò il brigadiere capo Attilio Steppani.

    Il maresciallo fu risucchiato nella sua fredda realtà di sbirro di provincia. La tramontana soffiava impietosa e l’aria in odore di nevischio tirava sberle che lasciavano intontiti. Con quel tempo da lupi, solamente scassapagliari in cerca di colpi facili o sbirri scriteriati si sarebbero attardati nei vicoli di Villabosco. Stradine lastricate in pietra lavica, case disabitate, chiese secolari. Sicilia agreste, interna, pastorale. Arcaica.

    Da un paio d’ore, i due carabinieri stavano appostati nel quartiere della Madonna dei Sette Miracoli, dietro un portico in pietra intagliata.

    Perché questo malo campare se il merlo sta dentro? continuò a lamentarsi Steppani, facendogli il verso siciliano.

    Bonanno lo fulminò: Muto, ci serve una prova. Per sicurezza.

    Ma che prova, sto diventando un ghiacciolo. Se solo sapevo, col piffero mi inguaiava in questo calappio. Nato e cresciuto nell’opulento Nord Italia, il brigadiere si divertiva a scimmiottare la parlata del suo maresciallo.

    Finiscila.

    Gelo protestò ancora Steppani.

    E va bene, accidenti a te, andiamo a prenderlo.

    Era ora si rincuorò il brigadiere, col naso purpureo e gli occhi lacrimosi per quel prolungato appostamento mirato. Bonanno s’era incaponito a mettere i ferri ai polsi di Peppino Mangiaracina, detto Porcufinu, piccolo delinquente di paese e padre di una caterva di figli, che per sfregio aveva versato dell’olio corrosivo sulla fiammante auto del sindaco, Totino Prestoscendo, al diniego di quest’ultimo di concedergli l’ennesimo contributo sociale.

    Il sindaco e il colonello avevano dato il tormento a Bonanno.

    Deve arrestarlo. La flagranza si trova, a saperla cercare, gli aveva detto il superiore. Non c’era stato altro da aggiungere. Ma Mangiaracina s’era dato alla latitanza e i due avevano continuato ad assillarlo.

    Il calendario segnava il 19 marzo, festa di san Giuseppe; nella Montanvalle, per tradizione, si apparecchiavano imponenti tavolate in onore del patrono dei falegnami e in diverse famiglie si invitavano i vicchiareddri – gente povera, con semplicità definita vecchietti, per devozione all’iconica figura del patriarca – e si servivano portate degne di Trimalcione. Ben conoscendone la voracità, Bonanno era convinto che Peppino Mangiaracina avrebbe trovato il sistema di intrufolarsi in casa sua e rimpinzarsi, approfittando della giornata siberiana.

    Steppà, stavolta l’acchiappiamo aveva detto tre ore prima Bonanno al suo sottoposto.

    Buon per lei, maresciallo aveva cercato di svignarsela il brigadiere.

    Dove vai? Mi serve il tuo supporto.

    E ti pareva si era arreso Steppani.

    Per non dare troppo nell’occhio, il maresciallo e il suo braccio destro s’erano messi in abiti borghesi e avevano lasciato l’auto distante, agendo con discrezione, per evitare che qualche lingualunga soffiasse all’uccellino la presenza degli sbirri. A Villabosco perfino i rutti avevano paternità e codice fiscale.

    Mancavano dieci minuti a mezzanotte. Bonanno spense quel che restava della Benson & Hedges. Le folate di tramontana li stavano intirizzendo. La finestra al primo piano si schiuse, mani carnose sbatacchiarono un’enorme tovaglia da tavola.

    Amunì si gasò Bonanno.

    Finalmente disse Steppani.

    L’abitazione di Mangiaracina si trovava al primo piano. Si raggiungeva salendo una scala a cui si accedeva dall’esterno. Il portone era chiuso, ma Bonanno s’era portato i grimaldelli. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, Steppani sbottò: Senta, Lupin delle montagne, posso provarci io?

    Rammaricandosi per aver lasciato nel bagagliaio della Punto il fidato piede di porco, il maresciallo si fece da parte con aria di sfida: È tutto tuo. Se quel novellino del nord pretendeva di insegnargli il mestiere, si accomodasse. Steppani infilò il ferro uncinato nella serratura, trafficò con l’altro grimaldello e si udì uno scatto secco. Il brigadiere si inchinò con gesto plateale, lasciando il passo al superiore. Prima lei.

    Fortuna.

    "Occhio che non le si secchi la lingua con un bravo, Steppà, ottimo lavoro."

    "Se non avessi avuto le dita congelate, vedevi se in quattro e quattr’otto non te la sbarracavo quella porta."

    A lei serve un corso accelerato di scasso.

    Finiscila di fare il saputello.

    E pure un corso di buone maniere. Procediamo?

    Ha parlato il Vidocq della Padania.

    Salirono le scale e quando furono davanti alla porta di Mangiaracina, indispettito com’era, Bonanno la tempestò di pugni.

    Aprite, carabinieri!

    Trambusto di sedie rovesciate e frasi concitate.

    Che volete a quest’ora? prese tempo Nina Favarò, la moglie del latitante.

    Aprite o sfondiamo la porta minacciò Bonanno.

    Quello ci scappa disse Steppani, proiettandosi in avanti come un ariete. Con una poderosa spallata sfondò la porta e con una capriola si portò all’interno. Sacramentando al solo pensiero dei danni che l’Arma sarebbe stata chiamata a rimborsare, Bonanno lo seguì a passo di carica. Steppani era stato lesto a rimettersi in piedi e fronteggiava la moglie di Porcufinu occhi negli occhi. Sguardo feroce e determinato, la pistola in pugno.

    Dov’è suo marito?

    Di Peppino Mangiaracina non c’era traccia, ma la sua presenza aleggiava in ogni cosa. Nella montagna di piatti e nelle padelle accatastate nel lavello. Nel lettone disfatto. Nell’agitazione della signora. La camicetta slacciata sul seno generoso, Nina Favarò continuava a gesticolare e a inveire, sbarrando il passo ai due: Che volete? Sola sono.

    Svegliato dal trambusto, uno dei bambini invocava la mamma, protendendo le braccine dalla culla, ma Nina Favarò non muoveva un passo. Fronteggiava i due carabinieri, ben piantata sul logoro tappeto della sala d’ingresso. Bonanno si insospettì.

    Steppà, sposta la signora.

    Scherza? Peserà una quintalata!

    Steppà: posa il ferro e pigliati la fimmina!

    Perché non se la piglia lei?

    Perché è un ordine. Levala dal tappeto.

    Il brigadiere finalmente sembrò capire il messaggio sottinteso. Rinfoderò la pistola d’ordinanza, sollevò Nina Favarò e la allontanò di peso, beccandosi una gomitata nelle costole e un calcione negli stinchi. Strinse ancor di più la presa rivolgendo un’occhiata significativa al maresciallo, e Bonanno seppe che aveva archiviato quei colpi con doppia sottolineatura nel libro dei favori che avrebbe dovuto contraccambiargli.

    Sotto il tappeto c’era una botola mascherata.

    Visto, Maigret? disse Bonanno. Pari e patta.

    Solo sorci ci stanno là sotto si agitò la signora, avvampando.

    Controlliamo.

    Calatisi di sotto, aspettarono qualche secondo per abituare gli occhi all’oscurità. Momenti lunghi una vita. Nina Favarò smise di inveire. Si sentivano solo i singhiozzi dei bambini. S’erano svegliati tutti. Il maresciallo fece luce con l’accendino, un riverbero fioco ma sufficiente a delimitare la sagoma di un vecchio materasso, ritto contro il muro. Il materasso aveva due piedi. Piedi nudi.

    Lo sai che ti dico, Steppà? Ora sparo qualche colpo in quel vecchio materasso. Mi levo lo sfizio e giustifichiamo l’irruzione.

    Le do una mano rispose il brigadiere, tirando fuori il ferro. Bonanno fece scorrere il carrello dell’arma. Steppani lo imitò. Click clack.

    Va bene, al mio tre scarichiamo i ferri.

    FERMI, non sparate saltò fuori Porcufino. Era in canottiera e mutande, le mani alzate e le gambe di ricotta.

    Fermi, io qua ci sto, Peppino Mangiaracina in persona, fu Vastiano. Non sparate.

    Il merlo era in gabbia.

    2

    Concluse le formalità di rito in Centrale, Mangiaracina fu condotto in carcere che albeggiava. Steppani si scatenò ad abbordare a velocità sostenuta le curve e i tornanti che portavano a Caltanissetta, la piccola Atene immortalata da Sciascia. Nella trasferta a sirene spiegate lo affiancò un giovane collega in forza alla Compagnia da poco tempo. Il malcapitato ignorava la guida sportiva del brigadiere e dopo quaranta minuti sulle montagne russe, toccò terra sottosopra e verdastro. Porcufinu, stravolto dalla guida di Steppani, varcò come uno zombie la soglia del Malaspina. Bonanno preferì sorvolare sulla galoppata fuori ordinanza di Steppani: presto gli avrebbe chiesto la contropartita, un consistente rapporto per archiviare una volta per tutte la pratica Mangiaracina. Non amava le scartoffie e delegava il sottoposto ad occuparsi delle pratiche da scrivano.

    Do ut des.

    Così andavano le cose nella caserma di Villabosco, cittadina medievale spersa tra i monti sicani da dove si dominava mezza Sicilia. Nelle notti di luna si potevano toccare le stelle e farci ghirlande di luce solo allungando un dito. Un posto baciato dal cielo, ma preso a calci dagli uomini. Aria pura e scempi di ogni genere. E a lui, maresciallo dei suburbi, toccava il compito di fare rispettare la legge, anche se Roma era lontana e nell’isola ognuno alimentava la propria personale concezione di diritti e doveri.

    Immerso in quelle considerazioni oziose, si rese conto con ritardo del bussare insistente alla porta del suo ufficio.

    Avanti.

    Comandi, maresciallo, una visita per lei si impalò il piantone sull’attenti.

    Illustre maresciallo! Sono venuto appositamente per congratularmi a titolo personale. Come sindaco di questa città, invece, le farò ottenere un plauso formale per renderla partecipe della stima e della riconoscenza dell’amministrazione comunale che mi onoro di presiedere parlò tutto d’un fiato Totino Prestoscendo.

    Bonanno fulminò l’incolpevole piantone per quell’attacco alla sprovvista e cercò di contenere l’entusiasmo di Prestoscendo. La porta aperta lasciava intravedere l’ufficio di fronte, da dove Bonanno vide Steppani intento a godersi la scena.

    Non servono i ringraziamenti, sindaco, tutti servitori dello Stato siamo.

    Non sia modesto disse ancora il primo cittadino di Villabosco, prendendo posto sulla sedia. Se tutti fossero ligi al dovere come lei, esimio maresciallo, a Villabosco le cose andrebbero per il giusto verso, altroché se filerebbero! E invece ci tocca ogni giorno battagliare per educare mezza città al concetto di legalità, al rispetto dell’ambiente, all’osservanza delle regole. Lo sa cosa hanno combinato i soliti vandali nei giardinetti appena rimessi a nuovo? Tre lampioni spaccati e una panchina ribaltata. Un pacco di quattrini presi dal bilancio comunale ci avevo speso. Che cosa ci provano a rovinare dei beni comuni?

    Sarà che sono targati Totino Prestoscendo e ognuno protesta a modo suo, pensò Bonanno, ma per amor di pace, ben altre parole tirò fuori: Eh, la capisco, ci vuole pazienza.

    Si pentì di quell’apertura solidale. Prestoscendo si infervorò e se la prese con la scuola che non assolveva più ai suoi compiti precipui, coi preti e i loro dogmi che allontanavano i giovani e con l’eccessivo permessivismo delle famiglie. Ma Bonanno era stanco e ne ebbe subito abbastanza.

    In municipio non avete un apposito assessorato preposto alle problematiche giovanili?

    Prestoscendo non si aspettava quell’appunto malevolo e rimase come un mammalucco. Cercò di riacquistare la baldanza silurata da Bonanno, ma quando riprese a parlare sputacchiava. Provvidenziale, lo squillo del telefono interruppe la pantomima tra il sindaco e il maresciallo.

    Chi parla? soffiò Bonanno nella cornetta.

    Stazione spaziale chiama pianeta terra, e se la terra è scaltra farà buon uso di questa chiamata stellare, io tiro fuori l’astronave disse San Steppani.

    Comandi, arrivo subito disse Bonanno. Con faccia di circostanza, rivolgendosi a Prestoscendo, aggiunse: Comunicazione di servizio urgente, il dovere mi chiama, devo lasciarla.

    Nulla di grave per la nostra comunità, voglio sperare rispose il sindaco a labbra strette.

    Normale servizio d’ordine.

    Non la trattengo, allora, arrivederci, maresciallo… ah, dimenticavo: ho deciso di ricandidarmi e volevo essere io a dirglielo.

    Un’altra volta?

    Proprio non sapeva tenerla a freno la sua linguaccia. Dannata impulsività. Gli sovvenne il monito che sua madre, donna Alfonsina, gli ripeteva da quando portava i calzoni corti: a lingua nun havi ossu ma rumpi l’ossu. Quante volte l’aveva sottratto all’altrui impeto quando lui, schietto e fin troppo diretto, provocava reazioni scomposte nei destinatari dei suoi commenti inopportuni. Col passare degli anni aveva imparato a tenere la bocca chiusa, ma bastava un niente per abbassare la guardia e ritrovarsi nei pasticci, quando l’impulso prendeva il sopravvento.

    Le dà tanto fastidio? si irrigidì Prestoscendo.

    Bonanno cercò di metterci una pezza: Non mi fraintenda, ma considerando, come lei ha sempre sottolineato, i tanti crucci che comporta amministrare una comunità così… complicata come Villabosco, pensavo che concluso il suo mandato non volesse più ricandidarsi, ma evidentemente mi sbagliavo.

    Evidentemente sottolineò freddamente il sindaco.

    Cumannari è megghiu di futtiri pensò Bonanno, ma si guardò bene dal profferire un’altra sola sillaba. Lo salutò in fretta e uscendo incenerì con lo sguardo il piantone che gli aveva portato in ufficio tale jattura. Il maresciallo aveva un modo proprio di intendere l’impegno politico, e quel modo non coincideva né con la melliflua flemma di ominicchi plaudenti, né con l’arte dei compromessi di chi, ovviamente in nome e per conto della polis, faceva il bello e il cattivo tempo, trovando mille e un modo di intrallazzare e arricchirsi. Nulla di nuovo sotto il sole, ad ogni latitudine furbi e minchioni vengono su come funghi e la politica stessa diventa una deroga alla falsità. Ma a Bonanno proprio non andavano giù quei bipedi che si credevano meglio degli altri e continuavano a minchionare il popolo.

    Steppà, decolla.

    Steppani sorrise e pettinò l’asfalto con due dita di pneumatici: Sorvoliamo tutte le Stazioni?

    Era evidente che al brigadiere lo attizzasse il pensiero di misurarsi a briglia sciolta con le curve e le trazzere di campagna che collegavano i paesini della Montanvalle.

    Non ti allargare.

    E dove vuole andare sua maestà, di grazia?

    A quest’ora abbisogno di zuccheri e caffeina.

    Ricevuto, capo.

    Fecero un’abbondante colazione alla caffetteria del centro, aperta da pochi mesi da due gemelli che avevano recuperato e riadattato un vecchio stabile di famiglia. La gioventù che a Bonanno piaceva. Il maresciallo si concesse un dietetico cartoccio alla ricotta e un espresso così corposo che lo zucchero restava a galleggiare in superficie prima di essere inglobato in minuscole bolle scure.

    Ah disse, uscendo dalla caffetteria e infilandosi tra le labbra la sigaretta saluta caffè. Ma d’improvviso si paralizzò, incapace perfino di respirare. Rosalia Santacroce gli apparve quale mirabile visione da incorniciare. L’assistente sociale transitava a bordo della propria utilitaria. Il sangue a Bonanno si rimescolò, il cuore prese a pompare con più forza. Agitò la mano senza allungare il braccio, combattuto tra irrisolti complessi e la voglia di farsi notare. La Y10 rallentò e si fermò nel parcheggio. Rosalia gli andò incontro sorridente, incedeva solenne e magnifica come la Madonna dei Miracoli portata in processione. Bonanno boccheggiò. Le braccia abbandonate sui fianchi rigogliosi accompagnavano il ritmo naturale del portamento. Rosalia Santacroce non camminava, incedeva con naturale sensualità sul basalto di Villabosco e a ogni passo le anche baciavano il bacino rotondo e pieno. Bonanno non poté fare a meno di mangiarsela con gli occhi, risalendo alle spalle ben fatte e al petto florido. E lì i suoi occhi indugiarono un secondo di troppo. Deglutì per l’emozione, tentando di non farsi notare.

    Saverio, che bello incrociarti così. Quasi non ti vedevo, come stai? disse, baciandolo sulla guancia infuocata.

    A posto.

    Mi hanno detto di ieri notte. Finalmente lo avete preso quel tipo, era ora disse ancora Rosalia.

    Eh sì.

    A Bonanno le frasi uscivano a mozziconi. Con la coda dell’occhio, vide Steppani che, dal posto di guida, salutava con gesto galante l’assistente sociale e si godeva la scena. Davanti a Rosalia Santacroce il maresciallo non riusciva a profferire parola, diventava paonazzo e si imparpagliava come un ragazzino alla prima cotta.

    Non essere modesto: la falsa modestia appartiene a chi è piccolo qua dentro disse Rosalia, puntandogli l’indice sulla tempia.

    Mangiaracina ha fatto penare anche i nostri servizi sociali con le sue pretese di contributi a non finire. Se non hai altri impegni, ti va di venire a cena? Così mi racconti aggiunse Rosalia.

    Eccome se gli andava, ma come dirglielo senza squagliarsi?

    Non so, devo verificare, i turni di servizio farfugliò.

    Chiamami se ti liberi, allora disse Rosalia. Sembrava delusa. Si allontanò con quella grazia innata che la rivestiva come una seconda pelle e la rendeva irresistibile.

    Gnam gnam, mi sa che Gatto Silvestlo vuole pappalsi a Titti lo punzecchiò Steppani.

    Bonanno lo fissò truce.

    Equipaggiata con quella carrozzeria, Titti, però, avrà la fila di pretendenti, e se Gatto Silvestlo continua a peldele tempo, qualcun altlo allivelà plima, continuò Steppani, imitando il famoso personaggio animato.

    Bonanno preferì non rispondere, ma le mani cominciarono a muoversi a violino. Senza replicare, si avvicinò al lato guida, fece smontare il brigadiere, prese il suo posto e artigliò il volante.

    Guido io sibilò a labbra serrate.

    Colpito e affondato, ghignò Steppani.

    Rosalia era risalita in macchina, mise in moto e partì con la sua tipica sgommatina.

    Parlando adesso seriamente, maresciallo, non penso serva dirlo, io non sono Gatto Silvestro, ma quando sorride con quella bocca, viene voglia di fermarla e controllarle tutto l’armamentario lo provocò ancora il brigadiere.

    Il maresciallo ingranò la marcia e partì sparato, lasciando due dita di copertoni sull’asfalto. Gli bruciavano quei commenti maliziosi. Rosalia gli aveva risvegliato emozioni da troppo tempo sopite e non era più abituato a convivere con quel tipo di sentimenti.

    Steppani sorrise sornione.

    Altri occhi avevano osservato la scena. Gli occhi liquidi e penetranti di Agatina Barresi.

    3

    Marescià, buongiorno! Qua ci starebbe un messaggio telefonico per voi.

    Il carabiniere scelto Giovanpaolo Cacici restò immobile ad aspettare la risposta.

    Ti pigliò una botta di mutismo nelle corde vocali o devo leggermela di persona ’sta ambasciata?

    Marescià, scusatemi tanto. Se volete l’ambasciata ve la posso fare pure io.

    È per me o non è per me?

    Sissignore, marescià, è per voi.

    Allora non ti far pregare, che non è giornata.

    "E chill’ ’o

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