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L'assenza dell'assenzio
L'assenza dell'assenzio
L'assenza dell'assenzio
E-book448 pagine5 ore

L'assenza dell'assenzio

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Info su questo ebook

L’estroso Andrea G. Pinketts è già un classico!”Le Figaro

L’assenza dell’assenzio è l’arrivo del silenzio: la morte delle idee, la fine della creatività. Per sfuggire a tale rischio, Lazzaro Santandrea si improvvisa cacciatore di dote, ma si ritrova investigatore suo malgrado tra Milano e la Costa Azzurra, con gli amici fidati Pogo e Caroli al suo fianco, e l’aiuto illecito di Gippo, che può sempre procurare “quella cosa lì”, qualunque essa sia. Un giallo, un noir, cui Pinketts aggiunge tutti i colori del suo talento letterario.

Questo romanzo contiene: tre persone di nome Assenzio, un cacciatore di dote, tre storie d’amore, un bel po’ di morti ammazzati, due (forse tre) Cristine, levrieri afghani & canguri cocainomani, i fratelli Kokoschka, un bambino prodigio, ghigliottine e pozzi senza fondo, Ursus & Orsetta Orsoni, Giuditta terrorista ecologista, malinconie metropolitane e paranoie bucoliche, vuoti di bottiglia e vuoti esistenziali, bon ton e malavita, zingari & zingarelli, tre civette scomparse dal comò, un fornaio infoiato, una Costa Azzurra rosso-sangue e, soprattutto, un Lazzaro Santandrea nel mezzo del cammin della sua vita, alle prese con inferni che nemmeno Dante avrebbe saputo evocare.

In appendice i contenuti speciali di Andrea G. Pinketts: Il braccio nella piaga, Al cinema con il mostro, La presenza dell’assenzio.

LinguaItaliano
Data di uscita25 ago 2023
ISBN9788830592834
L'assenza dell'assenzio

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    Anteprima del libro

    L'assenza dell'assenzio - Andrea G. Pinketts

    PARTE PRIMA

    I

    Mi svegliai con il viso sprofondato nel pelo pubico di una sconosciuta. Avevo trentacinque anni. Come dire: Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura….

    La linea retta è il metodo più veloce per arrivare a un punto e fare il punto della situazione. Ma è anche il più noioso. Meglio qualcosa di più curvilineo, come il sedere di una pin-up, di più arabescato, come un racconto di Poe o una parentesi graffa.

    Meglio perdersi in sentieri tortuosi, aerobici, erotici a volte. Contorti come le bizze del legno su un bastone nodoso. Illogici come le pizze di un pizzaiolo ubriaco.

    Non c’è fretta. Anche perché, man mano che ci avviciniamo al punto, lui si fa sempre più grande e, quando l’abbiamo raggiunto, è ormai gigantesco e impaziente di inghiottirci.

    Talvolta, però, questi punti neri, questi buchi neri non segnano necessariamente la fine della pista. Il punto di non ritorno è verticale. Ce ne sono un’infinità di orizzontali, disseminati sul campo brullo della retta via e sul campo minato dei sentieri tortuosi. Anche questi buchi ti ingoiano come buche di un flipper, un reperto archeologico, ma la caduta non è mortale.

    Il mio atterraggio, per certi versi, si sarebbe potuto definire fortunato. L’apparato genitale femminile è una località turistica sempre à la page. Eppure sudavo freddo.

    Due giorni di sbornia dura avevano cancellato con un colpo di spugna i ricordi più recenti di una vecchia spugna.

    A volte ricordare è doloroso, ma forse è peggio perdere un pezzo di vita bevendosela alla cosacca: è un po’ come essere morto prima del tempo e non poter gridare al miracolo per la resurrezione. Frustrante per uno che si chiama Lazzaro.

    Desideravo ricordare eppure nello stesso tempo ne avevo paura, così temporeggiavo con la testa appoggiata al reparto genealogico di Miss Non So.

    Sapevo di non conoscerla perché con la coda dell’occhio ero riuscito a realizzare che la stanza mi era ignota. Le tapparelle alzate lasciavano filtrare una luce livida in un ambiente maestoso, regale, principesco. La ragazza doveva essere per forza nobile. Russava. Spostai leggermente la testa. Gli uccellini cantavano, il suo stomaco gorgogliava. Un buongiorno polifonico.

    Mi sentivo la lingua di carta vetrata e nella mia testa i pensieri stavano giocando a hockey su ghiaccio nel ruolo del disco di caucciù.

    Osai un altro movimento. Non volevo svegliare la donna dal ventre incandescente perché non desse in escandescenze.

    Chissà come mi ero comportato. Tutti noi discendiamo dall’uomo delle caverne. Quasi tutti. Alla base del mio albero genealogico c’è l’uomo delle taverne: a volte socievole, altre asociale; a volte euforico, altre cupo come il cielo prediluvio. Sperai di non averle vomitato sul tappeto di pelle di mammut.

    Ero curioso di guardarle il viso. Ormai il suo sistema pilifero lo conoscevo a memoria. Poteva essere desiderabile come un ghiacciolo a Ferragosto nella vita di un dodicenne o brutta come il peccato che non abbiamo il coraggio di commettere. Sperai che fosse brutta, così me ne sarei potuto andare senza rimpianti.

    Basta indugiare, Lazzaro Santandrea, maestro indiscusso del talento sprecato. Alzati e cammina. Ma, per non inzaccherare il pavimento con i passi falsi della tua incoscienza sporca, per piacere, metti le pattine.

    Alé, un bel colpo di reni e di nuovo in piedi come la torre di Pisa.

    La ragazza era bella anche se mi sembrava di non averla mai vista. Me la sarei ricordata: era completamente calva.

    Mi rivestii il più in fretta possibile.

    Ero tentato di lasciarle un biglietto con qualche frase di circostanza tipo: La ringrazio sentitamente e colgo l’occasione per porgerle il mio più sincero Chi sei?

    Mi muovevo malfermo alla ricerca di una stilo dal pennino d’oro quando inciampai nei suoi indumenti sparsi alla rinfusa, muti testimoni di una notte probabilmente selvaggia. Le finii addosso, si svegliò di soprassalto.

    Benché la situazione fosse decisamente assurda e lei decisamente calva, non cantò, preferì urlare. Con una mano le coprii la bocca mentre mi guardava con occhi di terrore. Mi morse. La colpii con astio al posto giusto e con la forza giusta. Tornò immobile.

    Scesi la scala a chiocciola che portava al piano inferiore di quell’appartamento troppo grande per una persona sola; infatti, sia pur temporaneamente, lo aveva diviso con me. Le chiavi per fortuna erano nella serratura.

    Chiamai l’ascensore, uno di quelli belli, antichi, figlio legittimo del modello presentato all’Esposizione Universale di Parigi del 1889. Fu come entrare in una cassaforte.

    L’ascensore aveva uno specchio. Avevo una disdicevole barba di due giorni e gli occhi iniettati di sangue. Irriconoscibile ai miei stessi occhi. Forse perché, inspiegabilmente, ero diventato calvo.

    ***

    È difficile spiegare il concetto di attesa in movimento.

    L’attesa è seduta. Un trono scomodo o, male che vada, la sala d’aspetto di un dentista. In ogni caso, l’attesa brucia come se la sedia che contiene il culo fosse elettrica: da un momento all’altro si salta, signori. Saltano i nervi, le valvole e si prolunga un corto circuito finché non diventa lungo.

    L’attesa di un verdetto e l’attesa di una lettera d’amore si somigliano. Lasciano spazio alla speranza: piccola come una delle briciole seminate per strada da Pollicino, eppure intensa.

    Ma, se la sedia è elettrica e nella contrada vige la pena capitale, l’unico escamotage per non morire prima del tempo è autoconvincersi che la sedia è una sedia qualunque, presa in prestito all’Ikea, e che l’elettricità la produce il condannato stesso, con un tardivo ma appagato senso di autodistruzione.

    Però, se cammini, è diverso. Ti muovi e quindi la condanna a morte è in realtà una condanna a vita. In fondo quasi un barlume di salvezza nel movimento: chi si ferma è perduto.

    Uscito dalla casa della signorina I don’t know sarei potuto tornare a casa, ma i ricordi e il presente si limitavano a tifare per quella partita di hockey sul ghiaccio. Scivolavano come pattinatrici inesperte e come whisky on the rocks non ancora in grado di amalgamare alcol e ghiaccio.

    L’unica certezza era la città. Una città che, come me, stava riprendendo vita a poco a poco, preceduta di stretta misura dagli autobus e dalle panetterie.

    Lasciai il quartiere aristocratico. Non via della Spiga ma un campo di grano, nel senso del denaro, raccolto da architetti in grado di ristrutturare una palafitta e farla sembrare l’Empire State Building.

    Io camminavo in sintonia con e sulla città. Mi sembrava di muovermi su un pianoforte: scordato come me. Prima o poi, grazie alla cooperazione, sarebbe ritornata l’armonia e allora addio, note stonate. Via Santa Maria Segreta sarebbe stata costretta a vuotare il sacco e a rimanere di conseguenza solo via Santa Maria. Le Cinque Vie si sarebbero riunite, dando il la a una lega. Ma una di quelle vere, che unisce i passanti in una sorta di comunità appiedata che, quando pesta una cacca di cane, comunque, porta fortuna.

    Camminare è autoterapeutico. È inutile sdraiarsi su un lettino per l’analisi: l’autoanalisi migliore è verticale, Watson. È mobile come una scala della Rinascente che garantisce la rinascita.

    Non camminavo per ritrovarmi, camminavo per sfuggirmi. Eppure sapevo che a lungo andare mi sarei raggiunto. Proprio mentre si stava riacchiappando dopo la pausa notturna, Milano, come me, voleva nascondersi le sue eventuali nefandezze. Ignorava le siringhe, i bossoli, i preservativi, desiderava di nuovo la propria efficienza. La deficienza aveva l’inconsistente palpabilità di un sogno, sognato da chi ha mangiato pesante. Gli incubi sparivano al mattino.

    A ogni passo riacquistavo sicurezza. A ogni passo la partita nel mio cervello si faceva meno dura, ma non per questo meno dolorosa. Tornavo umano.

    Era un pezzo che non parlavo, così quando all’inizio di corso Garibaldi intercettai un postino, gli gridai: «Ciao». Un ciao primordiale, la voce delle taverne. Per la paura sbandò. Cercai di aiutarlo a rialzarsi, ma declinò l’invito. Gli facevo paura. Anch’io dopo essermi guardato allo specchio mi ero fatto paura. Ma per lui era la prima volta e la prima volta, di qualsiasi argomento si tratti, va rispettata. Ero calvo ma saggio. Avevo perso i capelli, ma non la forza. Sansone sì, ma non con un’innocua Dalila Di Lazzaro dalle forbici inutili e spuntate.

    Via Laura Mantegazza Solera, non so chi sia e me ne scuso, comunque una strada che esce da corso Garibaldi per respirare l’ossigeno del parco lì dietro.

    Erano tre. Skinhead, a giudicare dalle teste pelate come la mia. Nonostante fossero le otto del mattino, avevano deciso di stuprarla.

    Lei era nera, giovane, con un gonnellone a fiori sollevato da un vento bastardo. La gente forse assisteva alla scena dalle finestre, troppo vigliacca per intervenire e troppo pigra per infilare un ditino nel telefono e chiamare chi di dovere. Pavidi guardoni o forse, peggio, persone disinteressate che assistevano a uno stupro come se fosse uno special sullo stupro, una ramanzina televisiva nel corso di Domenica In. Pronti a indignarsi, ma non a intervenire.

    Mi sentivo uno straccio. Con una ditata sarei finito a terra, eppure… Eppure! Quando l’eroe giusto è latitante, va bene anche quello sbagliato.

    Uno dei ragazzoni aveva i calzoni abbassati. Con un calcio gli centrai i coglioni, nonostante il cavallo dei pantaloni gli facesse da cintura di non castità. Il secondo mi guardò. Prima che in quella testa ottusa potesse formarsi l’embrione di un pensiero, gli ammollai uno sberlone rinforzato. Prima che il terzo potesse dire Io non c’entro, passavo di qui per caso, con le ultime energie gli sparai una ginocchiata al plesso solare.

    Poi rivolsi la mia attenzione alla ragazza. Era in stato di shock. I tre stupratori si leccavano le ferite. Ero forte e cattivo, e per di più avevo ragione. Lo capirono tutti e tre.

    Non lo capì la ragazza. Come mi vide prono per soccorrerla, equivocò e cominciò a gridare.

    Le buone intenzioni sono spesso fraintese. Forse è per questo che la gente commette cattive azioni.

    I tre cialtroni si defilarono ammaccati. La ragazza, confondendo la mia pelata con quella degli skinhead, seguitava a gridare. Avevo mal di testa. Per frenarne l’urlo, placarne lo shock e darle una regolata, la schiaffeggiai.

    Fu allora che arrivò la pula. Mi blindarono. Mi menarono mentre i colpevoli erano altrove e i testimoni muti come pesci, come piranha affamati di carne umana.

    La tipa era talmente fuori da non distinguere una carota da un sonetto di Shakespeare. Cercai di balbettare una qualsiasi giustificazione. Macché. Nada de nada. Mentre mi portavano via (non molto lontano per fortuna: via Fatebenefratelli, la Questura era lì dietro) attonito e incapace di spiccicare una parola, cominciai a riflettere. Essere frainteso era la mia condanna. Eppure mi spiego benissimo.

    ***

    Si chiama camera di sicurezza. È la stanza dei fermati che, invece di essere fermi, sono piuttosto agitati. Quelli tra loro che vengono fermati spesso ci fanno il callo, si annoiano addirittura, come se, anziché avere a che fare con la Giustizia, si trovassero a fare i conti con la Sanità. In fondo sempre di cura si tratta. E nessuna delle due funziona.

    Però, nel camerone che alberga innocenti e colpevoli, c’è un’ora magica, quell’ora in cui le dieci-dodici persone accomunate per difetto osano l’eccesso. Prima delle foto segnaletiche, prima di uscire dopo un confronto favorevole. Esiste il momento del confronto. È una corrida, un derby, una finale dei mondiali del nulla a cui sei costretto a partecipare.

    «Per cosa ti hanno fermato?»

    «Stupro» risposi ingenuo, rendendomi immediatamente conto che la ripida scala di valori dei galeotti, con quella risposta, avrebbe giustificato il mio stupro.

    Un uomo alto come una cartolina e largo come una veduta di Positano esclamò: «Non mi piacciono gli stupratori».

    «Neanche a me. Preferisco le ragazze stuprate.»

    L’aria era tesa. Una corda di violino in mano a Pel di Garrota.

    «Per cosa ti hanno fermato?» chiesi tanto per fare conversazione.

    «Rapina a mano armata. Pardon. Presunta rapina. Non sono stato io.»

    «Be’, bello, non sono stato neanch’io.»

    Un tossico stanco, due buttafuori in disuso, il mostro di Modena e altri cinque non colpevoli. Troppa gente per litigarci. Loro non erano dello stesso avviso.

    Stavo iniziando a considerare l’ipotesi del suicidio, più dignitoso dell’omicidio di massa, quando un pulotto si presentò. «Santandrea Lazzaro?»

    «C’est moi. Giusto in tempo.»

    «Si va?»

    «Si va.»

    La ragazza, ripresasi, aveva ritrattato. Molte scuse e anche qualche complimento.

    L’errore giudiziario è sostanzialmente un errore di giudizio. Ma stavano facendo male a lasciarmi libero. A volte è meglio essere prigioniero. Sorvolando sulla discutibile compagnia, hai comunque meno responsabilità.

    Di nuovo in strada. Una bella giornata di ottobre quando Milano, umorale come poche, dopo aver litigato con settembre a suon di acquazzoni e aver obbligato i cittadini a togliere il trench dalla naftalina, decide di regalare uno scampolo d’estate quasi a tradimento. Una piccola beffa.

    Bella giornata, ma non per me. Oddio, se vogliamo, migliore della precedente. Ma in fondo era appena iniziata. Eppure era già così piena di calvi e di equivoci, di violenza e di ricordi che adesso, terminata la partita di hockey, facevano la coda all’Ufficio collocamento pensieri dolorosi.

    La mia vita era un mistero. Lazzaro Santandrea, ex modello, ex giornalista, ex istruttore di kendo, ex possidente, ex conferenziere… Una sfilza di ex fidanzate a fare compagnia a tutte le ex persone che ero stato.

    La mia vita… un giallo. Ora, se avete pratica di editoria, dovreste sapere che, quando consegnate un poliziesco a un editore, questi si preoccupa subito: «Hai messo un cadavere nel primo capitolo? È fondamentale per questo tipo di narrativa».

    L’avrei potuto accontentare, mio malgrado. Il cadavere ce l’avevo bello e pronto anche se si trattava di un cadavere anomalo perché era stato assassinato dal tempo. Mia nonna era morta qualche giorno prima. All’età di novant’anni.

    ***

    Cominciò a morire nel dicembre dell’anno precedente, quando non era più riuscita ad alzarsi dal letto, ma non aveva mollato. Tenendo duro mese dopo mese. Assomigliava sempre più a Braccio di Ferro, per il nasone, la mandibola e il caratteraccio. Assistita sino allo sfinimento da mia madre.

    La nonna era ruvida come un plaid scozzese appoggiato su delle ortiche trentine. Continuava a bere vino rosso, sintonizzata sulle telenovelas. Riceveva visite di sollecite vicine di casa che si piantavano al suo capezzale, tiranneggiate dal racconto delle sue malattie e dal suo eloquio.

    Si era sempre rifiutata di imparare l’italiano. Ma nemmeno il dialetto trentino conosceva molto bene. Parlava una lingua tutta sua, fatta di parole inventate, e si stupiva per la durezza di comprendonio di chi, non capendola, diceva: «Prego?».

    La domenica mattina non si perdeva la messa del papa in tivù. Fingeva di essere molto religiosa. Un giorno le cadde un bicchiere di Merlot che diede linfa al tappeto persiano. Esplose in un «Ostia!».

    «Ma come, nonna. Bestemmi?»

    «Cossa ti vole che bestemio. Pregavo!»

    La sfottevo appena possibile. Mi piaceva vederla combattiva, accennare a prendere il bastone per randellarmi.

    «Pensa, nonna, che fregatura. Se dopo la morte non c’è nulla, hai borbottato tante litanie per niente. Se invece i cattolici hanno ragione, col tuo carattere, bene che ti vada, finisci in purgatorio.»

    Mi lanciava dietro il bastone. In famiglia avevamo tutti il senso del tragico.

    Con mia madre, che pure è una donna dolcissima, ogni giorno recitavamo delle scene madre.

    «Ti maledico.»

    «Guarda che è grave, detto da una mamma.»

    Piatti rotti, calci al frigo, lacrime e continue rappacificazioni.

    La nonna non partecipava. Si limitava a scuotere la testa con ironica disapprovazione dicendo: «Mi torno in Trentino, lì mi vogliono tutti ben».

    «Perché, noi no?» insorgevamo, improvvisamente coalizzati.

    Lei si fingeva indignata, poi faceva pace con uno alla volta. Si cercava alleati ma anche temporanei nemici, per poter fare un po’ di casino. Divide et impera. Stava lì sul letto come la regina d’Inghilterra a controllare il papa, me, mia madre, la filippina e tutti quelli che le facevano visita. Pretendeva anche che le mie ex fidanzate andassero a renderle omaggio anni dopo la fine di rapporti burrascosi. «Me sembra strano che la Elisabeta non la vegna più. Me voleva cossi ben.»

    Assisteva ai telegiornali commentando la politica estera. Per pigrizia mentale si era sempre rifiutata di pronunciare un solo nome correttamente. Enrico per lei diventava «Richeto», Clinton «Tinton», Pippo Baudo «Ipobaldo». La signora dell’esperanto a proprio uso e consumo.

    Ogni tanto fingeva di morire, ormai non ci credeva più nessuno. Bastava un Fernet o un goccio di limoncello e tornava più combattiva di prima. Era fatta di ossa e vento. Un vento che alle volte ti scompigliava i capelli come una carezza inaspettata e che altre volte ti pungeva, perché la natura non è crudele, solo dispettosa.

    Poi all’improvviso smise di bere, si atrofizzò come l’ispirazione di un poeta maledetto senza assenzio. Un invisibile vampiro le scavava con denti aguzzi le piaghe da decubito. Le visite continuarono, ma stavolta lei soffriva veramente. Aveva persino rinunciato a fingere di essere tutt’uno col papa.

    Il vampiro le colpì anche i genitali: cominciò a diventare incontinente. Questo fatto, forse, le era più insopportabile del dolore. Capì tutto d’un colpo le attenzioni che aveva ricevuto durante la vita.

    Aiutavo mia madre a sollevarla. Bisognava prenderla di peso. Il suo corpo a volte era ingombrante, a volte leggero come quello di un uccellino. Mi ringraziava, veramente grata, e quegli occhi dardeggianti si facevano acquosi, sembravano volersi scusare.

    L’ultima frase che mi disse, cosciente, fu «Buona fortuna». Stavo andando a un appuntamento galante e lei mi trovava bellissimo. Quando rientrai a casa, l’ictus l’aveva colpita. Il medico insisteva per il ricovero, circondato dalle immancabili e preziose vicine, che per la prima volta potevano parlare liberamente senza essere interrotte dalla nonna.

    Mi opposi. Non volevo che la portassero via. Il medico fu irremovibile. Cedetti.

    Chiamai Pogo il Dritto, il mio migliore amico, e seguimmo l’ambulanza. Mia madre era fuori Milano per lavoro. Costrinsi Pogo a fermarsi al bar.

    «Ma come, babbo di minchia, la vecchia quercia è a un passo dalla segheria e tu pensi ai cicchetti?»

    «È proprio per questo, Pogo. Ti stupisci? Eppure ci conosciamo dalla prima liceo. Io certe cose non le accetto. Adesso ci facciamo un paio di gin tonic, poi andiamo in ospedale e mia nonna sarà fresca come una rosa.»

    «Sei sicuro, uomo?»

    Il suo viso lungo da bel cane da caccia palesava emozioni contrastanti: la voglia di darmi ragione e la disapprovazione di chi, pur battibeccando con mia nonna da vent’anni, aveva finito col rispettare la vecchia guerriera.

    Già, i duetti di Pogo il Dritto e mia nonna erano memorabili. Due strampalati, lunari figuri che ai pranzi del ventisei dicembre giocavano a provocarsi.

    «Signora, lei ha più di ottant’anni, eppure non ha capito un cazzo della vita. Io invece c’ho una certa esperienza. Mica ho vissuto nella bambagia.»

    «Ma cossa ti vol avere esperienza, io ho fatto due guerre mondiali.»

    «Sì, ma mica le ha vinte lei.»

    «Mi passeresti la grappa o te la vuoi ber tutta ti? Guarda mandolon, ho perso un dito in guerra.» La nonna effettivamente aveva nove dita su due mani.

    «Lei non me la racconta giusta. Si sarà tagliata il dito mentre disossava un pollo.»

    E così, Santo Stefano dopo Santo Stefano, Pogo e la nonna avevano giocato a Bibì e Bobò, a Tom e Jerry, a Castore e Pollice, il dito perduto di mia nonna. Tutto ciò autorizzava Pogo ad avere voce in capitolo. Però taceva.

    Dopo qualche beveraggio, acconsentii a scontrarmi con la realtà. L’ospedale San Paolo era quasi bello tutto illuminato, ma bello solo se guardato a distanza. La notte camuffa.

    In accettazione scoprimmo dove avevano portato mia nonna. Litigai con un paio di medici e convinsi Pogo a portarmi via. Andammo a una festa. Lui continuava a guardarmi perplesso mentre, aggressivo, arringavo i presenti su qualsiasi argomento. Come a dire: Provate a contraddirmi e vi mando al San Paolo.

    Pogo mi riaccompagnò a casa. Mia madre, al ritorno, era stata allertata e ora si trovava all’ospedale. Andai a dormire, un sonno non meritato.

    Il giorno seguente era luminosissimo. «Impossibile che muoia con questo tempo.»

    Tornai al San Paolo a dare il turno a mia madre. La nonna aveva gli occhi chiusi, riuscii a riaprirglieli quasi a forza. Fissava il vuoto. La costrinsi a concentrarsi su un mio dito; il cucciolo smarrito, con la testa chissà dove, eseguì.

    Un’infermiera mi comunicò che avrebbe trovato un volontario per starle vicino. Pettinai mia nonna e le diedi un bacio. Uscii di lì quasi sereno: impossibile morire con quel sole.

    Nel tardo pomeriggio il sole era un po’ calato. Mia madre mi telefonò. «La nonna è morta.»

    «Io vado via.»

    «Capisco. Forse è meglio che te la ricordi viva.»

    In un bar di via Vespri Siciliani mi sbronzai scientificamente di Amaretto di Saronno, un liquore che detesto. Visto che l’autopunizione non mi sembrava sufficiente, mi recai da un barbiere, uno di quelli vecchi, con foto di tamarri anni Settanta a fare da modelli per acconciature.

    «Me li tagli a zero.» Non significava nulla. Solo un gesto di inconsulta, inutile protesta nei confronti della morte. Un’insensata ripicca. Un sacrificio di chiome anziché un sacrificio umano.

    Quando fui completamente calvo, vomitai nel lavabo dopo un accesso di tosse nervosa. Il barbiere non protestò nemmeno, forse leggeva attraverso il cuoio capelluto. Non mi fece neppure pagare il taglio.

    «I capelli può venire a prenderseli quando vuole.»

    Il dolore è sordo, il dolore è muto. Il dolore è sordomuto. Sordo perché ascolta solo se stesso, muto perché non ci sono parole che possano parlarne.

    Il dolore è un handicap. E inciampa nelle barriere architettoniche della vita quotidiana. Una volta tanto, queste barriere sono positive. Diventano barricate della vita che, assediata dal tuo dolore, si rifiuta di arrendersi. La vera resistenza.

    Tornai a casa. Citofonai al numero 5 di piazza Bolivar e dalla strada udii abbaiare Benvenuto, quel bastardo del mio cane, apparentemente un incrocio tra un cane da caccia e una foca. Forse gli unici cani di razza sono i bastardi. I barboncini, che so, finiscono col somigliare ai barboni. Diventano una categoria.

    Mia madre mi accolse come il figliol prodigo. Grande donna. Non si stupì neppure di vedermi pelato. Capiva che il dolore non ha lo stesso baricentro per tutti. Mia madre capiva il mio. Era addirittura disposta a immolargli il suo.

    «Ti faccio un caffè?»

    «Tre. E una bottiglia di acqua minerale.»

    «Domani c’è il funerale. Vieni?»

    «Non so.»

    «Ti ha cercato Pogo.»

    Benvenuto guaiva, visto che non lo stavo festeggiando. Lo indicai a mia madre. «Pensi che se ne sia accorto?»

    «Non so. I cani hanno un’anima ma forse non hanno memoria.»

    «Mi faccio un bagno.»

    «Già che ci sei, fatti anche la barba. Sembri un po’ morto anche tu.»

    E in effetti ero morto. Da un pezzo. Da almeno un paio d’anni. Da quando vivevo in anestesia parziale. Gli amici se ne erano andati.

    Carne, il ciccione, si era trasferito nel Comasco dove viveva con una ricca salumiera. Orari bestiali. Delle ore per affettare il prosciutto, le restanti per mangiarselo. Vito Carta, il fotografo introverso, si era trasferito in Camargue. Antonello Caroli, l’attore, cercava fortuna a Cinecittà. Quanto a Pogo… be’… Pogo è un caso a sé. Tre anni prima aveva avuto un bambino da Cristina. Lui, lo strambo architetto che faceva il taxista, era diventato padre, costringendomi a diventare zio. Quell’uomo strampalato che si comportava con me come Kit Carson si comporta con Tex Willer nei fumetti della Sergio Bonelli Editore aveva appeso le palle al chiodo.

    Un rapporto intenso e tormentato, quello tra Pogo e Cristina. Tant’è che finì. Quasi educatamente.

    Pogo si era fidanzato con una pianista che, guarda caso, si chiamava Cristina. Il mondo brulica di Cristine. Ne so qualcosa. Aveva venduto il taxi e da un anno e mezzo non lavorava: si limitava a rimuginare su se stesso e a essere il mio migliore amico.

    Cristina Due suonava e lui l’accompagnava. In auto. Intanto Cristina Uno si era innamorata di Tulipo, un altro nostro amico, fumettaro di punta per Walt Disney. Il bambino di cui ero stato padrino veniva equamente diviso. Meglio avere due famiglie che non averne nessuna.

    In parole povere, la situazione era un casino. Pogo il Dritto, accasato con Cristina, faceva sempre meno vita mondana. Tulipo, sentendosi investito del ruolo di padre in prestito ed essendosi formato su Mickey Mouse, raccontava al bambino storie bellissime anche se elementari. Del resto il bambino andava ancora all’asilo.

    La vita è strana e ci aveva un po’ allontanati. Solo che gli altri, invischiati in beghe sentimentali, forse non se ne erano accorti. Io sì. Testimone privilegiato e impotente.

    Qualcosa mi mancava. La poesia lurida senza essere sporca delle notti in compagnia di amici diversi eppure simili. Le bevute allegre che la notte partorivano rivoluzioni e al mattino tornavano involuzioni. Mi muovevo come un robot della prima generazione, una sorta di elettrodomestico di lusso non abilitato a fare i lavori di casa. Avvertivo pressante e disperata la mancanza di qualcosa. Incontravo persone, raccontavo balle in giro, ma senza gusto. Scopavo senza amore e senza rabbia, proprio io che avevo conosciuto sia l’amore che la rabbia. Vegetavo sul mio metro e ottantatré di muscoli afflosciati, mentre le nuove generazioni diventavano sempre più alte e toniche.

    Avvertivo l’assenza dell’assenzio. La conclusione banale di una ballata senza cadenze. Di una poesia che era stata mia e che ora mi sembrava altrui. Ero diventato l’ombra goffa di Lazzaro Santandrea, poeta e spadaccino, un golem di pongo, un cialtrone che non mi era più nemmeno simpatico. Un canguro con le borse sotto gli occhi.

    Mi mancava l’assenzio. Ignoravo che di lì a poco ne avrei incontrati, nel senso del nome di battesimo, almeno tre.

    ***

    In via Tito Vignoli qualcuno di pessimo gusto ha edificato la chiesa di San Vito. Non so se una chiesa debba essere allegra come una donnina o solenne come il giudice che si intrattiene, toga all’aria, con la stessa donnina. Resta il fatto che San Vito è funerea, l’ideale per un funerale.

    Non stavo soffrendo. Negli ultimi cinque anni avevo assistito a cinque funerali. Diventa un’abitudine. Un uovo pasquale a Pasqua. Una bara di cioccolato di cui non sei goloso.

    Come si scrive sui necrologi a proposito degli estranei? Partecipano al lutto… Loro partecipavano, io no. Mi limitavo a stare lì impettito accanto a mia madre, in attesa che la bara venisse portata in chiesa.

    Il cortile era gremito. Gente che non avevo mai visto mi stringeva la mano e sussurrava parole impercettibili. «De nada» rispondevo, pensando a tutt’altro. Mia nonna non era mai stata così lontana come da quel posto.

    Stavo cercando di ricostruire a distanza di giorni chi fosse la ragazza calva del mio risveglio post mortem. Una ricca punk che avevo rimorchiato in qualche locale alternativo? Un’ex collaborazionista dei nazisti rapata a zero dai partigiani, miracolosamente conservatasi giovane grazie all’ibernazione? Boh! Chissà se il ghiaccio arresta la crescita dei capelli. La discendente di Carlo il Calvo? La figlia illegittima di Yul Brinner che voleva disperatamente farsi riconoscere, se non dal defunto papà, almeno da qualche produttore cinematografico? Un’indemoniata stile Linda Blair che, avendo avuto un diavolo per capello, era stata esorcizzata con le inevitabili conseguenze del caso?

    A distogliermi da quelle elucubrazioni arrivò Pogo il Dritto. Si era vestito a lutto. A modo suo. Camperos neri, jeans neri, giaccone di pelle nera e camicia bianca, ma un po’ sporca.

    «Ehi, Lazzaro, vecchio pirlone. Hai una faccia da funerale.»

    «Devo ridere?»

    «L’intento era proprio questo.»

    «Lo so e apprezzo.»

    «Che caldo.»

    «Non ti potevi mettere qualcosa di più leggero di questo giaccone?» Sudava copiosamente.

    «Mi sembrava adatto.»

    «Meno male che mia nonna non è morta a Ferragosto.»

    Venne il momento di entrare in chiesa. Mia madre in tailleur blu aveva un’aria remota, io mi scocciavo. Finalmente la funzione ebbe termine.

    Per strappare un sorriso a mia madre usai il metodo Pogo: «Scusa, ma non vengo al cimitero. Con tutti quei morti non è igienico».

    Pogo mi accompagnò a casa. Erano le dieci del mattino, ma nessuno di noi due aveva voglia di un caffè corretto.

    Squillò il telefono. «Ciao, Lazzaro. Sono Monica Giusti…» Aveva una voce allegra, sicuramente non era al corrente del lutto. «… So che non ci vediamo da qualche anno, ma mi sei rimasto nel cuore. Vorrei invitarti al mio matrimonio.»

    ***

    Cercare una dote, una qualsiasi purché sostanziosa. I miei soldi stavano finendo, dilapidati nel corso di una vita intensa. Bisognava pensare al futuro. Sino ad allora mi ero limitato a pensare ai futuristi. Basta avanguardia in ritardo.

    Il gas della mia camera a gas, l’elettricità del mio temperamento, la luce, persino, che rendeva dei fari i miei occhi miopi. Fu così che realizzai la ineluttabile conseguenza del mio essere sopra le righe del mio libretto degli assegni.

    «Non vorrai mica che alla mia età cominci a lavorare» dissi allo specchio. E lo specchio mi rimandò l’immagine di un uomo pelato che non avrebbe conosciuto stempiature.

    L’unico lavoro che non avevo ancora fatto era, del resto, l’unico per il quale ero portato: il cacciatore di dote.

    Sino ad allora avevo frequentato disinteressatamente la crème delle fanciulle. Sennonché, ecco, a me non piacevano i dolci. Preferivo perdermi su Alici marinate, su Sabrine alla spina, su Lorette uscite da Le Ore, nota rivista porno. Alternavo le Antee alle Giusy (con tutto il rispetto), le donne oggetto alle soggettiste cinematografiche. Un dono. Grazie al quale spaziavo come un astronauta nel pianeta Donna, ma prima di tutto nel suo satellite Femmina.

    Piacevo, questo sì. Per qualche strana ragione io piacevo. Che fosse la mia sublime intelligenza, la mia generosa virilità, il mio arrogante aspetto fisico. Piacevo, eppure non ero bello. Almeno non nel senso del lallino con i boccoloni.

    Possedevo la magia, un rito vudù che ridava vita alle donne smorte. La capacità di inabissarsi nell’utero e nell’anima femminile, uscendone illeso, al massimo un po’ rintronato.

    Piacevo a tutte, tranne che a me. Ma io non ero una donna.

    ***

    Il primo Assenzio era completamente assente. Colpa del cedro. Non nel senso dell’albero, né tantomeno della cedrata. Proprio di quel cedro lì, più un unguento che un liquore. In ogni caso un seduttore liquido che a piccole dosi si poteva scaricare benissimo, ma che alla lunga ti rendeva cerebroleso. Lunga quanto? Immagino una vita… o il Tour de France.

    Facevano

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