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Acque torbide per l'investigatore Astengo
Acque torbide per l'investigatore Astengo
Acque torbide per l'investigatore Astengo
E-book178 pagine

Acque torbide per l'investigatore Astengo

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Info su questo ebook

Michele Astengo è un investigatore privato disilluso dalla vita e dal genere umano. Non ama troppo le complicazioni. Innanzitutto quelle sentimentali. Un lupo solitario, insomma. Ha un ufficio a Genova, in Salita San Matteo, e i casi di cui si occupa più frequentemente sono quelli di adulterio. Soldi facili, poca fatica e soprattutto poco coinvolgimento personale. Pedinare e attendere il momento giusto. Cogliere l’attimo del tradimento, immortalarlo e fornire prove inconfutabili al cliente. Tutto qua. Un giorno però la sua polverosa routine viene scompaginata da un caso apparentemente ordinario. Tutto parte dall’incarico conferitogli dalla moglie dell’assessore regionale all’ambiente, Luca Tessori. Chiede le prove dell’infedeltà del coniuge e Astengo non si tira indietro, anche perché il caso si prospetta remunerativo. Ben oltre il tariffario normale. Ne pedina così il marito, accertandone l’infedeltà. Ma niente è quel che sembra. Il cadavere di Luca Tessori infatti pochi giorni dopo viene rinvenuto in mare. È morto affogato, ma nei suoi polmoni non c’è acqua salata…
Per Michele Astengo è troppo tardi tirarsi indietro. Ormai è finito in un gioco più grande di lui. L’unico modo per non farsi stritolare è giocare. Fino in fondo…
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2012
ISBN9788875637729
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    Anteprima del libro

    Acque torbide per l'investigatore Astengo - Novelli Andrea e Zarini Giampaolo

    1.

    La maggior parte dei clienti comincia con l’inondarmi la camicia di lacrime o con il ringhiarmi in faccia perché io capisca subito chi comanda, ma di solito finiscono con il diventare ragionevoli, se sopravvivono.

    Parola di Philip Marlowe. Parole di Raymond Chandler.

    Me ne stavo appoggiato ad una colonna con quel libro in mano, Il grande sonno di Chandler. L’avevo da anni nella libreria del mio ufficio senza averlo mai letto.

    Lo tenevo per fare bella impressione sui clienti.

    Quel giorno l’avevo preso come involucro per metterci in mezzo le foto compromettenti della persona che stavo seguendo, un segnalibro al contrario per una serie di scatti di un Kamasutra fai da te.

    Rilessi la frase.

    Mi pentii di non averla letta prima. In fondo le cose non erano poi tanto cambiate dagli anni ’30 a oggi.

    L’odore di urina e di freni aleggiava dappertutto.

    Passai un po’ di tempo ad intossicarmi con il fumo delle mie sigarette, ad ascoltare la pioggia e a riflettere.

    La stazione dei treni di Principe pullulava di gente di ogni razza.

    Un andirivieni ininterrotto e scostante allo stesso tempo, regolato dalla voce metallica degli altoparlanti.

    Mi passò davanti un tipo losco dallo sguardo sbieco e con la barba sfatta. Indossava un bomber sporco, un cappello di lana calcato stretto e un paio di anfibi con i lacci ben tirati.

    Il diavolo sta sempre nel dettaglio.

    Era un poliziotto della Polfer in borghese che gironzolava per controllare che tutto andasse come al solito.

    Poco più in là il suo compare, un omaccione dalla faccia da bambino, vestito come un commesso viaggiatore, che camminava dietro all’altro, a una dozzina di metri.

    Rimasi immobile dov’ero in attesa che arrivasse il treno che il mio uomo stava aspettando.

    Era un medico dell’ospedale Galliera che stavo pedinando già da qualche giorno per conto della moglie.

    Un caso davvero penoso.

    Ma tant’è erano i casi con cui mi pagavo da vivere.

    E non c’era troppo da lamentarsi.

    Non dovevo usare armi e le vittime dei miei pedinamenti erano dei poveracci che tentavano in un’età tardiva di riscattarsi da una vita cupa e meschina.

    Nessun rischio quindi di beccarsi qualche confetto inaspettato.

    L’uomo era arrivato in stazione con un anticipo assurdo di quasi un’ora per venire a prendere l’amante, un’infermiera, e rifugiarsi clandestinamente in uno degli hotel vicini alla zona del porto.

    La donna, anch’ella una poveraccia, anzi anche di più a mettersi con quel medico, neppure un primario, veniva da Pavia con l’Intercity da Milano.

    Si erano conosciuti ad una specie di convegno specialistico solo qualche mese prima ed era scattato il colpo di fulmine.

    Avrei fatto ancora qualche foto al suo arrivo e poi davanti all’albergo mentre salivano nel loro rifugio d’amore per completare il dossier che avevo preparato per la moglie.

    Poi il mio lavoro sarebbe terminato.

    Sarebbero stati gli ultimi scatti.

    E dopo, sotto con un altro caso.

    Tutti si immaginano che fare l’investigatore privato sia un mestiere di qualche contenuto.

    Alcol, donne e morti ammazzati, ma non è così.

    Almeno non per me.

    Solo mogli e mariti traditi, figli tossicodipendenti e ragazze di troppo facili costumi.

    Niente di meno, nulla di più.

    Finalmente dopo lunga attesa il treno in uno sferragliare incontrollato seguito dallo stridore dei freni arrivò sul diciottesimo binario.

    Il medico che fino ad allora non si era dato pace ad aspettare l’amata, iniziò compulsivamente ad andare su e giù per il marciapiede saltellando ad ogni finestrino del treno.

    Sembrava uno di quei pupazzi del Luna Park pronto ad essere impallinato da un brufoloso ragazzetto di periferia.

    Tirai fuori la mia macchina fotografica pronto allo scatto.

    Lo feci senza nascondermi, tanto sapevo che il dottore era uno sprovveduto e soprattutto un tipo molto innamorato.

    La donna scese dal treno con un bagaglio fatto di una borsetta e un trolley.

    Non appena vide il medico gli saltò al collo come in un film di Frank Capra facendo roteare a coda di pavone il lungo cappotto.

    Davvero patetici.

    Pensando a quanto avrebbe dovuto sborsare l’uomo alla moglie per pagarsi il servizio fotografico non gli sarebbe rimasto molto per andare a dividere un nebbioso bilocale nei sobborghi della Padana con la concubina.

    Ammesso che dopo il tracollo finanziario la donna gli fosse rimasta fedele.

    Bah, meglio non pensarci.

    Finite le pose alla stazione, presi per il sottopassaggio.

    L’odore nauseabondo di ferodo consumato mi avrebbe seguito per tutto il santo giorno, già lo sapevo.

    Mi incamminai per il tunnel fino alle scale mobili con un passo trattenuto, visto che i due amanti procedevano goffamente avvinghiati come due fratelli siamesi.

    Fui ben presto fuori dalla stazione.

    Aprii il mio ombrellino per ripararmi dalla pioggia e in pochi minuti mi trovai davanti all’hotel Eden.

    Mai nome fu più azzeccato.

    Immortalai i due piccioncini e il gioco era fatto.

    Finalmente potevo ritornamene in ufficio.

    Il mio ufficio stava immodestamente in salita san Matteo, all’ultimo piano del palazzo Doria-Danovaro.

    Ai tempi della Repubblica tra il Cinquecento e il Seicento si era rivelata una delle dimore adeguate alle visite di stato, iscritta in elenchi chiamati Rolli degli alloggiamenti pubblici.

    Un palazzo signorile, quindi, che poco si confaceva alle mie attività.

    Ma per un inspiegabile, quanto fermo, senso di rivalsa personale, per far fuori un passato poco glorioso, avevo eletto quel posto nobile a mio ufficio.

    Stavo, come detto, all’ultimo piano, d’angolo sulla piazza della chiesa.

    Da lì dominavo tutto, o meglio niente, visto che non c’era niente da dominare tranne la vista sul vicinato e sulle colline.

    Ma era comodo perché ero a due passi da piazza De Ferrari e dal centro storico.

    Vi chiederete come ne ero venuto in possesso.

    Semplice, l’avevo ereditato da un lontano zio, poco frequentato in realtà, ma dalla fondamentale caratteristica di non avere altri parenti in vita all’infuori di me.

    In ufficio incontrai come ogni santo giorno il sorriso di Dalia, la mia segretaria.

    La guardai come tutti gli altri giorni.

    Ispezionai il suo corpo da peccato.

    Su quel corpo di peccati ne avevo commessi parecchi.

    Almeno fino a un anno prima, quando ero ancora in forza alla polizia.

    L’occhio non ne voleva sapere di distogliersi dalla camicetta.

    Dalia ispirava sempre un’unica cosa: sesso.

    La seguii, impalato sul confine che divideva il mio ufficio e la stanza archivi.

    Accidenti, se era bella!

    Attesi.

    Non volevo dirle nulla di particolare.

    Il nostro rapporto dopo il mio benservito dalla narcotici si era trasformato in un casto rispetto dei ruoli: datore di lavoro e dipendente.

    Lei era riuscita del tutto a ripulirsi la coscienza e a indossare l’espressione dell’innocente educanda come se niente fosse successo.

    Non altrettanto io.

    Restavo un lupo che sì, aveva perso un po’ di pelo, ma non il vizio.

    Il vizio delle belle bambole.

    Attesi ancora.

    Attesi che Dalia si voltasse per poter ammirare le sue anche.

    E lei lo fece.

    Non c’era cosa migliore prima di rintanarmi nel mio ufficio che godere di quella vista.

    Chi sostiene che il volto è la vera espressione dell’indole di una persona, non aveva mai visto Dalia.

    Una delle dieci cose per cui valeva la pena vivere.

    Ma non ricordavo più le altre.

    Appagato, mi separai da lei, chiudendo la porta a vetri dell’ufficio, ma Dalia mi rimase ancora davanti agli occhi.

    Forse perché negli ultimi mesi era la donna alla quale mi ero avvicinato di più.

    Un lavoro piatto, non era l’unico punto negativo.

    Così mi accontentavo della sua cartolina che era la sintesi perfetta delle peculiarità femminili che piacciono agli uomini.

    Come mi ero ridotto?

    La vera ragione era che mi sentivo stanco.

    Non so nemmeno io di cosa, ma ero stanco.

    Una di quelle stanchezze che ti fa sembrare ogni posto troppo grande e che ti fa venire voglia di vomitargli sopra.

    Gettai il libro sulla scrivania e mi accesi un’altra sigaretta, fissando tutto lo spazio vuoto al centro della stanza.

    Mi ci ritrovavo e mi rappresentava.

    Inspirai una boccata e attesi prima di cacciarla fuori.

    Volevo che il fumo mi annebbiasse le idee.

    Un modo come un altro per non pensare.

    Mi andai a sedere e girai la poltrona mettendomi faccia alla finestra.

    Continuava a piovere.

    E pioveva forte.

    Una di quelle piogge che lavano un po’ di sudiciume e ti fanno credere che esista una giustizia a questo mondo.

    Mischiai una tirata di fumo e lo sguardo oltre la finestra.

    Il cinese era sempre là.

    Dietro ai vetri del palazzo di fronte, curvo e con la faccia appiccicata come un adesivo allo schermo di uno dei suoi tre computer ultrapiatti.

    Mi chiedevo come diavolo facesse a lavorare contemporaneamente su tre di quelle dannate scatole senza perdere la ragione.

    Forse me lo chiedevo perché io sapevo solo arrangiarmi con quei cosi.

    Alla minima difficoltà con il computer maledivo tutto quanto e venivo preso dalla voglia di scaraventarlo giù in strada.

    Non amavo il progresso?

    Non ritenevo progresso una macchina alla quale dovevi dare dei comandi in un suo linguaggio per farla funzionare.

    Per me tecnologia significava qualcosa che avrebbe dovuto surrogare le capacità umane, non che ne richiedeva per poter funzionare.

    Allora si era daccapo. E che diavolo…

    Il cinese evidentemente non la pensava come me.

    Lavorava sette giorni su sette. Al contrario di me.

    Mi era capitato a volte di lavorare la domenica, e lui era sempre là a smanettare sui quei gingilli di ultima generazione, muovendo le dita ad una velocità che avrebbe anche fatto impallidire Superman.

    Mi ero quasi convinto che quel cinese abitasse nel suo ufficio.

    Me lo ero immaginato al mattino. Spazzolino in bocca, tazza del caffé in una mano e l’altra ancora intorpidita a zoppicare sulla tastiera.

    Mi girai a tornai a fissare il vuoto.

    Schiacciai la sigaretta nel portacenere e ne accesi subito un’altra.

    Non ero certo il soggetto ideale per una campagna antifumo. Forse, però, avrebbe potuto esserlo la fotografia della nebbia catramosa che riempiva i miei polmoni.

    Ripresi il libro e lo aprii.

    Un’altra sbirciata alle foto, cercando la maniera migliore per presentarle

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