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Giallo in Versilia: Un'indagine di Pompilio Nardini
Giallo in Versilia: Un'indagine di Pompilio Nardini
Giallo in Versilia: Un'indagine di Pompilio Nardini
E-book226 pagine4 ore

Giallo in Versilia: Un'indagine di Pompilio Nardini

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Info su questo ebook

Versilia, estate 2012. Il giornalista Pompilio Nardini è un Don Chisciotte contemporaneo dall’esistenza precaria. Lo considerano tutti un po’ eccentrico perché gira sempre con un’edizione di “Pinocchio” in tasca, testo che lui ritiene quasi oracolare, da consultare ogniqualvolta ve ne sia bisogno, aprendone a caso una pagina e provando a interpretarne il messaggio. Ilio è in crisi con la propria compagna (un figlio che non vuole arrivare) e con il nuovo lavoro dalle scarse soddisfazioni. Dopo aver lasciato il quotidiano locale presso cui lavorava, adesso è direttore del telegiornale di una piccola emittente versiliese. Mentre è impegnato a raccogliere materiale per un’inchiesta sui russi in Versilia, che hanno colonizzato il territorio e influenzato l’economia locale, incontra per caso il vecchio amico Tardelli. Costui sbarca ufficialmente il lunario come fotografo da spiaggia, ma di fatto è il pusher per la clientela di alto bordo di Forte dei Marmi. Una mattina Nardini viene a conoscenza della morte dell’amico Tardelli. Questi è stato trovato deceduto nella sua auto. Il referto parla di morte accidentale per overdose di eroina. A Nardini però la cosa non appare possibile: conosceva troppo bene Tardelli per credere che fosse diventato un eroinomane. Si rivolge alla nuova commissaria di Forte dei Marmi, una bella donna appena arrivata dal Sud, che però non dà credito ai dubbi di Nardini sulla morte di Tardelli. Tra i due scatta subito una simpatia. Nardini prosegue con le indagini e rintraccia un legame tra l’amico defunto e altri due personaggi: Volkov, ricchissimo magnate russo, e Macchiarini, losco proprietario di un night alla moda. Troppo poco, comunque, per destare l’interesse della commissaria. Nardini decide di indagare a modo suo.

Paolo Giannotti è nato a Massa nel 1961. Laureato in Lettere moderne, da anni si dedica allo studio della narrativa italiana dell’Ottocento. Dello scrittore Gaetano Carlo Chelli ha curato le edizioni moderne del romanzo Fabia (Alberto Ricciardi Editore, 2004) e della raccolta Racconti dell’Apuano (Vuelleti Edizioni, 2003). Ha inoltre curato l’edizione della commedia dialettale Baltromèo calzolaro di Paolo Ferrari (Eclettica Edizioni, 2019). Ha pubblicato un saggio sulla storia del Teatro Guglielmi di Massa (Eclettica Edizioni, 2020). Finalista al Premio Calvino (2003) e al Premio Morselli (2012), ha pubblicato il romanzo noir Il Paese di Acchiappacitrulli (ItalicPequod, 2012).
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2022
ISBN9788869436192
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    Anteprima del libro

    Giallo in Versilia - Paolo Giannotti

    UNO

    La vita liquida è, insomma, una vita precaria, vissuta in condizioni di continua incertezza. Le preoccupazioni più acute e ostinate che l’affliggono nascono dal timore di esser colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo di avvenimenti che si muovono velocemente, di rimanere indietro, di non accorgersi delle date di scadenza, di appesantirsi con il possesso di qualcosa che non è più desiderabile, di perdere il momento in cui occorre voltare pagina prima di superare il punto di non ritorno. La vita liquida è una successione di nuovi inizi: ma è proprio per ciò che le fini rapide e indolori, senza cui nuovi inizi sarebbero impensabili, tendono a rappresentare i momenti di massima contestazione e a procurare i mal di testa più insopportabili. Tra le arti del vivere liquido-moderno e le abilità che esse richiedono...

    Nardini posò il libro sul comodino. Non c’è dubbio, pensò, questo Bauman ha capito un sacco di cose.

    Le prime luci di un’alba sudata e scialba gocciolavano dalle commessure della serranda di camera. Proviamo a sonnecchiare un po’, si disse, dopo un lungo sbadiglio. Aveva passato la notte in bianco, soffocato da un caldo umido e insopportabile che adesso sembrava appena appena più tollerabile.

    L’estate è una stagione volgare, pensò, mentre si rigirava nel letto. Silvia era più fortunata di lui: se la dormiva tranquillamente, con il suo solito, delicato ronzio. Eppure sarebbe arrivato il giorno in cui quel suono quasi impercettibile, quasi musicale, si sarebbe trasformato in un esplicito russare. Fu un pensiero che gli indusse un senso di malinconia. Mio Dio!, esclamò tra sé, mio Dio, anche lei, invecchierà anche lei, pensò mentre il suo sguardo viaggiava tra i dolci declivi di quel corpo splendido.

    Avevano fatto all’amore, qualche ora prima. Lo avevano fatto in un bagno di sudore, tra le lenzuola umide. Lo avevano fatto senza alcuna precauzione, nella speranza che qualcosa potesse succedere. Da alcuni mesi andava avanti così, e tuttavia Silvia non rimaneva incinta. Avevano entrambi fatto le dovute analisi e controanalisi del loro grado di fertilità e, perbacco, era tutto a posto, eccome se lo era. Eppure, strano a dirsi...

    Strano: ecco la parola che spesso ricorreva quando affrontavano la questione. Strano. Già. Ma lui sapeva bene, così come era quasi certo lo sapesse anche lei, che quell’aggettivo era in verità la punta dell’iceberg. Il grosso stava sotto il filo del non detto, nel rimescolio di umori e sensazioni: nel senso incerto di frustrazione, nel sordo e sottile moto di rabbia che talvolta affiorava alla superficie per essere subito rigettato in basso, giù giù, in qualche anfratto dell’inconscio.

    Strano. Non si poteva dire altro. Erano due corpi ancora giovani e sani e fatti per procreare. E dunque? Strano, appunto.

    Inoltre c’era un altro aspetto a turbarlo ogni volta che ragionava sulla faccenda. Il fatto era che... Insomma, voleva pur ammetterlo almeno a se stesso? Il fatto era che, a lui, il desiderio di un figlio stava a poco a poco passando. Non sapeva dir bene il perché, ma questa, a voler essere del tutto sinceri, era la nuda verità. Proprio così: quella di un figlio era un’idea che lentamente tramontava. Ecco, quest’ultimo termine è quanto meno azzeccato, pensò, perché colora il pensiero di una luce crepuscolare. E già che eravamo in vena di ammissioni, si disse Nardini, arrivati a questo punto bisognava pur porsela una buona volta la domanda delle domande, e cioè: era ancora innamorato di Silvia? Sì, lo era ancora, davvero, proclamò con fermezza a se medesimo.

    E che cosa te ne dà la certezza?, gli chiese qualcosa o qualcuno nascosto in qualche parte oscura della sua mente. O bella, perché lo sento, rispose lui. Lo vedo: da come facciamo all’amore, da come... Ma via, basta! È inutile lambiccarsi il cervello adesso! sbottò tra sé, infastidito, inquieto. Provò a calmarsi, cercando di non pensare a nulla.

    Si stiracchiò un poco sul letto, e poi posò lo sguardo su Silvia, che seguitava a emettere il suo lieve ronzio. E in quel preciso momento ebbe per lei un sentimento di infinita tenerezza, e restò a guardarla, per lunghi istanti, così, mentre dormiva. E poi pensò che era bella e lo sarebbe stata ancora per lungo tempo. Che cosa starà sognando, si domandò.

    Ormai di riaddormentarsi non se ne parlava proprio. Tutto quel ragionare gliene aveva fatto passar la voglia o la capacità. Decise di alzarsi. Fuori, la città era già inondata di luce.

    Sotto la doccia, mentre lottava con il tappo del bagnoschiuma, ripensò al libro che stava leggendo. Glielo aveva passato il suo amico Balleri, dopo che questi se ne era servito per il suo ultimo esame all’università. Diavolo, quand’è che discute la tesi?, cercò di rammentare.

    Quel libro, a dire il vero, era rimasto intatto sul suo comodino per parecchio tempo, ma ora che ne aveva iniziata la lettura era deciso ad arrivarci in fondo. Davvero interessante, pensò. Questo Bauman, accidenti, fa un quadro spietato della nostra società, ma è impossibile dargli torto, si disse. Una società sfuggente, senza punti di riferimento, inafferrabile come la saponetta che, adesso, gli stava continuamente scivolando di mano. Ecco: una società scivolosa in cui era facile finire con il culo a terra. E lui, di capitomboli del genere ne aveva fatti parecchi. Poteva dirsi un esperto, anzi. Già, perché in questa cosiddetta vita liquida lui si sentiva il più liquido degli uomini. Meglio ancora: il primo Homo liquefactus della storia.

    Silvia lo tacciava di pessimismo, ma secondo lui era una critica ingiustificata. I fatti d’altronde, sosteneva, erano belli spaparanzati al sole a dargli ragione. Gli pareva tutto così evidente che non capiva come lei... Alle corte: aveva superato l’esame da giornalista professionista, e allora? Questo aveva forse migliorato la sua condizione di lavoro? Nemmeno per sogno. Anzi, al contrario il raggiungimento dell’agognato traguardo aveva accresciuto, per un certo verso, la sua intima frustrazione.

    Diciotto mesi d’inferno erano stati quelli trascorsi nella redazione di Fatti e misfatti, il quotidiano del capoluogo apuano che lo aveva assunto come praticante. Il ricordo di quei giorni gli bruciava ancora. È difficile dimenticare un’umiliazione. Perché proprio di quello si trattava. Altri, magari, al suo posto, avrebbe fatto spallucce. Chissenefrega in fondo se c’è da ingoiare un boccone amaro pur di far carriera; e non sarà certo la prima volta né l’ultima che le cose vanno in questo modo, a questo mondo, soprattutto in questo Paese. Vero. Verissimo. Ma lui non era il tipo da ammettere un simile compromesso, e il fatto di averlo accettato per debolezza, o più ancora per timore, gli aveva generato un senso di vergogna che nessun espediente auto-assolutorio avrebbe mai potuto cancellare.

    Uno sporco compromesso, proprio questo gli aveva permesso di diventare giornalista. Un lercio patto con il suo editore: tacere su una brutta storia di rifiuti chimici, o persino peggio, con in mezzo anche un morto ammazzato. Lui era riuscito ad arrivare in fondo alla vicenda, ma il suo editore, il cavalier Enrico Vandelli, lo aveva fermato. Anche se estraneo ai fatti, la divulgazione di essi lo avrebbe seriamente danneggiato. Era un imprenditore di successo, gli aveva detto, e doveva badare in primo luogo ai suoi interessi. Inoltre in città contava qualcosa, e stava accarezzando l’idea di mettersi in politica. Il silenzio, sarebbe dunque valso a Nardini il contratto di praticante giornalista a tutti gli effetti. Diversamente, gli aveva domandato maliziosamente l’editore, aveva altri treni su cui poter salire?

    No, sulla soglia dei quarant’anni non aveva altri treni su cui salire, non ne aveva proprio, e quel diavolo d’uomo lo sapeva bene.

    L’occasione per lasciare la redazione del giornale, in cui si sentiva libero come una mummia dentro al proprio sarcofago, arrivò al momento giusto. Un suo vecchio amico, trovati gli agganci buoni, era stato assunto nella redazione fiorentina de la Repubblica, lasciando libero il posto di direttore responsabile del telegiornale, del notiziario radio e dei servizi sul web di un’emittente locale versiliese, la Maremonti Radiotivù di Forte dei Marmi. In realtà, la corretta ubicazione dell’emittente era in una più modesta località denominata Querceta, tristo paesello poco più a monte di Forte, ma per ragioni di prestigio la proprietà insisteva affinché venisse identificata con il rinomato centro balneare.

    I buoni auspici dell’amico favorirono la sua assunzione. Era un incarico di mezza tacca, ma era pur sempre un lavoro, e, con questi chiari di luna, non si poteva certo avere la puzza sotto il naso.

    L’emittente radiotelevisiva versiliese era di proprietà dei fratelli Alfiero e Bruno Civitali di Pietrasanta: gente venuta su dal nulla. Il primo, che era anche il più anziano, aveva avuto la brillante idea di aprire, nei primi anni Sessanta, un supermercato d’ortofrutta quando, da quelle parti, non sapevano neppure che cosa fosse un supermercato. Senza concorrenza, almeno per un decennio, lavorando come un bue dalla mattina alla sera, aveva fatto i soldi a palate e aveva potuto ingrandirsi: prima un mercato all’ingrosso di frutta e verdura, poi una fattoria, poi case al mare e in collina da affittare ai turisti danarosi incantati dalle bellezze e dal mito della Versilia. Bruno, il secondo fratello, di professione viveva alle spalle di Alfiero. Si considerava l’artista di famiglia. Con i soldi di questi aveva dapprima aperto una galleria d’arte al Lido di Camaiore, ma siccome erano più le uscite delle entrate, sotto suggerimento di Alfiero trasformò il locale in un bazar. Lì, gli affari andarono un po’ meglio. Fare il mercante, nondimeno, non gli piaceva proprio: così cedette l’attività al fratello maggiore (che, detto per inciso, la trasformò in pochi anni nel più notevole bazar della costa) per lanciarsi nel mondo delle tivù private. Anzi, volle fare le cose in grande: televisione più emittente radio. Chiese un grosso prestito al fratello, che acconsentì di buon grado (visto che una radiotivù locale avrebbe fatto piacere ai suoi amici politici), ma a due condizioni: diventare socio di maggioranza dell’impresa, e piazzare il proprio figlio Fabrizio, un gaglioffo peggio dello zio, con un incarico pseudo-manageriale all’interno dell’azienda: tanto per toglierselo dai piedi, insomma.

    A fornire a Nardini il quadro dettagliato dei vizi e delle virtù della famiglia Civitali era stato il suo amico ed ex direttore, che lo aveva anche rassicurato sulla questione pagamenti: lo stipendio non era certo un granché, ma veniva regolarmente retribuito; e gli aveva anche detto che il vecchio Alfiero, il vero capo di tutta la baracca, era un mezzo trappolone, un popolano furbo, ma in fondo di buon cuore, specialmente se gli rimanevi simpatico. Tutt’altra specie, era evidente, rispetto a quella del suo precedente datore di lavoro, il raffinato imprenditore Enrico cavalier Vandelli.

    Nardini ricordava bene lo sguardo sarcastico che questi gli aveva piantato in faccia il giorno in cui aveva accolto le sue dimissioni, evidentemente giudicate il gesto di un fesso. E ricordava come, alla fine, lo aveva salutato da dietro la monumentale scrivania di rovere, senza nemmeno un minimo accenno ad alzarsi, e gli aveva appiccicato alle spalle la sua sentenza, quando lui era già sulla porta.

    – Lei è un moralista.

    – Può darsi – gli aveva risposto Nardini senza voltarsi.

    DUE

    Aveva atteso che Silvia si destasse. Poi avevano fatto colazione, quasi senza dirsi nulla. Quando scese in strada, la città si muoveva lenta, con l’indolenza mattutina tipica dei luoghi di villeggiatura. Nel ridente capoluogo apuano, però, era un po’ un volersela raccontare, giacché a Massa l’attività turistica era quasi tutta in mano agli albergatori, ristoratori e balneari ammucchiati nella stretta striscia di costa, mentre al resto del territorio comunale, vale a dire allo stesso centro cittadino e in special modo ai paesini appollaiati sulle Alpi Apuane, di tale attività non rimanevano che i miseri avanzi.

    Era una storia vecchia, d’altronde. Da almeno un quarantennio, ad ogni nuova elezione amministrativa, il politico di turno sbandierava un progetto per la rinascita del centro storico e lo sviluppo della montagna massese: idee nuove, rivoluzionarie! Idee ogni volta strombazzate entusiasticamente dinanzi allo scetticismo generale: uno scetticismo antico, crudo e, almeno in questo caso, assai ben motivato. In realtà, come sempre accadeva e come tutti sapevano, tali idee mirabolanti non si rivelavano che delle trite ideuzze da campagna elettorale, destinate a durare la vita di una farfalla, svolazzando un poco qua e là sulle pagine dei quotidiani locali. Poi tutto seguitava come sempre, e chi aveva il potere economico e faceva un sacco di soldi continuava a fare il bello e il cattivo tempo e a fare sempre più soldi, che tanto le chiacchiere dei politici erano appunto chiacchiere.

    Proprio così, pensava Nardini mentre saliva sul suo pandino. Proprio così. I giochi sono stabiliti da tempo e non c’è verso di cambiarne le regole, che sono pressappoco queste: il turismo deve rimanere di un unico genere, quello balneare. Di un concreto connubio maremonti qui non se ne vuol sentir parlare. Il perché è chiaro: interessi e ignoranza, ecco la ragione. E poi la montagna non si tocca. Eh no, quella se la pappano i signori del marmo. A fette se la pappano. Gnam gnam! Fette enormi. Gnam gnam! E bisogna vederli, codesti signori industriali, con quanto impegno cercano di sottrarsi l’un l’altro il boccone più ricco. Ingordi come monelli davanti a una gigantesca torta di panna.

    Quando, durante una cena con gli amici, affrontava la questione e ci si accalorava, c’era sempre qualcuno che gli rispondeva che quella era un po’ la situazione generale di tutto quanto il territorio apuo-versiliese. Era vero, ammetteva allora Nardini. Era vero. Ma non era una buona ragione per rallegrarsene, e il detto mal comune mezzo gaudio questa volta non stava davvero in piedi. Mal comune merda per tutti, era semmai il caso di dire.

    Doveva smetterla di pensare a queste cose, comunque. Ci si incazzava troppo. E i suoi disturbi gastrici non avevano certo bisogno d’essere incentivati. Basta, pensiamo alla salute che è meglio, si disse, e si accese il primo mezzo sigaro della giornata. Ecco uno dei rari aspetti positivi dell’estate, pensò Nardini, mentre ammezzava il suo toscano: poter fumare in auto senza che l’abitacolo si trasformi in una succursale di Auschwitz.

    La voce affumicata di Paolo Conte lo distolse dalle sue elucubrazioni.

    Aveva messo una nuova suoneria al suo telefonino da quando aveva cambiato luogo di lavoro. Quella di prima gli ricordava troppe cose, troppi momenti negativi.

    Ora c’era la canzone L’Orchestrina, dal sapore vagamente rétro, un po’ d’altri tempi, pensò subito Nardini, che non aveva perso il ticchio di trovare ad ogni espressione straniera il suo corrispettivo italiano.

    Non sapeva dire perché avesse scelto proprio quella musica. Ce n’erano di più belle nel repertorio di Conte. Nondimeno quella l’aveva attratto particolarmente, senza mai stufarlo. Chissà, forse era per il ritmo, o per quell’immagine amletica della stella Aldebaran che ride, ride e fa: to be, to be to be, to be or not to be, e lo fa con quella musichina da carica di cavalleria... Cazzo, Conte, che ganzo...

    – Oh, ci sei? – gridò quasi una voce dall’altra parte del telefono.

    Era il collega Remo Michelotti, pubblicista da una vita, un tipo sveglio, conosciuto nella zona quale autore di canzonette, due o tre delle quali avevano vinto il Miccio Canterino, il festival canoro di Querceta che affianca il più noto Palio dei Micci, ossia dei ciuchi. Poco dopo il suo arrivo, Nardini lo aveva nominato suo vice: non tanto per le sue qualità professionali, che non erano comunque male, quanto perché questi, soffrendo d’insonnia, alle otto di mattina era già in redazione e lui poteva prendersela comoda. Un lusso.

    – Buongiorno, mio industre sottoposto. Già in piedi? – esordì Nardini.

    – Ci vai da te o vuoi che ti ci mandi io? – rispose l’altro. Nardini rise. Michelotti era un buontempone e lui ci si divertiva un sacco.

    – Scommetto che hai già fatto il giro di nera.

    – Certamente, chef! Vuoi sapere in anteprima cosa offre il menù di questa torrida giornata di merda?

    – Snocciola.

    – Per cominciare abbiamo un incidente sull’Aurelia, stanotte alle due, altezza Montignoso. Un frontale tra due macchine. Tre feriti. Uno dei due conducenti era ubriaco zuppo. È grave. Prognosi riservata. Se schianta prima di stasera ci facciamo l’apertura del tigì.

    – Michelotti fai schifo.

    – Di secondo propongo una rissa mista a Lido di Camaiore, davanti alla discoteca Ambassador. Otto persone coinvolte: quattro rumeni, due extra dal Marocco e due indigeni. Quattro arresti. Un accoltellato, ma non muore. Gli altri se la sono data a gambe.

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