Spesso si dice che per comprendere il presente si debba analizzare il passato e per apprezzare ciò che si ha sia preferibile metterlo a confronto con quello che un tempo mancava. Ed ecco il motivo, sintetizzato in un paio di massime spicciole ma piuttosto significative, per cui ho deciso di trattare la figura di Antonio Meucci. Certo, per farlo nella sua complessità ci vorrebbe ben più del generoso spazio di un articolo e, magari, sarebbe opportuno essere in possesso di competenze tecnicoscientifiche delle quali, ahimè, sono sprovvisto.
Nulla però mi vieta di intersecare la vita del grande inventore con le sue più importanti scoperte, in un viaggio che, ritengo, possa interessare chiunque sia attratto dai perché e dai come mai.
Le vicende che più hanno attirato la mia attenzione sono state un paio. La prima, legata alla nascita del telefono, riguarda la scomparsa misteriosa di parecchia documentazione e alla strana congiura che per troppi anni ne ha segnato la paternità, mentre la seconda, molto meno logica ma comunque capace di incidere pesantemente sulla direzione degli eventi, è di esclusiva attinenza alla vita del genio fiorentino, costellata da una serie di sfortune che, altrimenti, lo avrebbero lasciato in ben altre condizioni e, forse, in grado di sviluppare al meglio le proprie idee creative e imprenditoriali.
Ma facciamo un passo indietro. Meucci nacque a Firenze nel 1808, primo di nove figli, in una famiglia di modeste origini, nell’allora Granducato, sotto il dominio napoleonico.
Amatis, il padre, era un impiegato del Buongoverno