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La Chiave di Velikovsky
La Chiave di Velikovsky
La Chiave di Velikovsky
E-book488 pagine6 ore

La Chiave di Velikovsky

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Info su questo ebook

Quali misteri cela un'antica mappa che riporta simboli e frasi apparentemente indecifrabili? Che rapporto esiste tra nuraghi e linee di energia, le ley lines, che avviluppano in una fitta trama ogni angolo d'Europa? Perché questa mappa è diventata protagonista di una disputa all'ultimo sangue? Cosa c'entra il canto dello Stabat Mater in tutto questo? Alla ricerca di una verità nascosta da millenni, i protagonisti di quest'avventura si troveranno catapultati in una vicenda rocambolesca, dove i destini del mondo si intrecciano con scoperte scientifiche inimmaginabili, gruppi occulti, sette esoteriche, custodi di segreti che affondano la loro origine nelle oscurità di tempi andati. Una lotta senza quartiere, una battaglia tra fronti contrapposti che si rivelano dopo secoli di preparazione. Il prezzo finale da pagare sarà alto, come alta è la posta in gioco: il dominio del mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2013
ISBN9788868510084
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    Anteprima del libro

    La Chiave di Velikovsky - Daniele Congiu

    Daniele Congiu

    La chiave

    di Velikovsky

    arkadia

    © 2013 arkadia editore

    Trattandosi di opera di fantasia, qualsiasi riferimento a cose o persone

    realmente esistenti e da considerarsi puramente casuale

    Collana Narratori Eclypse 27

    Prima edizione maggio 2013

    isbn 9788868510084

    arkadia editore

    09125 Cagliari – Viale Bonaria 98

    tel. 0706848663 – fax 0705436280

    www.arkadiaeditore.it

    info@arkadiaeditore.it

    Il Signore ci ha permesso di comunicare i misteri divini […]

    a coloro che sono capaci di riceverli.

    Non ha rivelato alla massa quel che non le appartiene,

    ma ha rivelato i misteri a una minoranza capace di riceverli.

    […] Le cose segrete si confidano oralmente

    e non per iscritto, e Dio fa lo stesso.

    […] I simboli sono divulgati in forma mistica […],

    ma questa trasmissione

    sara fatta piu attraverso il loro senso nascosto

    che con le parole.

    san clemente i papa

    A Emma e Michela E.M.S.C.

    A Cinzia, indefinitamente…

    PROLOGO

    Albert Einstein morì alle due di notte del 18 aprile del 1955, nel reparto di terapia intensiva del Princeton Hospital. Tre giorni prima era stato ricoverato per un improvviso aneurisma dell’aorta.

    Sul tavolino della sua casa, al numero 112 di Mercer Street, aveva lasciato, ancora aperto, un libro pieno di annotazioni e sottolineature. Il titolo del volume era Mondi in collisione. L’autore, un certo Immanuel Velikovsky, era uno psicanalista bielorusso di origine ebrea considerato da tutta la comunità scientifica poco più che un pazzo visionario.

    La pubblicazione del libro aveva scatenato la più feroce repressione culturale contro un esponente del mondo scientifico dai tempi di Galileo Galilei. Nel suo saggio Velikovsky si era preso la briga di spiegare con dovizia di particolari, e senza timore di essere smentito, i miracoli narrati nella Bibbia. Di ognuno dava una dimostrazione scientifica, quasi volesse sostituirsi a Dio.

    Le gerarchie ecclesiastiche erano rimaste in silenzio, dopotutto le sue idee non contraddicevano il dettato biblico. La comunità scientifica, al contrario, si levò compatta gridando all’eresia. L’autore venne ostracizzato e le sue teorie considerate nient’altro che spazzatura.

    Quello che mandava in bestia i veri scienziati era l’approccio scandaloso e irriverente con cui Velikovsky affrontava i punti chiave della fisica. Le sue ipotesi, estreme e rivoluzionarie, erano in totale contrasto con la dottrina ufficiale, ma apparivano quanto mai logiche e coerenti.

    Proprio per questo, in molte Università si organizzarono dei simposi per dimostrare che Velikovsky era il prototipo del crank: lo scienziato pazzo, l’inventore di teorie assurde e fantasiose. E venne bandito dai seminari e dai convegni scientifici ufficiali. In molte città venne accolto da gruppi di contestatori, per lo più sobillati dal mondo accademico.

    Velikovsky però non fece una piega. Tali atteggiamenti gli dimostravano che aveva ragione. Che qualcuno aveva paura. Una fottuta paura. E la polemica non fece che aumentare la sua notorietà. Il libro ebbe un successo enorme. Nella prima settimana di vendite la sua casa editrice, la Macmillan, incassò 250 mila dollari.

    Poi, all’improvviso, il clima si fece sempre più pesante. Alcune librerie che esponevano in vetrina il libro furono devastate. I volumi buttati per strada. Alle pressioni della nomenklatura accademica si aggiunsero quelle politiche. George Brett, l’editore, sentendosi in pericolo, cominciò a pensare di ritirare dal commercio Mondi in collisione. Secondo lui il gioco non valeva la candela, soprattutto dopo aver ricevuto pesanti minacce.

    Proprio in quel momento un misterioso acquirente si offrì di rilevare i diritti dell’opera per una cifra davvero allettante. Brett chiamò Velikovsky e gli spiegò che era meglio per tutti mettere fine a quella situazione che diveniva giorno dopo giorno sempre più insostenibile.

    Velikovsky protestò e sbraitò, dicendogli che era un codardo. Che quello era il modo più barbaro per imporre la censura e che si vendeva per un tozzo di pane. Perché sottomettersi?

    Ma Brett non volle sentire ragioni. Sostenne che la sua era una casa editrice che pubblicava in prevalenza testi scientifici, che non poteva inimicarsi il mondo accademico. E poi, aggiunse, c’erano state delle minacce che non poteva sottovalutare… alle sue spalle premevano gruppi occulti. Usò proprio questa parola, facendo sbellicare dalle risate lo scienziato.

    Nonostante Velikovsky e le sue rimostranze, Brett rimase irremovibile. Licenziò James Putnam, l’editor che aveva scoperto Velikovsky, e subito dopo firmò l’accordo per cedere i diritti dell’opera, dando mandato ai distributori di ritirare il libro dagli scaffali. Nello stesso momento la stampa – come se si fosse coalizzata contro di lui– cominciò un vero e proprio fuoco di fila sull’autore, cercando di smontare una per una le sue teorie.

    Poi, sul New York Post apparve la notizia della morte di Einstein. Nell’articolo, tra l’altro, si riferiva che il grande nume della scienza, poco prima del trapasso, stava leggendo proprio il libro dello scienziato eretico. Venne fuori inoltre che i due si erano frequentati per anni e avevano tenuto una fitta corrispondenza epistolare sui temi oggetto del libro. E che Einstein, nonostante la quantità di testi scientifici che riceveva quotidianamente, trovava sempre il tempo di dialogare con il suo eruttivo amico, come lo aveva definito in una sua lettera.

    Queste indiscrezioni non furono di nessun aiuto per Velikovsky. Anzi, per reazione, il mondo scientifico si irrigidì ancora di più ferocemente. E, come se vi fosse una regia ben orchestrata, il giro di vite si rivelò subdolo e silenzioso.

    Il nuovo editore mise in distribuzione un numero ridottissimo di copie, quasi fosse disinteressato alla diffusione del libro. Nel frattempo, alcuni personaggi non meglio identificati cominciarono a girare in lungo e in largo, alla ricerca degli esemplari distribuiti. Libreria per libreria, biblioteca per biblioteca, città per città. Apparivano il giorno stesso della consegna dei colli e compravano tutti i volumi.

    Il 22 dicembre del 1955, appena otto mesi dopo la dipartita del creatore della teoria della relatività, Mondi in collisione sparì dalla circolazione e nessuno sentì il bisogno di ristamparlo. Sull’opera maledetta, e sul suo autore, calò un silenzio tombale.

    1

    L’ascensore sembrava una bolla d’aria ovattata e silenziosa, sparata come un proiettile d’acciaio nelle viscere della terra. Si sentiva solo un insistente tremore, come un prolungato fremito di un animale degli abissi marini che si ramificava lungo la schiena di Alexander McCall.

    In pochi secondi l’ascensore lo portò a cento metri di profondità. McCall ebbe un sussulto quando gli ammortizzatori elettrici del dispositivo rallentarono di colpo la corsa verso la meta. Irrigidì le mascelle, inspirò e deglutì per ricacciare il senso di nausea e il sapore agrodolce di alcol che gli era rimasto dalla sera prima.

    Mentre le porte si aprivano, prima ancora di mettere nuovamente piede nel suo laboratorio, pensò che entro pochi secondi avrebbe avuto le risposte che attendeva da anni.

    Avanzò di un passo, si guardò attorno, trasse un altro profondo respiro per riprendere il controllo del suo corpo, quindi aspirò l’odore di lavanda che proveniva dai suoi abiti immacolati.

    McCall si posizionò di fronte alla porta blindata del suo laboratorio. Fissò lo schermo e lo scanner attivò i controlli biometrici. La porta si spalancò e all’improvviso venne inondato da una luce accecante. Davanti a lui apparve una sala gigantesca, grande quanto un hangar.

    Il soffitto, che si elevava a perdita d’occhio, custodiva lungo le pareti scavate nella roccia decine di laboratori come celle di un unico alveare. Al loro interno centinaia di uomini e donne lavoravano alacremente. Molti di loro non chiudevano occhio da quarant’otto ore.

    «Buongiorno professore», disse la guardia all’ingresso, abbassando lievemente la canna della sua arma.

    McCall fece solo due passi, poi si fermò. Tutti coloro che gli stavano vicino si bloccarono, come irrigiditi da una energia glaciale che sembrò diffondersi anche negli angoli più reconditi dell’immensa struttura. In pochi secondi, quasi si trattasse di un unico organismo senziente, la notizia dell’arrivo del professore si sparse ovunque. Il vociare che fino a quel momento aveva regnato sovrano fu sostituito da un silenzio assoluto. L’unico rumore che aleggiava era quello del sistema elettronico che filtrava l’aria da ogni possibile contaminazione esterna.

    McCall era sempre stato orgoglioso del suo laboratorio che gli aveva permesso di portare avanti il Progetto Gammadion. La temperatura, il grado di umidità, la presenza di batteri e persino la rifrazione della luce rispettavano standard precisi. Nonostante questo, gli sembrò di avvertire un odore penetrante, un misto di microchip al silicio e plastica surriscaldata, che si insinuò nelle sue narici sino a toccare ogni più sensibile terminazione nervosa. E quell’odore di plastica e silicio gli sembrò trasformarsi in un insopportabile fetore acido di morte. Di colpo gli parve che l’aria gli arrivasse nei polmoni ispessita e densa come colla liquida. Il suo corpo fu quasi sul punto di esplodere e ribellarsi a quel manto artificiale in cui viveva da anni. Soffocava. Eppure dal suo viso non traspariva alcuna emozione. Rimase in piedi, immobile come una montagna di ghiaccio mentre nessuno osava tornare ai propri compiti.

    Poi di colpo, quasi all’unisono, tecnici, scienziati e operatori ruppero il silenzio e scoppiarono in un vocio fragoroso. Come api impazzite sciamarono lungo le scale, dai ballatoi in acciaio e dagli ascensori di cristallo giù fino all’ingresso, verso la regina madre. La marea di camici bianchi, ondeggiando, si raccolse davanti al professore. E a quel punto, solo a quel punto, tornò il silenzio.

    Il professore attendeva immobile, con lo sguardo fisso, in apparenza gelido, ma con la mente invasa dalle emozioni. Poi, da dietro la folla, si sentì prima una voce isolata, seguita subito dopo da tante altre.

    «C’è il dottor Hong… Fate passare il dottor Hong. Il dottor Hong…»

    La moltitudine si aprì davanti a lui in due schiere compatte e, dal fondo dell’assembramento, si vide avanzare una figura minuta.

    Il dottor Hong aveva occhi a mandorla gonfi e rossi a causa delle notti insonni. Il viso, imperlato di sudore, era incorniciato da profonde occhiaie. Avanzava a passo lento, seguito dai suoi più fidati collaboratori.

    McCall attese in silenzio senza proferire parola. I suoi occhi apparivano freddi come lame di luci di un monitor d’acciaio.

    Quando furono uno di fronte all’altro Hong abbozzò un sorriso sghembo poi, con un gesto meccanico, cercò di lisciarsi il camice stropicciato. Era nervoso, tremendamente nervoso. Tra le mani stringeva con forza, quasi sino a sbiancare le nocche delle dita, alcuni tabulati.

    Ecco, pensò il professore senza distogliere lo sguardo dalla figura di Hong, siamo arrivati finalmente a una risposta. In quei pochi e semplici fogli intuì che si trovassero le risposte a una vita di ricerca. Il senso di tutta la sua attività di scienziato era lì, in quei documenti e nelle parole che Hong avrebbe pronunciato entro qualche istante. Di colpo si sentì mortalmente stanco, sfinito, sotto il peso immane di ciò che aveva creato.

    Per un momento gli parve di barcollare, ma si impose di restare calmo, di frenare i battiti accelerati del cuore. Eppure, per quanto si sforzasse, l’impressione di vuoto e debolezza lo pervase in ogni più recondita fibra del suo essere. Vecchio, inerte, molle. Questo gli sembrava di essere divenuto all’improvviso.

    Che strano, continuò a pensare, dovrei essere contento. Felice. Sovraumanamente felice… e invece ho paura.

    Dopo lo sbandamento iniziale riacquistò il pieno controllo di sé. I suoi occhi tagliarono a fette ansie, elucubrazioni e sentimenti di ogni singolo volto che gli si stagliò di fronte. Quindi si concentrò sul piccolo coreano, conscio del fatto di essere famoso per il suo distacco proverbiale. Quello stesso che, già da semplice studente universitario, gli aveva aperto le porte della scienza. Ricordava ancora come quella sua indole gli avesse permesso di navigare accanto a colossi come sir Martin Rees, o Georges Lemaître, tanto per citare due dei più importanti scienziati protagonisti della sua formazione. Di fronte a loro tutti chinavano il capo. Nessuno osava emettere un fiato. Alexander McCall invece sosteneva quegli sguardi severi, ribatteva con efficacia a ogni loro argomentazione. Per lui erano semplici uomini, dotati ovviamente di grande intelletto… ma sempre e solo uomini. E non aveva soggezione alcuna. Per molti, anzi, provava un leggero disprezzo, sentendosi addirittura superiore.

    Ora però, davanti a lui non c’era niente di tutto questo. C’era semplicemente un suo subordinato, un tarchiato orientale che gli portava l’evidenza scientifica della sua vita di studi. Un’evidenza dura, sterile come un bisturi d’acciaio. Dietro quei numeri e quelle formule si celava l’essenza stessa dell’esistenza, pronta a essere modificata per sempre. E c’era la consapevolezza di avere fatto un passo che il creatore non aveva previsto, qualcosa che non apparteneva al destino degli uomini. Qualcosa che non era scritto da nessuna parte dovesse accadere. Qualcosa che la natura non avrebbe permesso e accettato. E lui lo sapeva.

    Erano ancora in tempo per fermarsi. Per impedire che tutto prendesse avvio… poteva ancora decidere, Alexander McCall, di mantenere ogni cosa all’interno dei suoi rassicuranti binari. Ma la sfida era troppo allettante per provare paura proprio ora. Per ritornare sui propri passi.

    Era solo. Di fronte al destino. A Dio. Agli uomini. In quel preciso momento Alexander McCall sapeva di potersi considerare l’essere più potente del mondo. Colui che aveva, unico tra tutti, una possibilità di scelta.

    «Ebbene?», disse infine.

    Hong fece un altro piccolo inchino e allungò verso McCall gli stampati. Solo allora osò sollevare lo sguardo e fece un cenno d’assenso.

    «Sì, professore, tutto come avevate previsto», replicò Hong con un mezzo sorriso.

    2

    Rientrato nel suo alloggio, McCall si accasciò sfinito sulla sedia. Le tensioni accumulate negli ultimi giorni lo avevano prostrato. Per due notti di fila non aveva chiuso occhio. Abbassò la nuca e si massaggiò la fronte con i polpastrelli. Poi sollevò gli occhi e guardò il quadro sulla parete di fronte a lui. Ripensò a quando, ancora studente, l’aveva appeso nella sua stanza del Trinity College di Edimburgo. Quel giorno sembrava appartenere a un’altra vita.

    L’opera era priva di disegni e colori. Campeggiava unicamente una scritta in caratteri cubitali: Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Il principio di conservazione dell’energia. Il faro che aveva illuminato tutto il suo cammino di studioso. Era sempre stato convinto, infatti, che gli unici fenomeni indagabili fossero quelli riproducibili sperimentalmente. Il resto erano chiacchiere per romanzi di fantascienza. Trial and evidence: questi erano i suoi principi base. Certezza oltre ogni ragionevole dubbio ed evidenza nel senso di dimostrazione.

    Un giorno gli era poi capitato di leggere un articolo apparso su un giornale dove si riportavano notizie sul metodo di ricerca di Albert Einstein. Quella lettura l’aveva folgorato. Decise così di concentrare tutti i suoi studi sul rapporto tra elettromagnetismo e forze gravitazionali. In breve tempo, grazie ad autentiche geniali intuizioni, era riuscito a sviluppare percorsi impensabili fino a poco prima. In seguito, dopo tre anni passati in Italia, si era trasferito negli Stati Uniti per poi rientrare in patria.

    La sua fama aumentò di conseguenza, tanto che in molti si aspettavano un riconoscimento degno di questo nome per il grande scienziato scozzese, come veniva comunemente chiamato. A dispetto della notorietà, McCall era rimasto un uomo schivo, caparbio e pragmatico. Ambizioso sì, ma di un genere di ambizione propria di coloro che vogliono eccellere esclusivamente nel proprio campo di lavoro. In effetti non si sentiva neanche uno scienziato, nel senso stretto del termine. Semmai un ricercatore. Sostenuto da una fiducia incrollabile nelle potenzialità dell’intelletto e determinato sino al limite dell’irrazionale.

    Poi, era il 1988, accadde qualcosa. Si ricordava come fosse avvenuto il giorno prima quello strano incontro che aveva rivoluzionato la sua vita. Concentrandosi poteva ancora rammentare cosa stesse facendo nel momento in cui, senza farsi annunciare, era entrato nel suo studio un uomo. Sulle prime aveva protestato per quella forma di invadenza, dicendo che lo studio era off limits per i non addetti. Ma l’altro, senza fare una piega, con un largo sorriso teso a stemperare la furia di McCall, si accomodò sulla prima sedia disponibile, accavallò le gambe e, tratto un porta sigarette d’oro dalla tasca, vi armeggiò con fare indifferente.

    McCall lo guardava allibito. L’uomo invece, con noncuranza, si accese una sigaretta ed espirò con voluttà.

    «Il segreto per concedersi qualche vizio è l’equilibrio», spiegò mantenendo il sorriso, «e l’equilibrio si ottiene solo con l’assoluto controllo su ogni aspetto della propria vita.»

    Lo scienziato si avvicinò al tavolo e, con fare nervoso, allungò un posacenere al nuovo arrivato. «Ma permetta che mi presenti», disse subito dopo. «Mi chiamo Gheorghe Eliade e sono il responsabile di un importante istituto di ricerca.»

    A quelle parole McCall parve rasserenarsi e decise di dare una chance al suo interlocutore, nonostante la maleducazione dimostrata.

    Mentre Eliade parlava il professore lo osservò con attenzione. Quell’uomo, sulla quarantina, aveva un portamento aristocratico, sguardo intelligente e un sorriso disarmante che gli parve alquanto impostato, ma di questo non si preoccupò troppo sul momento. D’altronde non sapeva neanche per quale motivo Eliade fosse lì.

    «Ammetto che conoscerla», continuò a parlare Eliade, «è un vero onore per me. Ma non voglio farle perdere troppo tempo. So che è molto impegnato…»

    «Appunto», rispose in modo freddo McCall, senza troppi giri di parole.

    «Sa, nel mio Paese d’origine, la Romania, circola un vecchio adagio: non metterti tra l’aratro e il contadino. Un proverbio che la dice lunga sulla saggezza degli antichi.»

    «Non credo sia qui per raccontarmi proverbi della sua terra», replicò McCall. Eliade sorrise ancora, ma questa volta lo scienziato fu certo di leggere un lampo sinistro in quegli occhietti scuri e semi socchiusi. Ma fu questione di un attimo. Subito dopo l’altro sembrò riacquistare l’affettata cordialità di poco prima.

    «Bene, bene… allora, questo è il biglietto da visita del mio istituto», disse e allungò un elegante cartoncino: da un lato c’era il suo nome, dall’altro la scritta istituto di ricerca gammadion. Null’altro. McCall lo prese con sufficienza, anche se in realtà bruciava dalla curiosità.

    Dopo qualche istante di silenzio Eliade spense la sigaretta, lo fissò e buttò sul piatto la sua proposta.

    «Professore, da tempo seguiamo le sue ricerche. Siamo tutti affascinati da quanto sta compiendo. È per questo che le propongo di dirigere il più importante progetto della storia sull’uso delle energie alternative.»

    McCall rimase come imbambolato. Forse era per la voce, forse per i modi, in ogni caso quell’uomo aveva una malia ipnotica incredibilmente coinvolgente.

    «Inseguiamo un obiettivo, un nuovo filone di ricerca. E desideriamo che lei ne prenda le redini. Si tratta di una scommessa… vincente, ovviamente. Abbiamo molti denari da investire e posso garantirle che avrà il meglio del meglio, dal punto di vista dei collaboratori e delle attrezzature.»

    «E perché lo proponete proprio a me?»

    «Perché siamo sicuri che lei sia la persona adatta!» Eliade prese un’altra sigaretta e se la portò alle labbra. Ma non la accese. «Vede, in questo mondo, nell’ambito accademico intendo dire, l’intelligenza non basta… occorre anche qualcos’altro. L’intuito, la perspicacia e un pizzico di fortuna, perché no? E io credo che lei possegga queste doti. Come le ho detto, è da tempo che la teniamo d’occhio.»

    McCall scosse il capo. Si sentì come un potenziale cliente di fronte a un imbonitore. Eliade era bravo a parlare, ma cosa c’era sotto? La prima cosa che gli venne in mente era di avere di fronte un semplice millantatore. Qualcuno che tentava di imbarcarlo in qualcosa solo per poter utilizzare il suo nome conosciuto oramai in tutti gli ambienti accademici.

    In ogni caso la circostanza appariva alquanto bizzarra. Decise di andarci con i piedi di piombo. Chiese dunque maggiori dettagli sul progetto.

    «Non posso anticiparle molto», si schermì l’altro. «Si tratta di argomenti alquanto delicati. Però questo è il budget che abbiamo a disposizione.»

    Eliade porse un foglietto tratto da un taccuino e lo mise di fronte al naso di McCall: l’estratto conto di una banca svizzera. La cifra evidenziata a piè di pagina era esorbitante. Un fondo praticamente illimitato.

    «E ci sarà anche altro, oltre al denaro», aggiunse Eliade riappropriandosi del documento bancario, sicuro di averlo impressionato.

    «Io… sono sempre stato critico sulla potenzialità delle fonti alternative», disse esitando lo scienziato. «Non so se sarò adatto per… per il vostro progetto.»

    «Oh, non si preoccupi. Credo anzi che il migliore ricercatore che potessimo trovare è proprio quello che, partendo da convinzioni opposte, arriva a conclusioni certe. Non vorrei proprio avere a che fare con qualcuno che indaga unicamente per confermare le proprie deduzioni iniziali. Ma, mi permetta, questa è solo accademia. Conosciamo il suo passato e le sue potenzialità. Sappiamo tutto di lei.»

    «Mi avete spiato?», chiese con un mezzo sorriso.

    «Beh, non esageriamo professore», fece accendendosi finalmente la sigaretta. «Noi la seguiamo da anni. Abbiamo monitorato ogni sua lezione, studiato a fondo e nei minimi dettagli ogni sua pubblicazione e», aggiunse, «siamo convinti che lei abbia intuito una via che noi stiamo cercando da tempo.»

    Eliade si concesse una breve pausa. Sapeva di avere catturato l’interesse di McCall. Desiderava, nello stesso tempo, che fosse lo scienziato a convincersi della bontà del progetto.

    «Ora», riprese, «le diamo la possibilità di lavorare a qualcosa che potrebbe cambiare e rivoluzionare la vita di questo pianeta. Non posso scendere nei dettagli, ma vedrà. Quello che le proponiamo è veramente la cosa più importante che le capiterà nel corso dell’esistenza. E, come detto, avrà a sua disposizione le tecnologie migliori e più all’avanguardia, qualsiasi collaboratore lei ritenesse opportuno… il budget l’ha appena visto. Fossi in lei non perderei tempo.»

    Un rivolo di sudore freddo prese a corrergli lungo la spina dorsale. Avrebbe voluto dire sì, subito, seduta stante. Ma qualcosa lo bloccò. Eliade, percependo una qualche lontana remora, si sporse in avanti.

    «Adesso non si rende neanche conto di ciò con cui avrà a che fare, ma le posso assicurare professore che tutto passa in secondo piano di fronte a questo. Lei diventerà celebre, il suo nome viaggerà nei secoli, nei millenni… Einstein, in confronto, sarà un emerito nessuno.»

    McCall tossicchiò. Non era il fumo della sigaretta. Tuttavia c’era qualcosa di minaccioso che aleggiava nell’aria satura di nicotina della stanza. Ma era comunque una proposta troppo allettante per lui.

    «La cosa potrebbe anche interessarmi…», disse alla fine.

    «Allora venga da noi. Le spiegheremo tutto con calma. Si renderà conto di quali sono le nostre disponibilità. Toccherà con mano la serietà del progetto. Vedrà: dopo ogni cosa sarà diversa.»

    Eliade fece ancora una pausa. Spense la sigaretta trasformatasi in mozzicone e, tornato comodamente nella postura precedente, aggiunse: «C’è un’unica condizione che dovrà tenere sempre presente, qualora scegliesse di diventare dei nostri.»

    McCall fece un segno con il capo, invitandolo a continuare.

    «Ovviamente non potrà divulgare a nessuno i risultati della sua ricerca, finché non saremo noi a dirglielo… inoltre lei lavorerà solo ed esclusivamente per noi.»

    «Ma la diffusione delle scoperte è la base del progresso scientifico!», sbottò McCall.

    «Professore, le ho appena detto che i risultati saranno resi noti al momento opportuno. Non si preoccupi. Lei avrà tutta la fama che naturalmente avrà modo di meritarsi…»

    «Non sono interessato alla fama.»

    «Suvvia, tutti vogliamo essere celebrati», rispose con un sorriso sarcastico. Poi, abbassando il tono della voce, aggiunse: «La fama, che lei l’ammetta o meno, è il più grande riconoscimento per uno scienziato.»

    Quindi si alzò e si voltò verso l’uscita, come se la discussione fosse terminata. In realtà tutto rimaneva ancora in sospeso.

    «Vede professore», disse girandosi nuovamente verso McCall, «se vogliamo che sia lei a seguire il progetto è perché sappiamo che con le sue doti approderemo a un risultato. Non si preoccupi per il resto. Noi siamo impegnati in un’avventura che va al di là dell’immaginazione. Sarà fiero di farne parte. Questo glielo garantisco.»

    Il silenzio nella stanza si fece opprimente. Eliade fissò lo scienziato ancora più a fondo.

    «Allora?»

    «Devo pensarci», disse alla fine McCall.

    «Non chiedo di meglio», concluse serafico Eliade. «Ci pensi pure.»

    «Certo, se avessi qualche elemento in più…»

    «Sa quello che occorre sapere. Domani la chiamerò, a mezzogiorno in punto.»

    McCall non replicò. Seguì con lo sguardo Eliade avviarsi verso la porta e posare la mano sulla maniglia. Prima di andarsene l’uomo si voltò ancora. Sorrideva per l’ennesima volta.

    «Si ricordi, domani, a mezzodì. E non mi aspetto altro che un sì. Buona giornata.»

    Come aveva previsto Eliade, Alexander McCall aveva accettato l’incarico divenendo il responsabile unico di un progetto che si alimentava a cento e più metri sotto terra, all’interno di un complesso avveniristico di cui nessuno, tranne gli addetti ai lavori, sapeva nulla.

    Venticinque anni, tanto era passato da quell’incontro che aveva cambiato la sua vita in modo così totale. Così radicale. E ora, nel momento in cui era conscio di aver raggiunto il risultato, provava una grande paura. Una solitudine estrema.

    Aprì il cassetto della sua scrivania e tirò fuori un vecchio libro con una copertina rigida telata blu, con il titolo in oro e gli angoli consumati. Lo aveva sfogliato decine, centinaia di volte. Oramai ne conosceva il contenuto a memoria. Sul frontespizio campeggiava il nome dell’autore: Immanuel Velikovsky.

    Un bip stridulo lo fece sobbalzare. Proveniva dalla consolle della porta. Con un comando vocale ordinò che si illuminasse lo schermo.

    «Professore mi scusi se la disturbo», disse un uomo in divisa scura, «ma la stanno attendendo nella sala riunioni del primo livello.»

    McCall chiuse il libro e lo ripose nel cassetto. «Arrivo», disse sommessamente.

    Non ci mise molto a risistemarsi. Si guardò per qualche istante allo specchio e si accorse di avere una cera orribile. Sulla scrivania lasciò sia il libro sia un fascio di fogli racchiusi dentro una cartella con sopra la scritta progetto gammadion.

    Mentre percorreva i corridoi asettici dell’alveare sotterraneo che li ospitava riandò con la mente a quanto era successo subito dopo l’uscita di Eliade dal suo studio.

    Era corso al telefono e aveva contattato un’agenzia investigativa di Edimburgo. Voleva sapere tutto, proprio tutto, di quello strano uomo e dell’istituto che diceva di rappresentare. E in fretta. Gli avevano risposto che sarebbe occorso tempo e denaro. Lui disse che il secondo non era un problema, quanto al tempo esigeva le informazioni entro l’indomani mattina.

    Il giorno dopo gli era stato recapitato un plico. All’interno si trovava una dettagliata scheda biografica di Gheorghe Eliade.

    Figlio primogenito del conte Marian, era nato in Romania il 31 dicembre 1947. Lo stesso giorno in cui il governo filosovietico del primo ministro Petru Groza imponeva la dittatura del proletariato e costringeva il re Michele I ad abdicare. Di conseguenza la famiglia Eliade, compromessa con il precedente governo, era fuggita in Svizzera abbandonando castelli e tenute. Il conte Marian era stato comunque previdente e aveva spedito all’estero gran parte della sua fortuna.

    Sul conto di Marian Eliade giravano strane voci. Si parlava di una sua collaborazione con il Terzo Reich, di un suo ruolo di figura di collegamento tra vertici nazisti e governo rumeno durante la Seconda guerra mondiale. Era stato Ministro degli Interni negli ultimi anni della monarchia e, di sicuro, per i nuovi padroni del Paese rappresentava un nemico da eliminare.

    Nel rapporto, stilato in modo verboso e didattico, ma esaustivo, lesse che il giovane Gheorghe non aveva più messo piede in Romania. Era sempre vissuto in Svizzera dove, tra le altre cose, si era laureato in Economia Internazionale presso l’Università di Losanna.

    Dopo la laurea aveva ottenuto un incarico di ricercatore, presto abbandonato. Aveva quindi dato vita a un’associazione di studi araldici. Subito dopo era stato dato alle stampe un suo saggio sull’origine divina dei monarchi europei. McCall non ne aveva mai sentito parlare e, da quanto trovò scritto nel rapporto, capì solo che l’autore era convinto che l’origine divina delle teste coronate poggiasse su basi scientifiche. L’idea di base propugnata era che quelle famiglie possedessero un’identità genetica comune, una caratteristica misteriosa insita nel dna, preservatasi nei secoli e tramandata attraverso innumerevoli incroci matrimoniali in grado di conferire loro una superiorità morale che gli garantisse il diritto di governare governare. Lo studio aveva creato all’epoca parecchia curiosità. D’altra parte McCall trovò naturale che un conte, discendente di una famiglia nobile molto in vista, si dedicasse a ricerche del genere. Infatti, anche dopo la loro fuga, gli Eliade avevano mantenuto relazioni solide con i rappresentanti delle diverse monarchie europee. E, oltre a ciò, i loro legami politici erano ramificati a ogni livello istituzionale.

    Alla morte del conte Marian, a parte il cospicuo patrimonio economico, il giovane Gheorghe aveva ereditato dal padre la fitta rete di contatti e le infinite possibilità di relazioni costruite nei decenni. Gheorghe li aveva saputi sfruttare con fiuto e sapienza. Intorno al 1970, poi, era cominciato un periodo nuovo per il nobiluomo di origine rumena. Come se non avesse mai fatto altro nella vita divenne il referente principale per la negoziazione dei principali accordi economici nel campo dello sfruttamento energetico mondiale. Nel 1978 aveva creato una società di intermediazione d’affari, le cui attività si collocavano prevalentemente nell’area mediorientale. La società aveva chiuso i battenti dopo solo due anni di attività per motivi ignoti.

    Da quel momento in poi le notizie disponibili su Eliade diventavano frammentarie e sempre più rarefatte, sino a scomparire del tutto. Non c’era più traccia di incarichi professionali, residenze ufficiali o pernottamenti in alberghi, depositi o conti bancari, pagamenti con carte di credito, contratti di utenze, viaggi, registrazioni alle dogane di Paesi stranieri, acquisti. Niente di niente. Come se quell’uomo fosse svanito nel nulla.

    A chiusura del rapporto il responsabile dell’agenzia, in un appunto a mano, aveva aggiunto che al momento quelle erano tutte le notizie disponibili su Eliade. Forse, con un po’ più di tempo, avrebbero scoperto qualcos’altro… in calce, alla fine del post scriptum, si chiedeva dove inviare la fattura.

    McCall si trovò di fronte alla porta della sala riunioni. Gli uomini in divisa alle sue spalle gli trasmettevano molte sensazioni, tranne forse quella per cui erano deputati: la sicurezza. Cacciò via dalla mente i ricordi che si erano affollati durante il tragitto e, tratto un profondo respiro, si preparò all’incontro. Avanzò di un passo e la porta si aprì scorrendo lateralmente con un leggero sibilo.

    Subito dopo si richiuse alle sue spalle. Quasi l’avesse inghiottito.

    3

    Era un sonno profondissimo. Di quelli duri e ininterrotti come un letargo di pietra. Federico Daga aprì gli occhi con estrema fatica. Era ancora stordito e rallentato a causa di un sogno incredibilmente reale e vischioso che gli si era infilato sotto la pelle. Si trovava in una foresta umida di pioggia e l’aria era così fredda e rarefatta che entrava nei polmoni come acqua gelata. Le chiome degli alberi apparivano di un verde intenso e scuro, irrigidito dalla brina. Più in là, al centro di una radura, si intravedeva una vecchia ferrovia, da percorrere a piedi nudi sui binari ghiacciati. Non sapeva dove avrebbe portato, ma sentiva che doveva andare avanti, nonostante la paura che gli penetrava nelle ossa, raggelandolo sin nel profondo dell’animo. Alla fine – perché una fine ci doveva essere – avrebbe trovato ciò che cercava…

    Il cellulare squillava in modo crudele. Senza interruzione. Federico diede un’occhiata alla sveglia. Erano le sei e mezza. Per un attimo pensò di non rispondere. Ma sapeva che sarebbe stato inutile. C’era solo una persona che poteva chiamare a quell’ora senza porsi il minimo problema di svegliarlo. E sapeva che non avrebbe desistito.

    Allungò una mano e prese l’apparecchio.

    «Buongiorno dottore, buongiorno», disse squillante qualcuno dall’altro capo della linea. «Sono il professor Orgiu, stava dormendo? Ma no, se ha risposto allora è sveglio. Bene, bene, allora non l’ho svegliata, no?»

    Federico si stropicciò gli occhi, cercando di dire qualcosa, ma sapeva che l’effluvio di parole che lo attendeva sarebbe stato inarrestabile e, in pochi secondi, avrebbe spazzato via gli ultimi residui di sonno dal suo cervello.

    «Sa, è sabato», continuò l’altro, «non vorrei incomodarla troppo, ma in questi giorni ho pensato a lei perché vorrei farle conoscere delle persone veramente interessanti…»

    Fece giusto una pausa di un attimo. Federico provò a inserirsi, ma l’altro lo anticipò e ricominciò a parlare: «Allora, queste persone vengono da me in mattinata. Sono sicuro che le troverà veramente, dico veramente, interessanti! Sì, sì, sì… sono del Nord Italia, e sono qui per una ricerca molto importante. Ha capito dottore?»

    Federico mugolò qualcosa, Orgiu parve disinteressarsene o forse non lo sentì.

    «Dicevo, comunque, che il progetto che seguono ci sta molto a cuore, soprattutto per quanto riguarda la Fondazione. So di averla incuriosita, quindi facciamo da me verso le dieci? Va bene? Anzi, no, facciamo alle nove… le persone di cui dicevo arrivano a quell’ora. Un incontro informale, amichevole. Allora, la aspetto.»

    Preso un bel respiro, Federico stava per replicare quando Orgiu riprese il suo monologo.

    «Ma se avesse degli impegni può dirmelo, magari vedo come arrangiare la cosa… però se riuscisse a

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