L'erba che germoglia sull'asfalto
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Anteprima del libro
L'erba che germoglia sull'asfalto - Bernardo Severgnini
1. PROLOGO
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.
Dante,
Paradiso (I,142)
Lucca, 4 Ottobre 2006
I raggi del sole sembrano cercare in tutti i modi di entrare dalla finestra di questa stanza, senza riuscirci. Li posso vedere stagliarsi beati contro la parete dell’edificio che mi sta di fronte, bussare alle sue finestre chiuse, ma non a quella spalancata da cui mi sporgo nella confusa convinzione di potermi aggrappare a loro.
Poco fa uno spicchio di luce aveva cominciato a sgattaiolare persino sulle mie grondaie e avevo pensato che volesse venire a farmi visita; ma poi il sole s’è nascosto alle spalle della chiesa francescana che sovrasta la mia visuale, e ha rimpicciolito lo spicchio di luce fino a farlo sparire.
Ora le tegole che mi stanno davanti sembrano tante villeggianti che si abbronzano seminude sugli sdrai. Una forte luce le illumina e il suo riverbero si diffonde anche nella mia stanza; posso intuire la posizione del sole, avvertirne la potenza, ma non posso vederlo. Forse nessuno mai da questa stanza ha potuto vederlo, il sole: la parete della chiesa è troppo alta e troppo vicina, così vicina che se allungo la mano posso quasi toccarne i mattoni a vista.
La stanzetta che mi è stata assegnata fa parte di un ex convento costruito a ferro di cavallo, collegato alla chiesa in modo da racchiudere un chiostro quadrato. Ma l’architetto non aveva considerato che la stanza posta nell’angolo, direttamente a contatto con la parete della chiesa, non avrebbe potuto ricevere la luce. O forse lo sapeva, ma avrà pensato che i francescani del suo tempo avessero altro da fare che contemplare messer lo frate Sole.
Oggi un’ala del convento è diventata una casa d’accoglienza. Non sono più i frati, ma gli ex carcerati come me che abitano piccole celle di cinque metri quadri con i soffitti esageratamente alti, i muri di gesso e ampie finestre che si affacciano sul chiostro.
C’è silenzio, come in carcere. Ma solo un orecchio distratto potrebbe non notare la differenza. Ben diversa, insopportabile, era la musica dei silenzi a cui mi sono abituato dietro le sbarre. Ancora diversa, di puro terrore, era quella che regnava nei boschi la notte, durante il cammino che mi ha portato qui. Per chi come me ha un rapporto intimo con il silenzio, è fin troppo semplice distinguere le sue diverse melodie, fin troppo dolce accorgersi che esiste un silenzio che non fa male.
Tutto ciò che posso sentire in questo momento è morbido e ovattato: la tuta di spugna sintetica che indosso, il profumo di pesca del bagnoschiuma con cui mi sono appena lavato, la luce diffusa di un sereno pomeriggio dell’autunno toscano; la sensazione, ancora strana, che in Italia c’è anche qualcuno che sta dalla mia parte.
Stamattina, quando sono approdato alla soglia di quella che per qualche mese sarà la mia casa, l’unico bagaglio che avevo era una scia di odore degna dei più lerci personaggi dei film western alla John Wayne. Ora ho dei vestiti nuovi, un beauty case e una stanzetta tutta per me che presto riempirò di vita con immagini e musica della mia Romania. Perché dietro le spalle sta ormai la selva oscura, con le sue ombre e le sue fiere malvagie; e la luce, ora, ha ripreso a tingere l’orizzonte. Questione di attimi, signore e signori, e poi sarà il tempo di ricominciare a danzare.
Ma ora che una cantica è conclusa e una nuova sta per essere sciolta, ora che il futuro ha smesso di fare paura, è giunto il momento di spendere due parole a proposito del passato, delle passioni che hanno dato forma a questa vita, delle avventure che hanno scandito il mio tempo.
Vi racconterò dunque della gioia di vivere, dei sogni e delle speranze di un giovane uomo nell’Europa del terzo millennio, e di come l’autorità di un civile Stato moderno abbia il potere di irrompere gratuitamente nella tua vita quando vuole, e rovinartela a sua discrezione. E vi racconterò di quanto più forte sia la vita, vi narrerò dell’erba che germoglia sull’asfalto, del bosco che sempre rinasce dopo l’incendio, del sole che torna a splendere dopo ogni nera tempesta.
2. IL TEMPO DEI GIOCHI
La storia che vi voglio raccontare è accaduta quasi interamente in Italia, quella volta che il destino mi ci ha portato, quando avevo quasi ventitré anni, ma per comprenderla davvero c’è bisogno che io vi racconti brevemente cosa è successo prima...
Dovete sapere che la mattina del 20 dicembre del 1980 la signora Viorica diede alla luce, in un piccolo ospedale della Romania, il suo secondo figlio maschio. Viorica aveva solo diciannove anni allora. Era, ma lo è ancora, una donna splendida: piccina, snella, lunghi capelli neri e il sorriso dipinto con il pennello più fine del mondo. Era, ma lo è ancora, una ragazza normale, cresciuta contadina come tutte le bambine del suo tempo, giocando a fare la mamma di bambole di stoffa improvvisate e correndo nelle immense distese di campi di grano che separano il suo paesino dal resto del mondo. E all’improvviso, poco più che bambina, si scoprì moglie e madre davvero.
Turceni è il suo villaggio, un villaggio perso nel Sud della Romania, dalle parti di Craiova, non lontano dalla frontiera bulgara. Quasi tutti i suoi abitanti lavoravano allora in un unico grande stabilimento, una centrale elettrica, e anche Dumitru, il marito di Viorica, riparava e sistemava i veicoli utilizzati nella centrale. Ma il lavoro non era il suo unico passatempo: lui era anche, e soprattutto, suonatore di fisarmonica. Suonava per le feste di matrimonio di tutta la Romania e Viorica cantava accanto a lui. Ogni sabato mattina portavano me e Dorel dai nonni, partivano per luoghi lontani e tornavano esausti la domenica sera. E anche tutti pomeriggi stavo dai nonni, al loro paese, Miluta, dove ho imparato i miei giochi preferiti: il ramino, il calcio, l’amore…
Ma c’era un signore, in quegli anni, che amava fare altri tipi di giochi, un po’ meno divertenti. Il suo nome era Ceausescu. Fu lui ad esempio a volere la costruzione di quella centrale, tra le più grandi d’Europa. Lui, che voleva fare della Romania un’unica grande fabbrica, stravolse l’intero paesaggio della regione, diede lavoro a migliaia di persone attirandole da zone lontane, persino dall’estero, creò nuove strade e case popolari per gli operai. In pochi anni trasformò quel villaggio in una città. O meglio, in una caserma.
La gente lavorava sulle catene di montaggio tutta la vita e taceva, nessuno poteva criticare il governo e il sistema. Chi lo faceva andava incontro ai guai. Nessuno poteva lasciare la Romania. Ogni programma della TV, dal telegiornale alla soap opera, era un concerto di lodi al Presidente, alla sua famiglia e al suo regime.
I divertimenti per le persone normali non esistevano o erano supercontrollati. La parola d’ordine era solo lavorare!
. Ma la gente di Turceni non si lamentava, un po’ per paura, un po’ per assuefazione, un po’ perché tutti, grazie alla terribile fabbrica, avevano da mangiare. E quando il popolo ha da mangiare, si sa, non fa la rivoluzione.
A Bucarest e in tante città della Romania, però, le cose stavano diversamente e ce ne accorgemmo anche noi, all’improvviso, quando ci fu il colpo di stato. Ricordo perfettamente il giorno in cui morì Ceausescu. Avevo nove anni ed era il giorno di Natale: la gente del mio