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c’è un’isola dove il tempo e lo spazio sembrano essere scanditi dal cibo. Sì, ma quello degli altri. È quantomeno insolito per un italiano scoprire che Mauritius non ha un vero e proprio piatto nazionale, ma un crogiolo di sapori, e che fino a qualche secolo fa la cucina mauriziana non esisteva, eccezion fatta per ciò che mangiavano i dodo, rapaci estinti (anche se un’azienda americana è decisa a riportarli in vita) e oggi mascotte del Paese in formato souvenir. Ad anticipare questa verità è una delle strade che si possono percorrere alla volta della capitale, Port Louis, quando si atterra all’Aeroporto Internazionale Sir Seewoosagur Ramgoolam (dall’Europa sono necessarie almeno 10 ore di volo): lungo il tragitto non sarà difficile individuare una chiesa cattolica a fianco di un coloratissimo tempio Tamil, mentre una moschea sorge accanto a una pagoda. E pensare che questo pluralismo religioso è partito dalla coltivazione della canna da zucchero, introdotta dai coloni olandesi – non a, fino a un dolcissimo tasting al Village Boutik e, perché no, a un pranzo nel ristorante e sala da tè Le Fangourin per sorseggiare un soft drink con citronella ghiacciata e sciroppo di zucchero di canna. I puristi lo apprezzeranno sicuramente assoluto: è ottimo quello da passeggio che si assaggia al Central Market di Port Louis dove viene estratto a vista in uno dei banchi e a cui si è soliti aggiungere altri freschissimi succhi di frutta come quello di guava. Probabilmente è questa la bevanda locale più popolare insieme al rum agricolo, il cui successo è indissolubilmente legato proprio allo zucchero di canna. Prende il nome dal villaggio a Sud-Ovest, dove assistere all’incredibile spettacolo naturale della terra dei sette colori, la Rhumerie de Chamarel, una delle più premiate di Mauritius, non solo per la qualità della produzione, ma anche per il suo impegno nella sostenibilità e nella salvaguardia dell’ambiente. È una delle poche realtà al mondo a essere completamente indipendente, a partire dalle vaste piantagioni di proprietà di canna da zucchero – business principale fino al 2008, quando la famiglia Couacaud, che aveva acquistato il Domaine de l’Exil nel 1996, costruì da zero la fabbrica con l’unico scopo di produrre un distillato puro – intervallate da frutti tropicali come l’ananas. Nel corso del giro guidato i visitatori hanno la possibilità di degustare gratuitamente le etichette della casa: dai rum bianchi a quelli invecchiati in botti di rovere francese, dai rum arrangé ai liquori a base di rum. A esaltare questo prodotto è anche l’annesso ristorante L’Alchemiste che usa il Chamarel Premium Gold Rum per l’infuso del brasato di maiale o come bagna del babà, esperienza gastronomica da completare davanti a uno dei loro signature cocktail, il Tì Punch: 3 cl di Chamarel Premium White Rum, 4-5 fette di lime, 2 cucchiaini di zucchero di canna e ghiaccio tritato. In un’altra piantagione della zona meridionale, questa volta di tè, sorge il Bubble Lodge di Bois-Cheri, dove addormentarsi sotto le stelle filtrate dai diversi alloggi trasparenti a forma di bolla. Chi pernotta ha accesso libero a degustazioni di tè (la temperatura è bollente, non importa la stagione), nonché a visite alla fabbrica e al museo, una delle tappe imperdibile del circuito La Route du Thé insieme a Domaine des Aubineaux e Domaine de Saint Aubin. Gli isolani di oggi si sentono figli dell’Oceano, pur sempre discendenti da migranti ma finalmente mauriziani tutti allo stesso modo. Come il signor Chu che, arrivato a Mauritius negli anni 40 del secolo scorso, ha aperto il suo negozio nella China Town di Port Louis. In tanti varcano le porte di Mister Chu per le deliziose palline gommose ricoperte di sesamo ripiene di pasta di fagioli rossi; ma vi si trovano anche altri esempi di pasticceria artigianale cinese e prodotti asiatici. In una versione ispirata a roti e tekwa indiani è il dholl puri servito in tempo record dalla vetrina su strada di Ramsahye Maraz Palace, pioniere di questo street food che ricorda una nostrana crespella ripiena quasi certamente di fagioli rossi e curry. C’è ragione di credere che non smettano mai di fumare i pentoloni di B Don B Snack, agitati per pescare cinque diversi ravioli – qui conosciuti con il nome di boulette – che galleggiano in una ciotola di brodo alla maniera orientale (ma niente bacchette). A spiegare il motivo per cui questa è una delle destinazioni più gettonate per la luna di miele è l’alta concentrazione di resort di lusso che mappa questa terra molto generosa circondata dalla barriera corallina. In località Poste de Flacq, il Prince Maurice di Constance Hotels & Resorts, con le sue palafitte sull’acqua, offre un servizio premium di Spa e un romantico ristorante galleggiante, Le Barachois, dove cenare a lume di candela. Gli appassionati di golf e i wine lovers vorranno invece concentrare il loro soggiorno in un altro (e vicinissimo) albergo a cinque stelle del gruppo, il Belle Mare Plage, che affascina per i due campi a 18 buche e le 35mila bottiglie custodite nella cantina del ristorante Blue Penny Cellar. Chissà, alla vista di tutto questo, cosa avrebbe aggiunto Mark Twain alla sua celebre frase “Dio creò prima Mauritius e poi il Paradiso”. Forse che il Paradiso è qui?

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