Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita
1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita
1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita
E-book1.603 pagine15 ore

1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Per gustare al meglio i sapori della tradizione

Un viaggio alla scoperta dei piatti tipici italiani e dei principali prodotti di qualità, percorrendo le strade del vino e dei sapori d’Italia attraverso curiosità e leggende. Specialità italiane note nel Belpaese e nel mondo, i cui sapori non si possono assolutamente perdere e che vale la pena assaggiare almeno una volta nella vita. Il turista enogastronomico non è solo un consumatore, che vuole sapere dove “andare a spendere”, ma un cultore della materia, che ama imparare e approfondire i temi in questione, e magari farne sfoggio in compagnia. Le varie guide “stellate” o con le “forchette” non rispondono più da sole a questa esigenza. Queste pagine invece, complete e divertenti, saranno un valido strumento per conoscere quanto della nostra tradizione culinaria è ancora segreto.

Tra le specialità:

Cutturidd, dall’antica tradizione pastorale • Brusti o baldonazzi, ottimi con la polenta • Testaroli, tipici della Liguria del Levante • Castelmagno, formaggio dal gusto deciso • Bottarga, ovvero il caviale dei poveri • Zuzzu, la gelatina di maiale • Lardo di Colonnata • Zuccherini di Bettona • Polenta concia, ovvero condita con strati di formaggio • Pandoro di Verona

Amparo Machado

docente, esperta di Scienza e cultura dell'alimentazione, da più di dieci anni scrive libri di testo sull'argomento.

Chiara Prete

insegnante di Lettere, è da dieci anni al fianco di Amparo Machado nella redazione dei suoi volumi. Da qualche tempo partecipa anche alla scrittura delle parti relative alla storia e alla cultura dell’alimentazione.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2015
ISBN9788854186484
1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita

Correlato a 1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Cibo etnico e regionale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su 1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    1001 specialità della cucina italiana da provare almeno una volta nella vita - Amparo Machado

    LOGO

    290

    Colophon

    Prima edizione ebook: settembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    Fotografie: © Shutterstock, © Depositphotos

    ISBN 978-88-541-8648-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di 8x8 Srl

    Introduzione

    Il cibo è ciò che forse più caratterizza un popolo, una comunità, un gruppo. È ciò che l’emigrante conserva della propria cultura quando va a vivere in un altro Paese, e nello stesso tempo è tra le cose più esposte a continui cambiamenti, dati proprio dall’incontro tra le varie culture. Analizzando i piatti tipici di un Paese, gli ingredienti più ricorrenti delle varie ricette, le tecniche di cottura e di conservazione e i gusti in generale, si può capire la storia di un territorio, le dominazioni che vi si sono succedute, le attitudini della gente che vi abita.

    Dunque, con questa ricca rassegna di specialità italiane si è cercato in realtà di descrivere l’Italia, regione per regione, con un occhio scientifico, ma anche turistico e edonistico, uno spirito curioso degli aneddoti storici legati ai vari piatti e prodotti e a tutti quei piccoli segreti che arricchiscono la propria esperienza culinaria, al fine di godersi al meglio tutti gli assaggi di volta in volta consigliati.

    Una nota tecnica: quando si parla di DOP (denominazione di origine protetta), IGP (indicazione geografica protetta) e STG (specialità tradizionale garantita) per gli alimenti, e di DOCG (denominazione di origine controllata e garantita) e DOC (denominazione di origine controllata) per i vini, si fa riferimento alle sigle delle certificazioni che l’Unione Europea ha creato appositamente per premiare e tutelare i prodotti di qualità dei vari Paesi. Sono cibi ufficialmente riconosciuti come di particolare pregio, e l’Italia ne annovera veramente tanti!

    Accanto a molti di questi, tra le 1001 specialità italiane da assaggiare almeno una volta nella vita si trovano le ricette più tipiche del Belpaese, quelle consolidate dalla tradizione, che parlano del passato italiano, della sua cultura gastronomica più rinomata, ma anche dell’arte di arrangiarsi, così importante per sopravvivere nei periodi di povertà.

    Un viaggio attraverso le città e i paesini italiani, con la voglia di assaporare il meglio della tradizione e della produzione alimentare, e di scoprire ciò che si cela dietro il cibo in senso culturale.

    Data la vastità dell’argomento trattato, si è dovuta operare una selezione; è anche fisiologico che qualcuno potrà conoscere, di una ricetta citata, ingredienti o passaggi diversi nella preparazione, ma anche questo è inevitabile, perché le ricette quasi sempre non restano fisse nel tempo e nello spazio, ma si diversificano anche solo da zona a zona.

    Un ringraziamento va a Umberto Prete, per le tante parole di incoraggiamento e i suggerimenti pratici che sono stati preziosi per portare a termine questo libro.

    Buon viaggio a tutti!

    Glossario delle certificazioni di qualità e tipicità

    DE.C.O

    La Denominazione Comunale di Origine è un riconoscimento riservato ai prodotti che la Giunta Comunale ritiene idonei a essere inseriti nell’apposito registro. Devono avere un legame con il territorio dimostrato da fattori storici, economico-produttivi e culturali.

    DOC

    La Denominazione di Origine Controllata è il riconoscimento italiano che viene attribuito ai vini prodotti in una zona viticola limitata, e che portano il suo nome geografico. Le caratteristiche dei vini sono connesse all’ambiente naturale e ai fattori umani che intervengono sull’ambiente, nel rispetto di un disciplinare di produzione.

    DOCG

    La Denominazione di Origine Controllata e Garantita è il riconoscimento italiano che hanno i vini dotati di particolari pregi, già riconosciuti DOC da almeno 5 anni. Questi vini devono essere immessi in commercio esclusivamente imbottigliati e con contrassegno di Stato applicato sul tappo. Possono meritare ulteriori specificazioni, come Classico, Riserva, Superiore, se presentano i requisiti previsti.

    DOP

    La Denominazione di Origine Protetta è un prestigioso marchio di qualità europeo, che viene assegnato a prodotti che hanno un legame molto stretto con il territorio. Tutte le fasi di produzione, trasformazione e elaborazione dei prodotti DOP devono avvenire in un’area geografica delimitata, nel rispetto di rigide regole stabilite nel disciplinare di produzione, garantito dall’organismo di controllo.

    IGP

    L’Indicazione Geografica Protetta è un marchio di qualità europeo, che viene attribuito a prodotti agricoli e alimentari per i quali una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche dipendono dall’origine geografica e la cui produzione, trasformazione e/o elaborazione avviene in un’area geografica determinata. Quindi almeno una fase del processo produttivo deve avvenire in una precisa area geografica, nel rispetto di un disciplinare di produzione garantito dall’organismo di controllo.

    IGT

    L’Indicazione Geografica Tipica è il riconoscimento italiano dato ai vini di consumo corrente, prodotti in determinate regioni o aree geografiche, secondo un generico disciplinare di produzione.

    PAT

    I Prodotti Agroalimentari Tradizionali, inseriti nell’apposito elenco dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali e dalle Regioni, sono ottenuti con metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidati nel tempo (non meno di 25 anni), omogenei per tutto il territorio interessato, secondo regole tradizionali.

    PRESIDIO SLOW FOOD

    I presidi sono progetti dello Slow Food (associazione internazionale no profit) che nascono con lo scopo di recuperare e salvaguardare le piccole produzioni di qualità ed eccellenza gastronomica, realizzate secondo pratiche tradizionali e minacciate dall’agricoltura convenzionale e dal degrado ambientale.

    STG

    La Specialità Tradizionale Garantita è un riconoscimento europeo, che viene conferito a prodotti ottenuti secondo un metodo di produzione tipico tradizionale di una particolare zona geografica, al fine di tutelarne la specificità.

    ABRUZZO

    001. AGNELLO CACIO E UOVA

    Simboli pasquali in un piatto semplice e rustico

    La cucina tipica abruzzese è incentrata sui prodotti che derivano dalla pastorizia, attività millenaria nel territorio montano regionale.

    Questo piatto rustico, dai sapori schietti e semplici, ne è un esempio perfetto: si tratta di una specialità tradizionale del periodo pasquale; non a caso è a base di agnello e uova, due simboli della Pasqua per eccellenza nella tradizione mediterranea; in più, nel piatto, figura il formaggio, prodotto cardine della cultura pastorale.

    Vediamo come si prepara l’agnello cacio e uova: per 6 persone occorrono un agnello (1,5 kg), 6 uova, 1 bicchiere di vino bianco secco, 75 g di pecorino, 6 cucchiai di olio extravergine di oliva, 2 limoni, aglio, pepe, rosmarino, sale. Allora, cominciamo! Si taglia l’agnello a pezzetti, e li si pone in una padella abbastanza alta, con l’olio, un rametto di rosmarino, il sale e 6 spicchi di aglio. Si fanno cuocere per mezz’ora rigirando i pezzi di tanto in tanto. Si aggiunge un po’ di vino e lo si fa evaporare a fuoco medio. L’agnello è cotto. A parte si sbattono le uova con il pecorino, il sale, il pepe e il succo dei limoni. Questo composto va versato sull’agnello, avendo cura di cuocere il tutto con un coperchio, per i pochi istanti necessari affinché le uova siano ben rapprese.

    Il piatto è pronto per essere servito e gustato bello caldo.

    002. ARROSTICINI

    Uno tira l’altro!

    Gli arrosticini sono una sfiziosa prelibatezza abruzzese, che ormai ha valicato i confini regionali, per essere apprezzata un po’ in tutta Italia, distribuita anche a livello industriale.

    Gli arrosticini (anche detti rosticini, o rustelle, o arrustelle) sono originari della provincia di Pescara, nella zona pedemontana a est del Gran Sasso: la patria sembra essere il paesino di Villa Celiera, a valle.

    I buongustai sapranno già che questi spiedini fatti con piccoli pezzetti di carne ovina (di pecora in origine, oggi più spesso di agnello castrato), si mangiano strappando i tocchetti di carne a uno a uno con la bocca, tenendo il bastoncino di legno in mano.

    La cottura degli arrosticini avviene su un braciere chiamato fornacella o rustelliera, di forma allungata e con una canalina della lunghezza degli spiedini, su cui questi vengono alloggiati durante la brace.

    Una curiosità: a tavola gli arrosticini vanno serviti in un contenitore speciale, il portarrosticini, di solito in coccio, che assomiglia per forma a un porta grissini, ma con la bocca più stretta, per mantenere gli spiedini caldi fintantoché vengono presi in mano per essere mangiati.

    Che cosa si abbina classicamente a questo piatto? Delle semplici bruschette di pane casereccio, condite con olio extravergine di oliva, e del vino rosso, normalmente Montepulciano. Nei locali più tipici il vino rosso è smezzato con la gassosa.

    Del resto, c’è un proverbio che dice: "vin’ e rustell’ fa li moij’ bell’!, ovvero vino e arrosticini fanno sembrare le mogli belle!".

    La cittadina di Castellafiume, situata alle pendici dei Monti Simbruini, sulle rive del fiume Liri, il corso d’acqua più grande della Marsica, ad agosto ospita la Sagra degli arrosticini. Un’occasione per godersi un borgo incantevole sette-ottocentesco e una specialità che più buona non si può!

    003. BACCALÀ ALL’AQUILANA

    Un pesce povero per un piatto ricco

    Il merluzzo (Gadus morhua) è un pesce osseo marino che vive nei mari dell’emisfero settentrionale, in acque temperate o fredde, e da millenni viene essiccato ai venti del Mare del Nord o salato ed esportato in tutta Europa. Le tecniche di conservazione per il merluzzo sono state tradizionalmente due, e portavano a due prodotti noti con nomi differenti: lo stoccafisso, che è il merluzzo fresco lasciato essiccare all’aria senza aggiunta di sale, e il baccalà, che è il merluzzo sottoposto a salatura.

    Il merluzzo, sia sotto forma di baccalà che di stoccafisso, in passato non era considerato uno status symbol gastronomico, ma costituiva piuttosto un cibo povero e a buon mercato, perciò cibo di elezione nei numerosi giorni di magro, che secolarmente la Chiesa prescriveva ai suoi fedeli.

    In Abruzzo, dalla Val Vibrata al Chietino, dall’Aquilano all’entroterra pescarese, esiste un ampio numero di ricette tradizionali basate su questo versatile pesce, alcune molto semplici, altre più ricche di ingredienti e più lavorate, riservate ai giorni di festa. Il baccalà all’aquilana è una di queste, dove, ad arricchire il pesce, vi sono aromi dell’orto, pinoli, uvetta e il tocco mediterraneo delle olive nere.

    Ecco la ricetta tradizionale di questo piatto.

    Ammollare l’uvetta sultanina in acqua tiepida. Lavare e tagliare a pezzi il sedano. Portare a ebollizione dell’acqua, immergervi il sedano e sbollentarlo per alcuni minuti. Scolarlo. Sbucciare e affettare sottilmente la cipolla. Privare i pomodori dei semi e tagliarli a dadini. Privare il baccalà (precedentemente ammollato) della pelle e delle eventuali lische e tagliarlo a pezzi. Far imbiondire la cipolla nell’olio extravergine di oliva. Unire la dadolata di pomodori e far cuocere per alcuni minuti. Aggiungere il baccalà e lasciare insaporire. Aggiungere sedano, uvetta strizzata, olive e pinoli. Coprire con il coperchio e portare a termine la cottura. Correggere di sale e pepare.

    Servire caldo, accompagnato dal suo sugo, che deve rimare denso. Da accompagnare con una fetta di pane casereccio dorato. Si abbina con un Trebbiano d’Abruzzo, vino trasversale per definizione.

    Il dolce delle uvette, il sapido delle olive e l’acidulo del pomodoro, insieme al sapore di mare del baccalà, formano un perfetto equilibrio di sapori.

    004. BRODETTO DI PESCE DI VASTO

    Nato bianco, oggi rosso

    Vasto è un comune della provincia di Chieti, ricco di storia e di cultura, noto per le splendide acque del suo mare e per le spiagge che sono ogni anno meta di migliaia di bagnanti e turisti.

    Vasto, con i profumi marinari che si sprigionano dalla case dei vastesi e dalle trattorie dei vicoli del centro storico, ammalia sicuramente gli amanti della buona tavola, soprattutto con il suo famosissimo brodetto.

    Il brodetto alla vastese nasce in epoche passate, come spesso accade, per fare di necessità virtù: ecco quindi che i pescatori, dopo aver venduto la parte migliore del loro pescato, preparavano per sé una zuppa con i pesci rimasti impigliati nelle reti, poco pregiati o magari danneggiati e quindi poco adatti al mercato.

    Molto probabilmente il brodetto è nato bianco e più tardi, nell’Ottocento, si è arricchito con il pomodoro e con il peperoncino (prodotti entrambi provenienti dall’America), fino a diventare uno dei piatti più ghiotti e ricercati della cucina della costa teatina.

    Oggi, il brodetto si prepara con pesce, rigorosamente freschissimo, pescato fra Ortona e Vasto e di almeno cinque o sei tipologie diverse, nonché frutti di mare, il tutto sapientemente aromatizzato con aglio, peperoncino piccante e pomodoro fresco a pezzetti, e con il tocco morbido e aromatico di un filo di olio extravergine di oliva delle colline vastesi. Nota fondamentale per la buona riuscita del brodetto è il tegame, che deve essere di terracotta, localmente detto tijelle.

    Tra i pesci normalmente impiegati troviamo triglia, scorfano, palombo, razza, cefalo, tracina, sogliola e molte altre specie minori.

    Volendo abbinarvi un vino, è d’obbligo il Trebbiano d’Abruzzo, vino poliedrico, paglierino, di odore vinoso e gradevole, e delicatamente profumato.

    Il brodetto è celebrato in giugno, nella sua Vasto, con la Settimana del brodetto di pesce alla vastese. Numerosi gli spettacoli, gli eventi culturali e le iniziative collaterali.

    Sicuramente, dopo aver degustato il brodetto, una passeggiata tra i vicoli del centro storico di Vasto, fino ad arrivare al belvedere per ammirare lo splendido golfo, è il migliore digestivo che si possa pretendere!

    005. CACIOFIORE AQUILANO

    Il formaggio ideale dei vegetariani!

    Il caciofiore aquilano è un formaggio da tavola ottenuto da latte di pecora.

    È un prodotto della tradizione aquilana, che dopo un abbandono di una sessantina d’anni ha ripreso ad essere prodotto; rientra infatti nei prodotti dell’Arca del Gusto di Slow Food, ovvero le eccellenze gastronomiche italiane messe in seria difficoltà dall’agricoltura industriale e dall’omologazione.

    Secondo l’antica tradizione, il procedimento per preparare la cagliata del caciofiore è davvero originale: si ricorre all’estratto dei fiori di carciofo selvatico (Carlina acaulis), una pianta spontanea dei pascoli abruzzesi, e qualche volta si aggiungono fermenti lattici.

    La cagliata viene poi estratta manualmente e messa in piccole fascere, che danno la forma al formaggio, e le tipiche scolpiture. A questo punto il caciofiore matura molto rapidamente, in appena due giorni.

    Si tratta di uno dei pochi formaggi italiani che utilizzano un coagulante vegetale, al posto del solito caglio, estratto dallo stomaco di vitelli, agnelli o capretti.

    Ha pasta morbida, priva di occhiature, di colore bianco crema. Il gusto e l’aroma sono molto fini e delicati, burrosi.

    Il caciofiore aquilano va gustato freschissimo a tavola. Può essere anche usato in cucina per condire la pasta, o gratinare le verdure, o in altre ottime ricette locali.

    006. CAROTA DELL’ALTOPIANO DEL FUCINO

    Coltivata dove c’era un lago

    La carota è la pianta erbacea biennale (Daucus carota) della famiglia delle Umbelliferae, coltivata per la sua radice a fittone, di caratteristica colorazione arancione.

    La carota è il vegetale che presenta il più elevato contenuto in carotene, sostanza che nell’organismo si trasforma in vitamina A. Contiene anche discrete quantità di pectine e di lignina, le quali sono responsabili dell’azione astringente tipica del prodotto crudo.

    La carota che si produce sull’Altopiano del Fucino, in provincia de L’Aquila, è la prima in Italia ad aver avuto il riconoscimento IGP (indicazione geografica protetta). Il territorio di produzione di questa carota era anticamente un lago (Lago del Fucino), che è stato prosciugato nell’Ottocento, lasciando il posto a un’area piana e fertile, in cui si è inserita con successo la coltivazione delle carote, al punto che oggi a livello nazionale è la zona più redditizia relativamente a questo prodotto.

    Ma com’è questa blasonata carota? Di colore arancione brillante, forma cilindrica che si assottiglia in prossimità della punta, di consistenza croccante ma nello stesso tempo tenera, dolce e succosa all’assaggio.

    Ovviamente consigliamo di provarla cruda, a morsi, per godere della sua croccantezza; in alternativa, si trova usata in ottimi succhi, oppure la consigliamo in insalata, condita con olio e limone.

    Trova anche impiego nella preparazione di soffritti e in pasticceria.

    007. CENTERBA

    Il liquore alle cento erbe

    Il centerba o centerbe è un liquore tipico abruzzese diffuso in tutte le province della regione, un tempo prodotto solo sull’Altopiano della Maiella.

    Si tratta di un prodotto agroalimentare tradizionale (PAT), risalente al 1200, quando, secondo la leggenda, un monaco erborista dell’abbazia di San Clemente a Casauria (in provincia di Pescara) inventò il centerba, balsamo con proprietà curative; per questo motivo, in passato era usato per guarire dalla peste e dal colera.

    Il nome del liquore, come è intuibile, fa riferimento proprio al gran numero di erbe che si adoperano per ottenere il prodotto.

    Dunque il centerba si ottiene dalla macerazione in alcol di molte erbe aromatiche, ognuna con una proprietà benefica, essiccate e ripulite in modo da usare solo le foglie. Il composto, cui non vengono aggiunti zuccheri, viene poi diluito con acqua, per abbassare il tasso alcolico, che rimane comunque molto alto nel prodotto finito (circa 70% vol): è uno dei liquori più alcolici d’Italia!

    Il centerba è verde smeraldo (per esaltarne il colore può eventualmente esservi aggiunto un colorante autorizzato) e di profumo intenso.

    Tra tutte le erbe, l’unica che si distingue è la menta, che è predominante sulle altre.

    Di solito su consuma dopo pasto come digestivo, ma può essere utilizzato anche in pasticceria, nei cocktail o per correggere il caffè.

    008. CERASUOLO

    La versione rosata e fresca del più noto Montepulciano

    Il Cerasuolo è un vino tipico dell’Abruzzo, che ha un nome parlante: ciràsa, in dialetto abruzzese, vuol dire ciliegia, dunque il nome del vino fa riferimento al suo colore rosso chiaro, simile a quello dell’invitante frutto. Dovrebbe far parte dei vini rossi, ma in realtà è catalogato come un rosato: si parla, infatti, della versione rosata e fresca del più famoso vino Montepulciano d’Abruzzo, vino corposo che si ottiene dallo stesso vitigno del Cerasuolo (il vitigno Montepulciano d’Abruzzo), con aggiunte di uve a bacca rossa, autorizzate nelle province di Chieti, l’Aquila, Pescara e Teramo, ovvero nell’area di produzione del Cerasuolo DOC.

    Vediamo come si presenta questo ottimo vino: il suo profumo è gradevole, delicatamente vinoso, fruttato, con cenni di viola; il sapore è secco, morbido, armonico, con retrogusto di mandorle.

    La gradazione alcolica è non inferiore all’11,5%, e la vita media è di 2-3 anni.

    Come possiamo gustare al meglio il Cerasuolo? Si abbina bene con i sapidi formaggi regionali. Ve lo consigliamo anche con il tipico brodetto di pesce di Pescara e Vasto, oppure in generale con i primi piatti.

    009. CONFETTI DI SULMONA

    I dolcini beneauguranti

    I confetti sono dolcini costituiti tradizionalmente da una mandorla rivestita di zucchero cristallizzato, oggi disponibili in numerosissime varianti, diversi colori, diversi ripieni (cioccolato, pistacchio, frutta, nocciola, ecc.).

    Italia e Spagna detengono il primato produttivo tradizionale di questa specialità: in Italia, in particolare nel centro-sud, ci sono le fabbriche più antiche e fiorenti di confetti. Quelle di Sulmona, in provincia dell’Aquila, sfornano ogni giorno confetti divenuti ormai così famosi che il Ministero ha concesso loro il marchio di prodotti agroalimentari tradizionali (PAT).

    Il confetto esisteva già in periodo romano; non esisteva però lo zucchero, sicché il confetto latino era costituito da una mandorla avvolta in un composto di miele e farina. Anche i Romani davano a questi dolcetti dei profondi significati simbolici, infatti li usavano nei matrimoni come doni beneauguranti e per celebrare le nascite.

    Secondo un’altra teoria, il confetto sarebbe un’invenzione araba. Quel che è certo, è che oggi l’arte confettiera è una specialità italiana, portata avanti secondo la lavorazione tradizionale: lo strumento adoperato fin dall’Ottocento è la bassina, una caldaia metallica in cui le mandorle vengono lentamente rivestite di zucchero e prendono forma. In una delle storiche fabbriche di confetti di Sulmona, è stato inaugurato il Museo dell’arte e della tecnologia confettiera, dove potrete approfondire tutti gli aspetti legati alla produzione dei confetti, dall’antichità a oggi.

    Ma veniamo al simbolismo: il confetto, adoperato principalmente nei matrimoni e nelle altre cerimonie, simboleggia l’unione delle due metà della mandorla, tenute legate insieme dal collante zuccherino. Per lo stesso motivo, ovvero per buon augurio all’unione della coppia o della famiglia, i confetti non si mettono mai nei sacchetti in numero pari. Di solito se ne mettono 5, o 3, o 1, tutti numeri indivisibili.

    E i colori? Citiamo solo i più usati, perché sono veramente tanti! Si usano bianchi, simbolo di purezza, per il matrimonio, la prima comunione, la cresima, le nozze di diamante (anniversario dei 60 anni di matrimonio); azzurri o rosa per il battesimo, a seconda del sesso del bambino; rossi per la laurea; argentati per le nozze d’argento (25 anni di matrimonio); dorati per le nozze d’oro (50 anni di matrimonio); color avorio per le nozze d’avorio (55 anni di matrimonio).

    Al di là del simbolismo, i confetti di Sulmona sono davvero buoni. Da provare in tutte le varianti che stuzzicano il vostro appetito!

    010. CORDE DELLE CHIOCHIE

    Pasta fatta in casa da condire con il sugo alle tre carni

    Ecco una pasta fatta in casa davvero interessante, già dal nome! Le chiochie sono particolari calzature tipiche dei pastori, che venivano legate attorno alla caviglia da crioli di cuoio: questi legacci danno il nome al formato della pasta, tipica delle zone montane e pedemontane della provincia di Chieti. Si tratta dunque di una sorta di maccheroni alla chitarra, la famosissima pasta abruzzese, però di sezione maggiore. Nella Valle del Sagittario, in provincia dell’Aquila, le corde di chiochie sono chiamate per lo stesso motivo stringhitelle, cioè piccole stringhe, lacci.

    La pasta si prepara con acqua, farina di grano duro e chiare d’uovo. Il condimento tradizionale previsto è il sugo alle tre carni, un vero classico abruzzese a base di pezzi particolari di manzo o vitellone, agnello o castrato e maiale. La carne è cotta in un soffritto di odori, e poi irrorata in cottura da un bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo, che poi si fa sfumare. La cottura dura circa due ore, perché il sugo raggiunga la giusta densità. Se ancora non vi è venuta l’acquolina in bocca, sappiate che il piatto si completa con una generosa spolverata di pecorino grattugiato.

    Le corde delle chiochie sono usualmente servite in una terrina di coccio, e se avrete la fortuna di assaggiarle, vi consigliamo nel frattempo di sorseggiare un Cerasuolo d’Abruzzo DOC.

    011. FEGATAZZO

    Da provare quello di Ortona

    Il fegatazzo è una salsiccia tipica abruzzese che, come dice il nome, è a base di fegato e altre parti del maiale, come la milza, il polmone, il guanciale, il cuore e la pancetta. La carne è macinata grossolanamente, poi condita con sale, peperoncino, pepe, aglio, bucce di arancia e foglie di alloro tagliate finemente. Una volta che l’impasto ha riposato per qualche ora, viene insaccato nel budello naturale e legato in rocchi in modo da ottenere le dimensioni di salsicciotti. A questo punto, viene fatto asciugare per qualche giorno. Seguono poi fasi di lavorazione diverse, a seconda del prodotto che si vuole ottenere: il fegatazzo può essere messo sott’olio o sotto grasso, dopodiché va consumato entro l’anno; oppure può essere gustato fresco, ovviamente previa cottura, di solito alla griglia; un altro uso goloso è a guisa di salame, dopo un’adeguata stagionatura, di circa un mese in luogo fresco e umido. In questo caso il fegatazzo non si mangia come un secondo, ma tra altri salumi tipici abruzzesi in un ricco tagliere da antipasto.

    Vediamo come si presenta: in forma di cilindri lunghi circa 10 cm e larghi 5 cm; la superficie è liscia, marroncina, con evidenza di lardelli in trasparenza.

    Se siete in Abruzzo, vi consigliamo di provare il fegatazzo di Ortona, in provincia di Chieti, che vanta la nomea di essere il migliore della regione.

    012. FERRATELLE

    Le cialde con le iniziali personalizzate

    Si tratta di dolci tipici abruzzesi preparati con farina, uova, olio, zucchero e lievito, aromatizzati con vaniglia, buccia del limone o anice.

    L’impasto viene versato con un cucchiaio sull’apposito ferro caldo, leggermente unto, a formare le cialde. Questo arnese, che dà il nome alla specialità, le attribuisce anche la forma e la trama che il biscotto porta stampato addosso; anticamente la sposa abruzzese portava il ferro in dote nella sua nuova vita di moglie, e il ferro aveva normalmente impresse le iniziali della donna, che venivano quindi poi riportate sulle ferratelle. Per la loro tipicità, rientrano nei PAT abruzzesi.

    Queste cialde sono chiamate anche neole o nevole, in particolare a Teramo, oppure ancora cancellate, a causa della trama a cancello in cui si possono presentare.

    Le ferratelle sono friabili, croccanti e profumate, si possono consumare da sole, spolverate di zucchero a velo o accompagnate con panna montata, miele, crema di nocciole o marmellata, crema pasticciera, ecc. Tradizionalmente sono gustate con confettura d’uva.

    Oggi stanno ritrovando un discreto successo, potremmo dire che stanno tornando di moda, dunque le troverete facilmente nei forni abruzzesi, ma anche molisani e in alcuni laziali, e nel periodo di San Valentino vengono realizzate a forma di cuore: per un regalo dolcissimo.

    013. FIADONE

    La sfoglia che si riempie di formaggio

    Con questo nome si conoscono diverse specialità gastronomiche, ad esempio il dolce più famoso della Corsica, a base di formaggio (brocciu) e limone; in Abruzzo per fiadone si intende un prodotto da forno di origini antichissime, una sorta di raviolo imbottito di formaggio, cotto al forno, preparato in versione salata e dolce, e solitamente a forma di mezzaluna (o rotonda).

    La ricetta pare si diffonda in territorio abruzzese (e molisano) nel Medioevo, diventando una specialità tipica del periodo pasquale e natalizio, anche se oggi potete trovare il fiadone tutto l’anno.

    Proviamo a preparare questa delizia, che per la sua storia e il valore legato alla tradizione, è stata inserita tra i PAT delle regioni Abruzzo e Molise.

    Per la sfoglia dei nostri fiadoni (salati) ci servono soltanto 500 g di farina 00, 100 ml di vino bianco e 100 ml di olio di oliva, e ovviamente un po’ di sale. Per il ripieno procuratevi del formaggio fresco abruzzese o della ricotta o del pecorino grattugiato (400 g), 10 tuorli d’uovo, eventualmente del prosciutto crudo.

    Procediamo. Aggiungiamo alla farina disposta a fontana il sale, il vino e l’olio e lavoriamo l’impasto. Quando il composto è liscio e morbido, lo lasciamo riposare in un tovagliolo, e andiamo a dedicarci al nostro ripieno: uniamo le uova al formaggio (e se volete al prosciutto spezzettato). Tiriamo la pasta a sfoglia sottile, e ne ricaviamo due dischi, all’interno dei quali andremo a mettere il ripieno, e poi sigilleremo con le dita le estremità dando la forma di mezzaluna ogni volta, per ogni raviolo. Imburriamo una tortiera e disponiamo i fiadoni, spennellandoli con tuorlo d’uovo e bucherellandoli con la forchetta. Possiamo completare il lavoro con una giusta cottura: a 180 °C per circa un’ora o un’ora e mezza (controllate che non si brucino!). All’assaggio, sentirete che bontà: il formaggio fuso si sposa con la sfoglia in un incontro squisito. Un consiglio: se non finite tutti i fiadoni (ne dubitiamo!) ma ve ne avanza qualcuno, conservateli ben chiusi in un sacchetto, perché si conservino per qualche giorno.

    014. INCANESTRATO DI CASTEL DEL MONTE

    Formaggio a rischio estinzione

    Formaggio fresco di pecora, che si ottiene mediante pressatura della cagliata in canestri di giunco (da cui il nome incanestrato o canestrato). È un formaggio tipico dell’Abruzzo, in particolare della zona aquilana del Gran Sasso, area montuosa in cui da sempre l’allevamento ha rappresentato la principale risorsa economica.

    Ancora oggi questo formaggio è preparato con il latte di pecore allevate al pascolo secondo l’antico metodo della transumanza, che purtroppo sta scomparendo, perché poco remunerativo e molto impegnativo. Per questo motivo Slow Food ha dedicato un Presidio a questo formaggio, e da qualche anno esiste anche un Consorzio per la tutela del Canestrato Abruzzese.

    Come si presenta questa specialità? La forma è cilindrica (di peso variabile tra di 1,5 e 7 kg), con facce piane e scalzo dritto. La crosta è dura con le righe impresse dai canestri di giunco, la pasta è compatta, dura e si scurisce con la stagionatura. L’occhiatura è fine e regolare.

    Il formaggio, dopo 25-30 giorni, può essere consumato fresco, oppure viene fatto maturare per 4-10 mesi.

    Il suo sapore è pieno, aromatico, ricco dei sentori dei pascoli montani che nutrono le pecore lattifere. È un formaggio abbastanza piccante.

    Provatelo da solo, o con un po’ di mostarda, e accostategli un vino rosso corposo.

    015. LENTICCHIA DI SANTO STEFANO DI SESSANIO

    Il legume ad alta quota!

    Lenticchia di origini remote, espressione dell’agricoltura montana abruzzese: è coltivata, infatti, in piccoli appezzamenti a un’altitudine compresa tra i 1000 e i 1500 metri, sulle pendici del Gran Sasso. Le condizioni del terreno, così impervio vista l’altura, fanno sì che sia impossibile utilizzare macchinari moderni per la raccolta delle lenticchie, che avviene ancora nello stesso modo tradizionale manuale, da più di 1000 anni.

    Oggi purtroppo i pochi produttori sono anziani, e spesso i quantitativi di questo legume bastano solo per gli usi familiari dei produttori stessi. Questo perché sono in circolazione delle lenticchie che portano in etichetta il nome della lenticchia di Santo Stefano di Sessanio, ma che in realtà sono delle imitazioni, che hanno a poco a poco scoraggiato i veri produttori ad andare avanti nella loro attività. Per fortuna la Slow Food, convinta della qualità di questa piccola lenticchia montanara, ha raccolto i produttori in un’associazione, e li sta aiutando a promuovere il loro legume, attraverso l’istituzione di un Presidio.

    La lenticchia di Santo Stefano di Sessanio presenta pochi millimetri di diametro, forma globosa, colore tendente al marrone scuro; la superficie è rugosa, la buccia sottile (infatti non è necessario l’ammollo prima della cottura), il gusto intenso.

    Questa lenticchia si caratterizzata anche per l’alto contenuto di ferro, superiore alla media delle altre lenticchie.

    016. LE VIRTÙ

    La zuppa teramana che celebra il trionfo della primavera

    Il nome non vi inganni! Non stiamo facendo una digressione di carattere moralistico; le virtù di cui parliamo non sono valori da perseguire o doti personali, è il nome di una zuppa tipica di Teramo.

    Anticamente, alla fine dell’inverno, veniva il momento in cui le massaie facevano ordine nella madia e raccoglievano gli avanzi dei legumi, della pasta secca di vari formati, e quanto altro avevano accumulato durante l’anno; c’era quasi sempre in casa un osso di prosciutto con ormai attaccati solo gli ultimi brandelli di carne… tutto questo il 30 aprile era raccolto e riutilizzato virtuosamente il giorno dopo per la preparazione di una zuppa molto ricca, che conteneva tutti gli avanzi delle case contadine che potevano ancora essere utili in cucina. Nel frattempo, nell’orto erano pronte le erbe aromatiche e le verdure fresche che la primavera fa maturare, e così la zuppa ospita anche ingredienti freschi. Le massaie, poi, preparano dell’altra pasta fatta in casa, questa volta fresca, e indovinate dove la mettono? Nella zuppa, naturalmente! Si tratta davvero di un piatto ricco, che si presenta molto denso all’assaggio: si dice infatti che Le Virtù sono pronte quando un cucchiaio piantato nella zuppa non cade, ma si mantiene diritto!

    Il 1° maggio a Teramo si festeggia la Festa del Majo, che è il trionfo della primavera, e in quell’occasione Le Virtù diventa il piatto protagonista dei festeggiamenti, che viene consumato collettivamente ed è caricato di significati simbolici propiziatori: ad esempio, la tradizione vuole che siano 7 i tipi di legumi usati, come 7 i tipi di pasta, 7 le erbe, il tutto cucinato per 7 ore da 7 vergini! Il numero sette fa riferimento alle virtù cristiane.

    Al di là del significato rituale, vogliamo assaggiare questo piatto così tipico e pieno di sapore? Beh, se volete provare a prepararlo voi, allora la lista della spesa è lunga… Sedano, zucchine, carote, patate, cavolo, scarola, spinaci, cicoria, indivia, bietole e tutto ciò che l’orto vi offre (600 g); fagioli, ceci, lenticchie (250 g); fave e piselli sgranati (200 g); cotenne, zampetto, guanciale, lardo, prosciutto, muso e osso di prosciutto (400 g); pasta di vari formati (300 g); lardo tritato (40 g); 1 cipolla, 1 mazzetto di prezzemolo, 1 mazzetto di menta, 3 spicchi di aglio, 1 ciuffo di timo, 1 rametto di maggiorana, 1 rametto di finocchio selvatico, alcune foglie di salvia, noce moscata, olio evo (ovvero extravergine di oliva) quanto basta, sale, pepe. Avete tutto? Procediamo.

    I legumi vanno messi a bagno 12 ore prima di iniziare la preparazione.

    Cominciamo a sbucciare e tritare cipolla e aglio e a mondare le erbe aromatiche. Tagliamo il prosciutto a dadini, dopodiché fiammeggiamo le cotiche, le raschiamo e le laviamo. Laviamo e tagliamo le verdure, scoliamo i legumi secchi. A questo punto li lessiamo separatamente, in acqua leggermente salata. Scottiamo le cotiche e le altre parti del maiale, compreso l’osso, in acqua bollente per almeno un’ora. Adesso lessiamo anche i legumi freschi in acqua poco salata. La parti del maiale raschiate e lavate vanno cotte in acqua bollente, avendo cura di schiumare di tanto in tanto. Poi vanno scolate e tagliate a pezzetti, eliminando l’osso. Ora possono incontrare i legumi e le verdure, con le loro acque di cottura. Continuiamo a cuocere, con il coperchio a coprire parzialmente la pentola. Facciamo soffriggere cipolla, aglio, gli aromi, il prosciutto e il lardo nel burro e in poco olio, salando, pepando e lasciando insaporire mescolando. Anche il soffritto è pronto per entrare nella zuppa, che riportiamo a ebollizione. Possiamo unire la pasta, rispettando i vari tempi di cottura e, alla fine, cospargiamo di pepe, ci mettiamo un filo d’olio, per chi vuole anche un po’ di pecorino grattugiato, e possiamo gustarci Le Virtù! Un piatto buonissimo che dopo tanta fatica ci meritiamo proprio!

    017. LIQUORE ALLO ZAFFERANO

    Buono da assaporare e molto romantico!

    Il liquore allo zafferano è una specialità abruzzese, preparata con Zafferano dell’Aquila DOP, anice, etanolo, zucchero, acqua ed erbe aromatiche locali in combinazione variabile da produttore a produttore. Il liquore, nato dall’infusione dello zafferano nelle erbe, dopo essere stato diluito e zuccherato, viene filtrato dopo un periodo di riposo, dopodiché è messo a invecchiare in botti di acciaio. Per la sua tipicità e l’assoluta qualità della materia prima principale, ovvero lo zafferano, il prodotto è riconosciuto tra i PAT abruzzesi.

    Il liquore ha una gradazione alcolica di circa 37% vol, colore giallo intenso, odore di zafferano con lieve sentore di anice.

    È bevuto come digestivo, molto freddo. Si accosta alla pasticceria secca e ai gelati a base di crema.

    Viene anche impiegato in pasticceria per aromatizzare dolci locali.

    Una curiosità: il nome scientifico dello zafferano, che è una piccola pianta di appena 12 cm di altezza, è Crocus sativus: crocus deriva dal greco krokos (il nome zafferano deriva invece dall’arabo zaafran). Secondo la mitologia, Krokos era un giovane greco follemente innamorato della ninfa Smilax. Gli dei però si opponevano all’amore di un mortale con una semidea, e gli amanti furono puniti e convertiti in fiori: Smilax divenne una Salsapariglia (Smilax aspera) e Krokos un Crocus. Perciò il fiore rappresentava il desiderio d’amore e con i suoi filamenti si preparavano filtri d’amore.

    018. MONTEPULCIANO D’ABRUZZO COLLINE TERAMANE

    Ottimo con l’arrosto

    Il Montepulciano d’Abruzzo Colline Teramane è l’unico vino con il marchio DOCG prodotto in Abruzzo, in molti comuni della provincia di Teramo. Questo importante riconoscimento è arrivato nel 2003.

    È ottenuto con uve provenienti dal vitigno Montepulciano (minimo 90%), originario della Valle Peligna, in provincia dell’Aquila, e altre uve del vitigno Sangiovese (max. 10%), originario invece del Chianti toscano. Il nome del vino deriva dal suo vitigno di appartenenza e non ha legami di nessun tipo con il più blasonato vino Nobile di Montepulciano toscano. Pare anzi che furono addirittura i commercianti fiorentini, recatisi anticamente in Abruzzo per comprare lana, a vedere queste uve, notare la somiglianza con quelle toscane, e dunque attribuire il nome abruzzese alle loro, una volta ritornati a casa.

    Il Montepulciano Colline Teramane ha un grado alcolico minimo di 12,5% vol. È invecchiato per due anni (tre per la versione Riserva), di cui almeno uno in botti di rovere o di castagno, e sei mesi sono dedicati all’affinamento in bottiglia.

    Si caratterizza per il suo colore rosso intenso dai riflessi violacei, tendenti al granato con l’invecchiamento; l’odore è intenso e caratteristico, il sapore caldo, pieno, morbido, asciutto.

    Si abbina bene con formaggi stagionati e salumi locali, cacciagione e arrosti in generale.

    019. MORTADELLA DI CAMPOTOSTO

    Quella con il lardo dentro

    Ecco un tipico salume dell’omonima località abruzzese e zone limitrofe, situata alle pendici dei monti della Laga, in provincia de L’Aquila. Questa specialità è inserita nell’elenco dei PAT abruzzesi, e pare che abbia più di 500 anni!

    È un salume ottenuto con un procedimento tradizionale di lavorazione delle parti più tenere e pregiate del suino. Si ottiene macinando finemente spalla, lombo, grasso e pancetta, il tutto condito con sale e pepe.

    L’impasto viene suddiviso in sfere, al centro delle quali si introduce una stecca di lardo. È quindi schiaffeggiato, affinché assuma la forma ovoidale, insaccato e legato a coppie. Le mortadelle sono poste a cavallo di una pertica, esposte al fumo di camini o bracieri alimentati con legna di quercia o di faggio. La stagionatura dura tre-quattro mesi, effettuata in locali aperti; è favorita dal vento di tramontana, che colpisce le zone di produzione del salume.

    Il risultato sono mortadelline che difficilmente superano il peso di 500 g, di forma ovoidale, spesso vendute in coppie (perciò sono anche chiamate coglioni di mulo).

    Al taglio il salume si presenta di colore rosso scuro, con al centro lardello bianchissimo e compatto. In bocca la mortadella è cuoiosa e soda, con lardello dolce e croccante.

    Il prodotto oggi è piuttosto raro, per cui: zaino in spalla e buona caccia alla ricerca della mortadella di Campotosto!

    020. NOCCI ATTORRATI

    Una ricetta semplice e golosa dalla tradizione abruzzese

    Questi dolcetti, tipici della tradizione abruzzese, sono preparati con mandorle tostate e ricoperte con una glassa a base di albumi e zucchero.

    Vediamo come poter assaggiare questa specialità senza dover andare in Abruzzo.

    Si versano le mandorle in acqua bollente e si lasciano cuocere per 2 minuti; si passano velocemente in acqua fredda e si pelano. Messe in una teglia, si lasciano tostare in forno caldo a 200°C per circa un quarto d’ora, dopodiché si lasciano raffreddare. Per la glassa, si montano a neve gli albumi e si incorpora piano piano lo zucchero a velo, mescolando delicatamente. Quando il composto ha la giusta consistenza, vi si immergono le mandorle a una a una, dopodiché si poggiano su un vassoio rivestito di carta oleata (per evitare che si attacchino). Si lasciano asciugare al fresco per un giorno intero. A questo punto, se la glassa sembra asciutta, si possono staccare i nocci, pronti per essere serviti. Semplice, vero?

    Un consiglio: se non mangiate tutti i nocci in giornata, potete conservarli in scatole di latta, separandoli con strati di carta oleata, e gustarli anche dopo qualche giorno.

    021. OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA PRETUZIANO DELLE COLLINE TERAMANE

    Leggermente piccante

    L’ulivo (Olea europea) è una delle specie arboree più antiche e diffuse del bacino Mediterraneo, dove approdò, proveniente dall’Asia Minore, grazie ai Fenici e ai Greci, ma furono poi i Romani a sviluppare la coltura dell’olivo in tutte le aree vocate dell’Impero.

    Secondo gli storici, le prime testimonianze della coltura dell’olivo in Abruzzo, così come la produzione dell’olio di oliva, risalgono al V secolo a.C., come testimoniano i numerosi reperti archeologici e storici esistenti.

    In Abruzzo vi sono oggi oltre 40.000 ettari di territorio collinare coltivato a olivo. Nei secoli, la sapienza contadina ha selezionato numerose varietà, tra cui il Leccino, la Dritta, il Frantoio, la Toccolana, la Gentile e la Intosso, quest’ultima però è un’oliva da tavola e non da olio.

    Le Colline Teramane si estendono nel nord della regione, racchiuse in uno spazio ristretto: hanno a est il Mare Adriatico, a ovest il massiccio del Gran Sasso d’Italia e costituiscono uno stupefacente spettacolo tra uliveti e vigne, curati alla stregua di meravigliosi giardini. È in queste colline, costellate di silenziosi borghi e paesini medievali, che si produce un olio extravergine di oliva che, per le sue peculiarità, si fregia della rinomata certificazione europea di denominazione di origine protetta (DOP).

    L’olio extravergine di oliva Pretuziano delle Colline Teramane è ottenuto dalle olive appartenenti alle varietà Leccino, Frantoio e Dritta (fino al 75%) e il restante 25% è rappresentato da varietà locali minori.

    Quest’olio si presenta di colore giallo-verdognolo, con odore fruttato medio e sapore fruttato di media intensità, con lieve sensazione di amaro e piccante; si abbina a piatti come minestre a base di legumi e verdure bollite.

    022. ORAPI

    Gli spinaci selvatici che sanno di montagna

    La gastronomia abruzzese ha un’anima legata alla tradizione agropastorale, a quella della transumanza e dei contadini poveri delle zone montane e pedemontane, fatta di ricette semplici e gustose, a base di carni ovine, formaggi, ortaggi e piante spontanee. Una di queste ricette è la zuppa di orapi e fasule, un piatto che in passato era pronto in qualsiasi momento nei focolai delle cucine dei pastori abruzzesi.

    Gli orapi, il cui nome scientifico è Chenopodium bonus-henricus, sono piante erbacee della stessa famiglia degli spinaci, cui assomigliano, e per questo sono chiamati anche spinaci selvatici o spinaci di montagna. Gli orapi crescono spontaneamente sugli Appennini, al limite delle conifere, presso le malghe, luoghi incolti o frequentati da bestiame al pascolo.

    Nella tarda primavera, sugli altopiani del Parco Nazionale dell’Abruzzo, del Gran Sasso e della Majella, in prossimità delle aree in cui le pecore pascolano, gli abitanti dei borghi della montagna abruzzese vanno ancora oggi a raccogliere gli orapi.

    Le foglie, quelle tenere, e le cime immature si cucinano come una comune verdura, lesse o ripassate in padella con aglio.

    Gli orapi e fasule (orapi e fagioli) una volta si preparavano in recipienti di coccio, che come si sa sono ottimi per le lunghe cotture, come sono quelle che richiedono i legumi. I fagioli si mettevano a cuocere in abbondante acqua e, quando diventavano morbidi, si aggiungevano gli orapi, precedentemente saltati in una padella con spicchi d’aglio schiacciati, un po’ di pancetta a pezzettini e peperoncino piccante. Dopo alcuni minuti, quando la zuppa si era ben amalgamata, si serviva su crostoni di pane.

    La Sagra degli orapi si tiene il 13 agosto di ogni anno a Barrea, un piccolo borgo montano della provincia dell’Aquila. La sagra è un’occasione per visitare questa bella località turistica, con il suo lago, e conoscere il Parco Nazionale d’Abruzzo.

    Attenzione però agli orapi, oggi questa pianta sta diventando molto ricercata e purtroppo oggetto di raccolta indiscriminata, rischiando la scomparsa.

    023. PALLOTTE CACE E OVE

    Le polpette tipiche abruzzesi

    Le polpette con le uova e il formaggio sono un piatto semplice, saporito e ricco di proteine, tipico della tradizione abruzzese. Spesso vengono presentate come antipasto, ma possono costituire un secondo piatto a pieno titolo.

    Si preparano facendo un impasto con mollica di pane raffermo sminuzzata, formaggio pecorino non troppo stagionato, sbriciolato o grattugiato grossolanamente, e uova sbattute. Poi si aggiunge un po’ di prezzemolo finemente tritato. Le polpette si friggono in abbondante olio di oliva o di arachidi. Quando sono dorate si ritirano. Nel frattempo si prepara la salsa di pomodoro con uno spicchio di aglio schiacciato, un po’ di cipolla (o cipolletta) finemente tritata e si fanno imbiondire in una padella con poco olio, poi si unisce una dadolata di pomodori freschi o della passata e il tutto si fa cuocere per circa 10 minuti. A questo punto si uniscono le polpette e si fanno insaporire per altri 15 minuti; a fine cottura si aggiunge qualche foglia di basilico per profumare la salsa.

    Le pallotte si servono calde, accompagnate da pane fresco e morbido.

    024. PANE CASERECCIO AQUILANO

    Il pane furbo per non pagare le tasse!

    Il pane aquilano, da sempre, deve il suo sapore tipico, e il forte profumo di montagna, a una speciale varietà di grano, il Solina (individuato come Triticum hybemum), l’unica che nei secoli si è adattata al freddo e alla povertà del territorio aspro del Gran Sasso. Probabilmente questo grano tenero è lo stesso di cui già Plinio il Vecchio parlava nella sua Naturalis historia, chiamandolo siliginis, con cui si ricavava anticamente un ottimo pane.

    Con il passare dei secoli, un’altra esigenza affinò l’ingegno dei panettieri: c’era una tassa medioevale, il focatico o fuocatico, che come dice il nome prevedeva che si pagasse un’imposta per ogni fuoco o focolare presente in un’abitazione. Questo portò come conseguenza la nascita di centri di cottura comuni, in cui si andava a cuocere il pane pagando l’uso del forno. Possiamo immaginare che in montagna non fosse agevole raggiungere questi centri, allora conveniva produrre un pane che si conservasse il più a lungo possibile, e che permettesse di spostarsi da casa solo di rado. Il pane casereccio dell’Aquila ha la caratteristica di conservarsi ottimo e fragrante per oltre 10 giorni, grazie alla lievitazione naturale con lievito madre.

    Il prodotto si presenta in forma di filone, ha la crosta dorata, la mollica uniforme con occhiatura piccola; l’odore è penetrante e appetitoso, il gusto sapido e ha la fragranza tipica del cereale tostato.

    Preparando delle golose bruschette, condite con quello che vi piace, sentirete il sapore unico e inimitabile della tradizione montanara abruzzese.

    025. PARROZZO DI PESCARA

    Amato dal vate D’Annunzio

    Il nome di questo dolce pescarese PAT, tipico in particolare del periodo natalizio, tradisce le sue origini: il pane rozzo era il pane comune delle campagne abruzzesi, dal colore della pasta giallo per l’uso della economica farina di mais, e dalla crosta scura, per via delle bruciacchiature della cottura in forno a legna.

    Un pasticciere geniale, Luigi D’Amico, nel 1920 ebbe l’idea di inventare un dolce che somigliasse nelle fattezze a una forma di pane rozzo, ma fatto con le uova nell’impasto, per ottenere il colore giallo, e ricoperto di cioccolato, per scurire le parti esterne. Il risultato fu così strepitoso da incantare anche il celebre poeta abruzzese Gabriele D’Annunzio, che in onore di questo dolce "chiù doce di qualunque cosa doce, scrisse un madrigale e coniò il termine parrozzo".

    Per chi volesse provarlo, consigliamo di assaggiarlo a Pescara, dove lo producono anche in versione monodose: i parrozzetti sono proprio miniature di parrozzi confezionati singolarmente… e sono buonissimi!

    Ma proviamo anche noi a preparare un panrozzo pescarese, diciamo per 6 persone: ci occorrono 120 g di cioccolato fondente, 100 g di zucchero, 70 g di mandorle, 60 g di burro, 50 g di farina 00, 50 g di fecola di patate, 4 uova, 3 g di sale, burro e farina per imburrare e infarinare lo stampo, che deve essere di forma semisferica, preferibilmente di alluminio.

    Per prima cosa si scottano le mandorle in acqua bollente per pochi minuti, si scolano, si pelano e si fanno asciugare in forno caldo per 10 minuti a 120-150° C. Si versano in un mortaio con un cucchiaio di zucchero e si pesta fino a ottenere una polvere. Si separano i tuorli dagli albumi e si mettono i tuorli in una terrina con lo zucchero; si sbattono finché il composto non diventa spumoso, e vi si unisce la polvere di mandorle. Si mescola, e si aggiungono la farina e la fecola, continuando a mescolare, poi si unisce il burro fatto a pezzetti e si fa amalgamare il tutto.

    A parte si montano a neve gli albumi con un pizzico di sale, quindi si incorporano dolcemente al composto, che a questo punto si versa nello stampo precedentemente imburrato e infarinato. Il composto si cuoce nel nostro forno già caldo per 40 minuti a 180-190° C e, una volta cotto e sfornato, si fa raffreddare. Nel frattempo, si spezzetta il cioccolato e lo si fa sciogliere a bagnomaria, quindi si versa sul dolce con una spatola e si lascia solidificare.

    Il parrozzo è pronto! Servitelo e gustatevelo, se volete, con un bicchiere di Moscadello di Montalcino.

    026. PASTUCCIA

    Quando l’uva passa incontra la salsiccia

    La pastuccia è una piatto tipico abruzzese: è una sorta di polenta preparata con farina di mais, uva passa, salsicce tagliate a pezzettini, tuorli d’uovo, pancetta o guanciale di maiale, strutto, acqua e sale. Si mette la farina in un recipiente e la si impasta con sale e acqua tiepida. Quando l’impasto è omogeneo, si aggiunge l’uva passa, insieme con i pezzetti di salsiccia e pancetta o guanciale (già soffritti), e si amalgama anche con i tuorli d’uovo. A questo punto si cuoce; anticamente si usava una teglia di rame, ma oggi in casa ormai questo tradizionale contenitore è sostituito dalla più comoda e moderna teglia antiaderente! Qui si versa l’impasto, livellandolo con un cucchiaio di legno. Sulla superficie si spalma un pochino di olio, e sopra si aggiungono altri pezzettini di pancetta o guanciale. Si inforna a 200° C. Quando è bella dorata sotto e sopra, la vostra pastuccia abruzzese può essere assaggiata, bella calda. Ma è buona anche fredda. La pastuccia è considerata un ricco antipasto, ma in un’alimentazione equilibrata va benissimo come piatto unico.

    027. PECORA ALLA COTTORA

    Morbidissima per la lunga cottura

    Questo piatto tipico della tradizione abruzzese è conosciuto con vari nomi in diverse zone della regione; pecora alla cottora è il nome del piatto nell’Aquilano, alla callara nel Teramano.

    La cottora è l’antico paiolo di rame che i pastori utilizzavano in cucina e che ancora oggi si trova in tante case di montagna abruzzesi, piuttosto ormai come un cimelio.

    Questa specialità tradizionale merita di essere assaggiata in una trattoria abruzzese, ma se vi sentite bravi in cucina, potete gustarvela a casa vostra, procurandovi i migliori ingredienti che riuscirete a reperire, a cominciare, ovviamente, da un buona carne di pecora, circa 1,5 kg. Poi vi occorreranno 2 litri di vino bianco secco, 1 cipolla, 1 gambo di sedano, 2 carote, 1 mazzetto di prezzemolo, 1 rametto di rosmarino, 4 spicchi di aglio, 2 foglie di alloro, 3 foglie di salvia, 2 cucchiai di salsa di pomodoro, sale e peperoncino quanto basta.

    Si tratta in sintesi di un piatto a base di carne di pecora, resa morbidissima da una lunga e sapiente cottura, in acqua, vino, verdure, aromi, peperoncino e pomodoro. Non spaventatevi, però: è una preparazione più lunga che complessa.

    Cominciamo dunque preparando gli odori: sciacquiamo alloro, rosmarino e salvia, laviamo e tritiamo il prezzemolo, sbucciamo e tagliamo in quattro parti la cipolla, sbucciamo e schiacciamo l’aglio. A questo punto mettiamo in pentola la carne (per chi comprensibilmente non abbia la cottora, andrà benissimo una capiente pentola in acciaio), con l’alloro e il rosmarino, e vi si versa 1 litro di vino e 1 litro di acqua. Si porta a ebollizione, e si continua la cottura per un’ora, facendo attenzione a schiumare quando occorre. Dopodiché si versa il vino rimasto e altri 500 ml di acqua, poi si aggiunge la cipolla, il sedano, la carota, il prezzemolo, l’aglio, la salvia e il pomodoro, si sala, e si continua lentamente la cottura per altre 3 ore. Finalmente è pronto!

    Va servito in contenitori di terracotta, o in piatti, dove avrete cura di versare anche un po’ di liquido di cottura, con cui andranno bagnate delle fette di pane casereccio. Più rustico di così…

    Se vi va, potete partecipare all’antica Sagra estiva che si tiene a Macchia da Sole di Valle Castellana, all’interno del Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga, in provincia di Teramo, dove potrete assaggiare questa e le altre specialità del territorio.

    028. PECORINO DI FARINDOLA

    Unico al mondo

    Si tratta di un formaggio pecorino abruzzese, prodotto nel piccolo centro sul versante orientale del Gran Sasso e nella frazione di Roccafinadamo di Penne, Arsita e Bisenti.

    È un formaggio assolutamente particolare, perché è prodotto (caso unico in Italia e forse nel mondo!) utilizzando il caglio di maiale, che gli conferisce un aroma e un sapore peculiari. Il caglio suino era adoperato nell’antica Roma nella produzione dei formaggi, e la tradizione millenaria ancora oggi è ripetuta: per questa sua straordinaria tipicità il pecorino di Farindola è inserito nei PAT abruzzesi.

    Questo formaggio è prodotto in quantità limitatissima, con latte di pecore discendenti dalla pregiata razza Pagliarola Appenninica, allevate libere sui pascoli di montagna. Ha la crosta striata di un colore che va dal giallo chiaro al marrone scuro, secondo il grado di stagionatura. Questo colore è dovuto al fatto che durante la lavorazione del formaggio essa viene unta più volte con una miscela di olio e aceto. La pasta è granulosa, giallo-paglierina e leggermente umida, anche quando il formaggio è molto stagionato. Il prodotto all’assaggio sprigiona un aroma di sottobosco con profumi di fungo e legna secca, e ha un sapore intenso e caratteristico. Indubbiamente da provare. Grazie al Presidio Slow Food dedicato a questo formaggio eccezionale, avete la speranza di trovare il pecorino di Farindola in vendita sul posto, senza dover bussare alla porta di qualche pastore per poterlo assaggiare, visto che fino a poco tempo fa la produzione era solo a livello familiare! Oppure potete provare l’assaggio alla Sagra del pecorino di Farindola, che ogni anno in agosto anima le vie del paese, con tutte le tipicità gastronomiche locali.

    029. RATAFIÀ

    Liquore alle amarene di origini antiche

    Il ratafià o ratafiat è un tipico liquore a base di vino, alcol, zucchero e succo di frutta.

    In Italia ne esistono diverse versioni: la valdostana, la piemontese; il ratafià abruzzese è fatto con vino Montepulciano di Abruzzo e amarene, in varie proporzioni secondo le ricette tradizionali, tramandate di generazione in generazione, ed è aromatizzato con cannella e vaniglia.

    La lavorazione tradizionale prevede che le amarene e lo zucchero siano lasciati al sole a fermentare per 30 giorni; poi si aggiunge il vino, e si lascia macerare per altri 30 giorni o per pochi mesi, a seconda degli usi. Infine il liquore è filtrato, imbottigliato, e secondo le preferenze si può aggiungere alcol.

    Il ratafià ha il riconoscimento PAT: ha infatti origini antiche; il suo nome potrebbe derivare dal latino rata fiat, che vorrebbe dire suppergiù si decida, in riferimento ad accordi politici che solitamente si prendevano durante i banchetti. Se sottintendiamo la parola pax, pace, si sarebbe potuto ad esempio brindare a un accordo di pace (sia fatta la pace!), magari a fine pasto, essendo il ratafià un liquore digestivo, ottimo per concludere una cena importante.

    Il liquore ha un sapore fresco e profumato.

    Va gustato fresco e versato in bicchierini; volendo, si può assaggiare anche a temperatura ambiente.

    La gradazione alcolica è molto variabile, dipendendo ovviamente dalla ricetta; oscilla comunque tra 16 e 28% vol.

    030. SCAMORZA PASSITA

    Da provare quella del Piano delle Cinque Miglia

    È la tipica scamorza abruzzese, a base di latte crudo (che viene solo termizzato a 63° C per 20 minuti), caglio naturale, sale e fermenti naturali liofilizzati. Il prodotto è stagionato per una quindicina di giorni. Questa specialità tradizionale è tanto più buona quanto meglio sono alimentate le mucche da cui si ricava il latte.

    Si tratta di una sorta di mozzarella appassita, cioè seccata. Ha una forma a fiaschetto con un peso di 150-200 g, pasta compatta di colore biancastro e di sapore dolce, leggermente acidulo.

    Ne esiste anche una versione affumicata, come succede normalmente per tutte le scamorze del Sud Italia. Un’altra versione da provare, se riuscite a trovarla, è quella al tartufo nero, profumata e delicata. Molto rinomata è la scamorza passita prodotta nel Piano delle Cinque Miglia, in provincia dell’Aquila.

    Per il nostro assaggio, possiamo pensare di procurarci i bocconcini di scamorza passita, da pizzicare in un aperitivo sfizioso, oppure possiamo assaggiarla come companatico, per un panino davvero eccezionale. Fusa sulle bruschette, la passita esprime forse al meglio la sua bontà.

    Come abbinamento cibo-vino, consigliamo un Trebbiano d’Abruzzo per la scamorza fresca, un Montepulciano per quella affumicata.

    Ovviamente, questo prodotto, come la mozzarella, può essere adoperato in cucina in tantissime ricette: nelle pizzaiole, ovvero sciolto in padella insieme a pomodorini pachino e origano o al prosciutto cotto; come imbottitura di torte salate, calzoni, parmigiana di melanzane, mozzarella in carrozza (in questo caso scamorza in carrozza), ecc.

    031. SCAPECE CHIETINO

    Piatto antico a base di capitone

    Un piatto tipico del litorale chietino è lo scapece, ricetta antica utilizzata per conservare il pesce. Scapece è l’italianizzazione del termine spagnolo escabeche. In scapece possono essere preparati diversi tipi di pesce, ma è più appropriato utilizzare pesce azzurro o un po’ grasso.

    La preparazione è piuttosto semplice e il sapore rimanda a una cucina di altri tempi, a quelle preparazioni oramai introvabili nelle nostre cucine sterili e dove a padroneggiare è talvolta il microonde.

    Uno dei pesci classici per lo scapace chietino è il capitone.

    Ingredienti della ricetta sono: capitone, aceto bianco, alcune foglie di alloro, aglio, farina di mais, farina di tipo 00, sale grosso, olio di oliva o di arachide per friggere.

    Il capitone, privato delle interiora e pulito, si strofina con sale grosso e farina di mais, e si taglia a pezzi. In un tegame si versa dell’aceto e si aggiunge l’alloro, l’aglio, una presa di sale e si fa bollire per alcuni minuti. Nel frattempo si infarinano i pezzi di capitone e si friggono in abbondante olio bollente fino alla doratura. Si scolano e si dispongono in una ciotola capiente. Si versa sopra l’aceto aromatizzato in precedenza fino a coprire completamente il pesce. Si lascia marinare per 2-3 giorni.

    Si serve a temperatura ambiente o freddo.

    Alcune varianti prevedono anche l’aggiunta di vino bianco e zafferano aquilano al liquido di marinatura: il risultato è un sapore un po’ più delicato e armonico.

    032. SFOGLIATELLE ABRUZZESI

    Una sfida riuscire a prepararle!

    Le sfogliatelle sono dolci a forma di mezzaluna, coperti di zucchero, costituiti da un involucro di pasta sfoglia farcito con ripieno a base di marmellata, mandorle tritate, cedro candito, cioccolato fondente e liquore. Talvolta vengono spolverate con un mix di zucchero e cannella insieme.

    La lavorazione è piuttosto complessa, poiché preparare la pasta sfoglia non è facile: deve essere formata da almeno cinque strati separati da strutto sciolto, e ciò richiede buona manualità; di solito i segreti di una buona sfoglia si tramandano da genitori a figli.

    Per i più coraggiosi, che non temono una delusione in cucina, vi sveliamo la ricetta, ma sicuramente l’assaggio più soddisfacente dovrete farlo in Abruzzo.

    Ingredienti per la sfoglia: 500 g farina, 3 uova, 30 g di zucchero, 30 g di strutto. Per il ripieno: 600 g di marmellata a piacere (la più classica è quella di amarena insieme al mosto cotto), 150 g di cioccolato fondente, 150 g di mandorle pelate (o noci), 10 ml di Aurum o altro liquore di vostro gradimento, 80 g di cedro candito, zucchero per decorare.

    La pasta sfoglia si prepara impastando la farina con le uova, lo zucchero e lo strutto, si lavora fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo, lo si copre con un canovaccio e si fa riposare per almeno un’ora. Per il ripieno occorre tostare le mandorle in forno e tritarle, poi si trita anche il cedro candito e si sminuzza il cioccolato. In una ciotola, si mescola la marmellata con tutti gli altri ingredienti fino a ottenere un composto omogeneo.

    Si procede poi dividendo l’impasto della sfoglia in 5-6 parti e con il matterello si stendono in altrettante sfoglie, si sovrappongono e si arrotolano in modo da ottenere una sorta di salame, e si lasciano riposare per 30 minuti. Si taglia il salame di pasta in fette di circa 1 cm di spessore, e si stendono con il matterello, mettendo una piccola quantità di ripieno sui dischetti ottenuti, poi si piegano a mezzaluna, se ne sigillano i bordi, si adagiano su una placca rivestita di carta da forno e infine si cuociono in forno già caldo a 200° C per 10-15 minuti. Alla fine si cospargono di zucchero.

    Le origini delle sfogliatelle abruzzesi risalgono agli inizi del Novecento e al contributo di una nobildonna napoletana, donna Anna, la quale, sposata con un abruzzese, il barone Tabbasi, si trasferì a Lama dei Peligni. Fu lì che modificò la ricetta della celebre sfogliatella napoletana sulla base degli ingredienti tipici della zona. Così la sfoglia, con l’impiego dello strutto, diventò più morbida e la sua farcitura un po’ diversa ma ugualmente appetitosa e fragrante.

    A Lama dei Peligni, il paese dei camosci, in uno dei centri più belli del Parco

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1