Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il pranzo del pescatore
Il pranzo del pescatore
Il pranzo del pescatore
E-book560 pagine8 ore

Il pranzo del pescatore

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una serie di strani omicidi scuote la tranquillità di una cittadina

rivierasca delle Marche. Chiamato a risolvere il caso è Franco Rinaldi,

un ispettore che viene da fuori città, reduce da una cocente delusione

amorosa. Uno "foresto", per dirla come i locali. Tra comari pettegole,

bizzarri personaggi e, naturalmente, le immancabili abbuffate di

specialità tipiche locali, egli scoprirà l'abbraccio di una terra

accogliente…e forse anche l'assassino.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ago 2021
ISBN9791220350273
Il pranzo del pescatore

Correlato a Il pranzo del pescatore

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il pranzo del pescatore

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il pranzo del pescatore - Giulio Pascali

    ANTIPASTO

    Considerate il mare.

    Le sue onde, talvolta placide, talvolta tumultuose, tradiscono perfettamente la dualità dell'animo umano, la sua apparente serenità e le mille passioni che sotto la sua superficie si agitano, incontrollabili e smodate. In superficie, quelle stesse onde carezzano il piumaggio dei gabbiani e dei vari altri volatili che vi si adagiano per pescare, o forse solo per riposare le ali da un lungo volo. Sui fondali marini, invece, il pesce razzola lieto in branchi, mentre seppie e polpi forse trascorrono la giornata giocando a briscola, ignari e inconsapevoli dei piani che gli esseri umani intendono riservar loro (e che solitamente riguardano abbondanti aglio o cipolle, prezzemolo, pan grattato, sale e una pentola irrorata d'olio, magari anche accompagnati da una provvidenziale confezione di pastasciutta, da cuocere rigorosamente «al dente»).

    Chi non vive il mare nella sua quotidianità forse non riesce a comprendere quanto veramente esso impregni (e non è un termine usato a caso) la vita di chi vi si rapporta. Il mare, per chi vive sulla costa di questo nostro bel paese, è al tempo stesso vita ed è morte; è un miracolo ed è una dannazione.

    Gli abitanti della cittadina in cui è ambientata la storia che si racconterà, volenti o nolenti, hanno con il mare un rapporto continuo e instancabile. Per loro il mare è di volta in volta un amico, un datore di lavoro, un nemico giurato, un lieto abbraccio, una feroce frustata, insomma, qualcosa con cui non possono non rapportarsi. Esso permea le loro vite e le arricchisce o le depaupera, a seconda dell’occasione, in quella splendida dicotomia di dare e avere che costituisce l’esistenza.

    La nostra storia prende il via nella seconda metà del mese di Agosto, ed è ambientata nella cittadina di San Benedetto del Tronto, provincia di Ascoli Piceno, all’estremo confine sud della Regione Marche: pochi chilometri più sotto, l’Abruzzo fa capolino con le sue austere colline e i suoi saporiti arrosticini. In questo particolare periodo dell'anno, quando il tempo è clemente, il mare fa mostra del suo lato più gentile, «educato»: sin dalle prime ore del mattino, un feroce sole bastona le teste dei bagnanti, accorsi anche quest'anno in numero ragguardevole nonostante l'emergenza sanitaria, e li spinge a fiondarsi nelle acque marine, per cercare opportuno refrigerio. L'amministrazione locale incoraggia questo comportamento tramite incessanti avvisi sonori diffusi verso le 11.30 di mattino e le 17.30 di pomeriggio da una istituzione locale che si occupa di annunci riguardanti bambini scomparsi e pubblicità, la quale avverte con regolarità i bagnanti di non entrare in acqua subito dopo aver mangiato e dei divieti concernenti la balneazione, ivi incluso quello di tuffarsi dagli scogli e quello di superare il limite invalicabile delle acque sicure, rappresentato dalle boe in acqua a circa trenta metri dalla spiaggia. Ovviamente, ciò non fa che aumentare esponenzialmente la voglia dei bagnanti di superare tali imposti limiti e di raggiungere i filari di scogliera posti al largo, per stendervisi sopra a prendere il sole oppure (naturalmente) per tuffarsi dagli stessi nelle frescure marine. Date a un uomo un limite, magari legato a un tassativo divieto, ed egli farà di tutto per travalicarlo o aggirarlo in qualche modo: è la sua natura.

    Il mare, dal canto suo, si diceva poc'anzi, in Agosto fa davvero del suo meglio, per rendersi gradevole ai suoi fruitori: quasi ogni mattina si pulisce e si imbelletta per accogliere residenti e turisti nel fresco abbraccio delle sue onde. Il fondale sabbioso, ideale per grandi e piccini, fa il resto. La risposta dei turisti è, infatti, anche quest'anno di notevole entità: da tutta Italia, una gran quantità di gente si riversa nell'acqua e sulla prospiciente spiaggia, con somma letizia dei ristoratori, degli albergatori locali, dei bagnini e dei concessionari degli stabilimenti balneari (che qui, non si sa bene perché, si son sempre chiamati chalet, alla francese, quasi a voler richiamare arcinote blasonate riviere d'oltralpe, rispetto alle quali, tuttavia, nulla avrebbe da invidiare la buona vecchia «San Beach»). Le presenze sono numerose, sia in acqua che fuori, tra italiani di varia provenienza, e qualche «puntatina» oltreconfine: olandesi e russi, tra i partecipanti più curiosi. Prima ancora che aprano bocca, gli olandesi li potete facilmente individuare dal curioso vestiario (calzettoni anche in spiaggia) e dalle borse ripiene d'ogni più insolito companatico (solitamente con forte abbondanza di cipolla e salse), mentre i bagnanti russi li riconoscete a colpo d’occhio: sono quelli completamente bianchi di pelle che non si abbronzerebbero nemmeno se colpiti da un proiettile al napalm e che, quasi quale contraltare alla loro refrattarietà solare, ingombrano la propria lattea pelle di strani tatuaggi, ben diversi dai ghirigori tribali che vanno tanto di moda tra i nostri conterranei. Pattini, battelli e natanti gonfiabili di varie fogge affollano a vario titolo la superficie marina: quest'anno, accanto al tradizionale fenicottero rosa, al pescecane e all'alligatore, fan bella mostra di sé sull'arenile anche unicorni, mega-paperelle gialle, banane, fette di cocomero e pavoni, presi d’assedio da bambini di ogni età, nel giocoso rituale del bagno. Il distanziamento sociale imposto dai decreti governativi è garantito da ulteriori 20 centimetri tra un ombrellone e l’altro negli chalet, mentre a chi all’organizzazione di uno stabilimento balneario preferisce l’avventura sulla spiaggia libera è imposta tempestiva prenotazione, effettuabile tramite sito web e numero telefonico (il tutto, ovviamente, salvi conclamati affitti abusivi di spazi liberi e di ombrelloni, che come ogni anno sono periodicamente individuati e sanzionati dalle autorità).

    La movida notturna, pur limitata dalla prudenziale chiusura delle discoteche, prosegue incessante, tra stonati karaoke e musica dal vivo offerta nei ristorantini sulla costa e negli stessi chalet, ove acuti titolari offrono scenografica ristorazione e musica in riva al mare. La città brulica di ragazzi e adulti a passeggio. L'alcol scorre a fiumi, soprattutto tra i giovani, per l'indubbia gioia degli educatori locali, che tanto fanno per tenerveli lontani. Le biciclette affollano il centro città e, mascherine a parte, ben poco sembra rimasto del terrore dei primi mesi dell'anno; tra i visitatori della riviera c'è una generale voglia di lasciarsi alle spalle un periodo buio con mille schiamazzi e ricche tavole imbandite, e tutto sommato chi può dar loro torto?

    Poco dietro la zona costiera, sugli storici binari transitano vari treni mercantili e passeggeri, in una periodica cacofonia di frenate e passaggi di convogli a tutta velocità, a tutte le ore del giorno e della notte. Chi vive qui nemmeno ci fa più caso, chi ci viene in vacanza impara a filtrarne i rumori dopo pochi giorni, per spirito di autoconservazione notturna, oppure si dota di tappi per le orecchie.

    La «Riviera delle Palme», così battezzata dopo la scelta di abbattere quasi tutti gli alberi che la rinfrescavano e di sostituirli con palmizi ora oggetto di frequenti attenzioni da parte del noto flagello denominato «punteruolo rosso», in Agosto, canta e pulsa di vita.

    Più a sud, oltre il limitare delle spiagge agibili della città, sotto l'enorme sopraelevata ingombra delle lamiere delle automobili nel traffico locale e turistico, nella cosiddetta Zona Sentina, riserva naturale ormai da molti anni oggetto di tutela legale e faunistica, gabbiani, tortore e Cavalieri d'Italia affollano i canneti per trovare riparo dal solleone.

    Unica nota stonata dell'anno, e prima ahimè di una lunga e triste serie, è sicuramente rappresentata dal cadavere di un noto ristoratore, riverso bocconi nella Sentina, circondato di gusci di telline e vongole.

    Ma andiamo con ordine, perché in fondo l’antipasto è solo l’inizio di un pranzo che si rispetti…

    PRIMA PORTATA:

    ‘Mòscioli in umido’

    Tra i molti visitatori della Riviera delle Palme, come stringendo la visuale da un obiettivo grandangolare, chi avesse osservato nel giorno di Ferragosto la linea ferroviaria locale, avrebbe concentrato la propria attenzione su un particolare personaggio, giunto da Rieti dopo un estenuante numero di cambi di convoglio (tre in tutto, da un primo tratto in autobus a due cambi di treno, per un tragitto che in linea d'aria è di poco superiore ai 100 chilometri; un totale di cinque ore e 17 minuti, più un’ora di ritardo...forse troppo, se si considera che un qualsiasi mezzo su gomma, percorrendo la pur tortuosa Strada Statale 16 «Salaria» per circa 140 chilometri, ce ne mette poco più di due).

    Franco Rinaldi, ispettore di polizia, era un uomo di 38 anni, alto e di media corporatura, capelli castano chiaro, un lieve accenno di baffi e barba incolti, occhiali da vista resi necessari da una forte miopia sopraggiunta negli ultimi anni, a causa dell’intenso sforzo dinanzi a computer ed illeggibili rapporti cartacei dei suoi superiori. I suoi occhi, lievemente provati dal tortuoso viaggio e «di quel colore azzurro intenso del mare in tempesta», avrebbe detto Veronica, la sua ex, esaminavano distrattamente i cespugli che scorrevano monotoni lungo i binari della ferrovia. Era il nuovo ispettore locale, trasferito su sua stessa richiesta. Uomo di rigida educazione familiare, non fumava e beveva poco (e ovviamente mai in servizio), ma la sua passione per la letteratura classica e moderna e quella per gli enigmi irrisolti ne avevano fatto in fretta un valido elemento delle forze dell'ordine.

    L'ispettore Rinaldi giungeva a San Benedetto del Tronto nel torrido pomeriggio del 15 agosto, si diceva, munito di una leggera valigia, della propria divisa d'ordinanza, ben stirata e ripiegata su un porta-abiti, nonché di una bustina di carta acquistata a caro prezzo in stazione durante i cambi di treno, e contenente i rimasugli di un magro pranzo al sacco, consumato nella cocente poca intimità dello scompartimento di un regionale sprovvisto di aria condizionata. Detta bustina conteneva anche una copia dell’ultimo numero della ‘Settimana Enigmistica’, indispensabile compagna di ogni viaggiatore che si rispetti, già abbondantemente depauperata di tutti i rebus e dei giochi di ricerca di parole crociate senza schema, enigma preferito dell’ispettore. Egli vestiva in borghese, con uno smanicato tortora aperto sopra a una camicia bianca e un paio di pantaloni grigi. La gracchiante voce dell’interfono annunciò la stazione di San Benedetto del Tronto; pertanto, Rinaldi calzò un cappello di paglia a falda stretta con una fettuccia bianca intorno, unico vezzo estivo che si era concesso, e inforcò sopra ai suoi occhiali da vista le sovralenti da sole magnetiche, che aveva scelto del medesimo colore azzurro dei suoi occhi. In passato, l'insieme di questi elementi, conditi da un carattere spigliato e dalla sua parlata forbita, avevano sortito il desiderato effetto sul gentil sesso. Talvolta, tuttavia, l'insieme di queste sue caratteristiche gli aveva anche attirato l'incomprensibile fastidio del suo interlocutore (e questo, in fondo, poteva comunque tornare comodo per la sua professione).

    Ad attenderlo, sul marciapiede centrale della stazione, insieme al solito colorito coacervo di individui di varia umanità pronti ad abbordare la diligenza di passaggio nei cinque minuti di sosta previsti, lo attendeva il Dott. Gianni Spina, agente semplice: era questi un ragazzo di 24 anni, di media statura e corporatura lievemente abbondante, occhi marroni, capelli rossi e una lievissima barba incolta di egual colore, goffo e accaldato nella sua uniforme, ma nondimeno dignitosamente schierato per ricevere nel miglior modo possibile il proprio nuovo capo. Spina era l’unico figlio rimasto di una decaduta ricca famiglia locale, i cui antenati, che avevano potuto vantare persino il titolo di Marchesi, avevano generazioni addietro dilapidato ogni ricchezza in sconsiderati investimenti e debiti di ogni genere (tra i quali, degno di nota era quello relativo alla subitanea trasformazione dal giorno alla sera di un intero gregge di ventitré pecore in una abnorme, fumante grigliata, allo scopo di onorare in pompa magna il passaggio nella cittadina di un certo valoroso capitano garibaldino di rientro dalla campagna per l’unificazione d’Italia, che ironicamente non era però poi mai giunto in loco, a causa di una rovinosa caduta da cavallo in quel di Francavilla a Mare, provincia di Pescara, cosa che lo aveva convinto a fermarsi ivi per una scorpacciata di pesce, disdegnando il puzzolente arrosto dei Marchesi Spina). Di generazione in generazione, la famiglia Spina aveva visto il proprio potere e la propria notorietà precipitare in un gorgo di mondanità quasi inarrestabile, pertanto nessun mistero che il giovane erede del noto cognome avesse deciso di intraprendere una carriera nelle Forze dell’Ordine, per di più con discreto successo sin dalle sue prime fasi. Il ragazzo aveva fegato da vendere, ed era debitamente ossequioso delle formalità necessarie, qualità – quest’ultima – probabilmente retaggio della propria blasonata origine, ma senza dubbio funzionale al mestiere scelto. In questa particolare circostanza, l’ancora giovanile impazienza del suo carattere era tradita solo dal lento e ritmico ondeggiare del suo corpo tra il tacco e la punta dei mocassini, in attesa del treno.

    Rinaldi scese dalla carrozza e si asciugò la fronte madida di sudore con un fazzoletto di carta; quindi, sganciò l'elastico della mascherina chirurgica dall'orecchio sinistro per prendere la prima vera boccata d'aria da un'ora a quella parte. Nel caldo soffocante delle ore 14.36 del pomeriggio («più di un’ora di ritardo!», sbuffò l’ispettore), l’agente Spina, sganciata anch'egli la mascherina, gli si avvicinò, fece il saluto d'ordinanza, quindi cordialmente sorrise e disse: «Ben arrivato, Ispettore. Sono lieto di conoscerla finalmente di persona. Ha fatto un buon viaggio?».

    I due interlocutori avevano lungamente parlato al telefono nelle settimane precedenti a questo incontro, dunque in parte già si conoscevano, e Rinaldi trovò sin dal primo sguardo che molte delle proprie intuizioni circa l’aspetto e i modi del proprio sottoposto fossero esatte, congratulandosene con sé stesso.

    «Molte grazie, Dottor Spina, lietissimo anche io di vederla di persona», rispose, accennando un saluto militare, poi un po' goffamente aggiunse «Io, fosse per me, le stringerei volentieri anche la mano, ma non vorrei metterla a rischio: su questo treno è salito chiunque, nelle ultime ore…».

    Spina gli sorrise: «Non fatico a crederlo, Ispettore; anche se ormai ci si siede un posto su due, questi convogli rimangono comunque belli affollati…Facciamo una cosa: raggiungiamo l'auto, ci disinfettiamo le mani e magari poi ci salutiamo come si deve, che dice?».

    «Approvato» disse Rinaldi, accorgendosi solo allora, con un certo imbarazzo, che Spina si era nel frattempo già impadronito del suo bagaglio e lo stava guidando nell'angusto sottopasso della stazione, sino al parcheggio.

    Svolta la disinfezione e scambiato un più cordiale e asettico rituale di saluto, Spina chiese all’Ispettore: «Allora, dove la porto? Vuole prima sistemarsi in alloggio, o preferisce fare subito un giro sul lungomare? A quest’ora dovrebbe essersi alzato un po’ di vento, quindi magari due passi la potrebbero rinfrancare del lungo viaggio, se posso permettermi.».

    «La passeggiata la faccio volentieri, ma le chiederei la cortesia di farmi comunque prima giusto posare la valigia e rinfrescare due minuti in alloggio, se non le spiace» Disse Rinaldi, che intanto respirava a pieni polmoni l’aria condizionata gelida della FIAT Panda d’ordinanza, benedicendo ogni santo del creato.

    «Signorsì, Ispettore. Ha trovato alloggio dove le avevo suggerito, da Mìddio, giusto?».

    «Da chi? Ah, sì, il Signor Emidio...dovrò abituarmi: dalle mie parti, il cognome è ancora un qualcosa di inevitabile, nei rapporti con chi non si conosce.».

    «Oh, anche qui», gli disse Spina «Però...qui un po’ per estrazione sociale, un po’ per abitudine, un po’ per uso, alcune persone si fanno chiamare per nome, altre per cognome, altre ancora...beh, per qualifica, ecco...e a volte dipende dalle circostanze, non so se mi spiego».

    «Circostanze?» domandò Rinaldi.

    «Le faccio un esempio: se voglio una fetta di pizza bella unta e sugosa, non c’è posto migliore di ‘Geggé lu suzz’, sulla Statale, ma il proprietario non si chiama affatto Geggé, e se dovessi chiamarlo ‘lu suzz’, cioè ‘lo zozzone’, mi beccherei senza meno una palata sul mento, se non un malrovescio, ecco...».

    «Credo che avrò bisogno del suo aiuto sul punto, allora...», gli sorrise bonario l’ispettore.

    «Comandi!» scattò sull’attenti sorridendo Spina, innestando il motore.

    Pochi minuti dopo, dipanato in fretta il dedalo di stradine del centro, deserte a quell’ora del giorno, Spina parcheggiava sotto l’alloggio dell’Ispettore.

    «Ma...È il faro!» esclamò Rinaldi.

    «Eh, sì...mi perdonerà se ho chiesto a Mìddio di non dirglielo, volevo farle una sorpresa», sorrise Spina.

    Davanti a Rinaldi e Spina il vecchio faro di San Benedetto, ancora bianco sebbene un po’ scrostato, si ergeva fiero nel principiante meriggio, in cima al suo edificio di controllo di tre piani. Un piccolo giardino largamente incolto circondava l’edificio, mentre edera, verbena e minacciosi cartelli «Attenzione: Zona Militare – limite invalicabile, vietato l’accesso» ne costellavano il muro di cinta; sopra al muro, il filo spinato del quale sono dotati i fortini militari suggeriva ai civili di astenersi da ingressi non autorizzati.

    «Non me lo aspettavo...credo di non aver mai alloggiato in un faro, in vita mia...anzi, a dirla tutta, credo di non vedere un faro da un bel pezzo! Ma è ancora attivo?» chiese Rinaldi.

    «Nòne, oramai è solamente per fini turistici...co’ li radar è tutto ‘mmocco immediato per le barche, ora, non serve più che una luce li guidi in porto...però a noi vecchie glorie de Sambenedette, ci piace ancora vedere il mare illuminato...è rassicurante.».

    Chi aveva risposto era Emidio Guidotti, il padrone di casa, che si era silenziosamente avvicinato ai due poliziotti mentre spazzava l’ingresso di casa.

    Guidotti, per i locali semplicemente «Mìddio», era un uomo di settantasei anni, di media statura e portamento lievemente ingobbito, dalla fronte canuta e lievemente grinzosa e con lunghe e folte basette bianche; l’iride dei suoi immensi occhi verdi spiccava tra la bianca peluria dei suoi baffi, che arricchivano le sue gote facendolo quasi assomigliare – pensò subito Rinaldi, trattenendo un sorriso – a uno degli irriducibili galli dei fumetti belgi di Goscinny e Uderzo. Era il classico tipo di persona, rifletté l’Ispettore, che in un paese funge da calamita naturale per fatti ed avvenimenti locali...l’ideale informatore, insomma, per chi avesse in animo di conoscere lo stato d’animo generale, senza dover ricorrere alla stampa.

    «Buongiorno Signor Mìddio» si fece avanti Rinaldi, porgendo il gomito per il rituale nuovo modo di saluto affermatosi durante i mesi di quarantena.

    «Ih, solo Mìddio, per carità...E con me lasci pure stare quelle frescacce, Ispettore...ho più di settand’anni e sono angora uno scapolo d’oro...se non mi porta via chìsso virus, non credo lo farà mai nessuno», gli disse Mìddio, afferrandogli la mano destra ed impegnandola con forza in una di quelle strette dalle quali si capisce bene la tenacia di un carattere.

    «Sta bene, mi fa piacere che la pensi così...però faccia comunque attenzione, se non con me con gli altri, va bene?» sorrise Rinaldi.

    «Biih, stia pur tranquillo che come vedo uno di quei frèchi che gira qui intorno a portarmi lu virus, lo ramazzo io ben bene», rispose Mìddio, agitando il manico di scopa sopra la testa.

    «Si fidi, Ispettore, che Mìddio, quando mena, mena bene…» si intromise Spina.

    «Provati di nuovo a rubarmi la fellaccià dall’albero, come quella sera di dèci anni fa, e te la ripulisco a badilate, quella zucca vuota, ‘ssì capido?» gli fece di rimando, tra il beffardo ed il minaccioso, l’anziano Mìddio, poi, più serenamente, rivolgendosi all’Ispettore, disse «Allora, Dottore, venga che le faccio vedere l’appartamendo».

    Al secondo piano dell’edificio si trovava un appartamento di circa 60 metri quadri, composto di una camera da letto, una piccola cucina, un bagnetto con piatto doccia e persino un salottino ben arredato. Lo stile generale dei locali tradiva una evoluzione storica classica, tra cassapanche in legno scuro (forse ciliegio?) con vetri oscurati da sobrie tendine, un divano – anch’esso in legno, ma in questo caso di minor pregio – con cuscini foderati di un color bianco sbiadito, un vecchio televisore a tubo catodico, al quale era stato collegato un intrico di dispositivi di tecnologia usciti dagli anni ‘90...e in un angolo del salottino, persino una piccola radio. Il posto ideale per uno scapolo appena arrivato in città.

    «La cucina è a gas, spero che non abbia problemi con la cosa...il frigorifero forse è ’mmocco piccolino, ma vedrà che una settimana di spesa dentro ce la fa stare...dopotutto, lei è da solo, giusto?».

    La domanda aleggiò nell’aria forse per qualche secondo in più del dovuto, prima che l’ispettore rispondesse, con aria un po’ assorta «Sì...sì sono solo». Spina, che aveva intanto collocato la valigia dell’ispettore su una sedia nella stanza da letto, prese nota di non tornare sull’argomento, se non lo avesse fatto spontaneamente il diretto interessato, dimostrando così come piccole deformazioni professionali possano a volte tramutarsi in schiette attenzioni verso un altro essere umano.

    «Le lascio le chiavi qui sulla madia, Dottore, io finisco brevemente di pulir l’atrio e vado via. Se poi ha bisogno di me, il numero ce l’ha...comunque credo che faccia prima a far due passi e a darmi una voce dal vivo, che abito qui in cima al porto, in quella casa rossa di fronte al cantiere navale, ed esco di rado. Cacci un bell’urlo, e io arrivo.» disse Mìddio, accomiatandosi.

    «Grazie, Sig….grazie Mìddio, ben gentile. Dottor Spina, mi dia due minuti per rinfrescarmi e son tutto suo», disse l’ispettore, come riprendendo il filo interrotto della propria vita dopo una breve digressione tematica.

    «Signorsì! Mìddio, sendimbò...ma poi lì da te, c’è più quel bel fico grande, o lo hai tagliato?» Disse Spina, avviandosi già per le scale insieme all’arzillo anziano.

    «Come se non lo sapessi, scemo! Ti credi che il mese scorso non ti ci ho visto, lassù tra i rami, con la shposa tua, alle due di notte, a fùtterme li fellaccià, come li ‘bbrigandi? Ah, mannaggiatté, mica basta che ti metti la divisa, per farmi fesso eh!» gli rispose Mìddio, assestandogli un bonario scappellotto sulla nuca, impresa per la quale spiccò un insospettabilmente agile saltello, tra un gradino e l’altro.

    Rinaldi li osservò con la coda dell’occhio scendere le scale, poi, assicuratosi di essere solo, con fare quasi circospetto tirò fuori dalla tasca interna del suo smanicato grigio il suo telefono cellulare, un vecchio modello di qualche anno prima, «lento e affidabile», come usava dire. Aprì i messaggi...e inevitabilmente rilesse quella vecchia conversazione...non poi tanto vecchia, in effetti: risaliva a poco più di un paio di mesi prima. Quelle ultime parole schiette scambiate con Veronica. Quell’addio, per lui doverosamente freddo nei toni e al tempo stesso straziante nei contenuti. Quei successivi, numerosi ed incessanti messaggi inviati da lei, dapprima al ritmo di due, tre al giorno, poi con minor cadenza, ormai sempre più sporadici, ma che non avevano mai trovato risposta…

    «Basta», pensò tra sé «meglio lasciar perdere: nuovo paese, nuova vita, s’era detto, no?».

    Ripose il telefono, maneggiandolo con cura come se si trattasse di un minerale prezioso, quindi richiuse il taschino con l’apposito bottone e si avviò all’esplorazione del bagno della sua nuova casa. Pochi minuti più tardi, scendeva soddisfatto e rinfrescato le scale del palazzo, per ricongiungersi a Spina, che nel frattempo sembrava impegnato in una telefonata di carattere personale.

    «No, Titina, lì non ci si può ancora andare, lo sai: è chiuso...eh, che ne so? Sì, ma non è che sia così semplice, sai come sono queste cose...Titina, tesoro, devo andare che non voglio far aspettare l’Ispettore...beh, non credo che sia il caso...iih, va bene, va bene, non fare così...va beene, poi glielo chiedo...ciao, Tesoro, ciao, buono studio» concluse arrossendo, per poi scusarsi «Perdoni, Ispettore...ho pensato di approfittare dei due minuti per una telefonata alla mia compagna».

    «Si figuri, non deve scusarsi...ma quindi ho capito male, lei non è sposato?» chiese Rinaldi.

    «Sposato? No.…insomma, magari non ancora...Aah, ho capito, è per via di quel che ha detto Mìddio poco fa...no, guardi: qui la compagna alle volte viene chiamata ‘sposa’, ma non è detto che lo sia formalmente, ecco» si schermì Spina.

    «Ah, ho capito...beh, ne ho imparata un’altra, direi.» rispose l’ispettore, quindi disse «Bene, allora, questo tour...da dove cominciamo?».

    «Dunque, ispettore, io direi che andiamo a parcheggiare la macchina vicino all’area pedonale, e poi le faccio vedere un pezzo di lungomare a piedi, che oramai abbiam fatto quasi le 15.30. Non le ho ancora chiesto se ha pranzato, o se vuole qualcosa da bere, mi perdoni.».

    «Non ho appetito per ora, grazie; ho mangiato un panino, direi che fino a cena ci arrivo», rispose Rinaldi, «Certo, non direi di no ad un caffè».

    «Bene, allora salga a bordo, che se mi permette glielo offro ad uno chalet dove vado da una vita» propose Spina..

    Nella Panda che esponeva i colori della Polizia di Stato, i due costeggiarono dapprima un breve viale di scogli, che alle loro spalle culminava nei bracci del porto, quindi la curiosa statua di un pescatore dalle fattezze nordiche ed immediatamente appresso un verde giardino a cielo aperto, che portava i segni di una recente fattura, e sopra il quale qualcuno («Sicuro un artista di quelli moderni», ghignò tra i denti Spina) aveva avuto la simpatica pensata di collocare due giganteschi conigli verdi di plastica. L’agente parcheggiò quindi la vettura in uno dei posteggi sul ponte sovrastante il torrente Albula, davanti ad un colossale e strano monumento.

    «Lavorare, Lavorare, Lavorare, preferisco il rumore del mare...» lesse ad alta voce l’Ispettore, un po’ sorpreso, «Ma...Sbaglio, o la poesia di Dino Campana era lievemente diversa?».

    «Eh, Ispettore...quando fu messa su questa statua, oramai quasi vent’anni fa, non piacque proprio a tutti» strinse le spalle Spina.

    «Beh, in effetti, considerata l’operosità locale...e quello stile...mmmh, è una specie di Pop Art all’italiana...forse immotivatamente provocatoria, ma a suo modo artistica» disse l’Ispettore, rimirando l’enorme statua di quasi 7 metri composta essenzialmente della scritta recitata poc’anzi, sparsa in sei righe di diverse tonalità di azzurro, e da ultimo collocata in cima ad un immenso treppiede rosso.

    «Aspetti di vedere il resto…» sogghignò sardonico Spina.

    «Perché...ce ne sono delle altre?» strabuzzò gli occhi Rinaldi, sotto le sue lenti da sole azzurre.

    «Ah, no, non così monumentali...ma...beh, vedrà, vedrà...non voglio rovinarle la sorpresa...è roba messa su una ventina di anni fa, più per ragioni di turismo, credo...alla fine, brutta non è..diciamo che è particolare» rispose Spina, facendo strada verso il lungomare.

    I due poliziotti si avviarono, nelle prime ore dell’afoso pomeriggio, sotto l’ombra delle palme. Un vago odore di oleandri tradiva una non perfettissima potatura degli stessi, uniche altre piante presenti sulla riviera, oltre alle palme, ma tutto sommato aggiungeva al quadro estivo un certo qual fascino olfattivo.

    Rinaldi osservava in maniera assorta e silente il viavai dei turisti, e fu quasi travolto da un velocipede, mentre attraversava la pista ciclabile: lo salvò il provvidenziale intervento di Spina, che lo afferrò per un braccio e lo trasse dalla traiettoria di uno scalcagnato risciò guidato da tre adolescenti, che subito si perse all’orizzonte, scampanellandogli un derisorio saluto.

    L’ispettore si ricompose, quindi disse «Beh, c’è mancato poco, grazie Dottore...mi sa che ho proprio bisogno di quel caffè».

    «Ispettore, se posso...lasci stare il «Dottore», mi chiami solo Spina, come fanno tutti, ci son più abituato...pochi passi e ci facciamo un buon caffè», disse il suo compagno; si avviò poi con passo più svelto verso l’ingresso di un piccolo chalet sull’arenile e si affacciò dentro al cabinato del bar, dicendo «Anna, si può?».

    «Ma come no, Spinò, venite, venite dendro che m’esce l’aria condizionata!» gli rispose la signora dietro al bancone.

    Rinaldi entrò nel locale, ricavato da quelle che potevano sembrare le quattro pareti di una serra, e rivolse un cenno di saluto alla signora Anna, una persona che giudicò essere sulla settantina, minuta di corporatura, i capelli rossi in un taglio corto, qualche lieve ruga composta in un benevolo sorriso, quasi ad incorniciare due occhi di ghiaccio, specchio di esperienza e profonda sagacia.

    «Anna, ti presento l’ispettore Rinaldi. È arrivato poco fa», lo introdusse Spina.

    «Ooh, guarda come sì ‘fformale, in servizio, eh, Spinò? Molto piacere, ispettore! Benvenuto a Sambenedette» gli sorrise Anna.

    «Grazie Signora, piacere di conoscerla...finora devo dire che sto molto apprezzando la cordialità locale, spero proprio che continui così», disse l’ispettore.

    «Come stai, Anna?» chiese Spina.

    «Eh, dai, non c’è male, che ‘tte so dì?» rispose Anna, in quello che l’ispettore intuì essere un copione collaudato tra i due, poi disse «Che vi posso fare?».

    «Due caffè...per me macchiato...lei ispettore?» disse Spina.

    «Facciamo macchiato anche per me, così magari si raffredda un po’» si aggregò l’ispettore.

    «Dove l’hanno sistemata, dica un po’?» domandò affabile la bagnina, tra uno sbuffo e l’altro dell’attempata macchina per il caffè.

    «Oh, sono sotto al faro, il posto mi sembra buono» rispose Rinaldi.

    «Ah, certo...Mìddio si è finalmente deciso ad affittare quell’appartamento...saranno anni che se lo tiene lì sfitto...era anche ora! Ecco qua» commentò Anna, macchiando con un cartone di latte freddo i caffè fumanti appena fatti.

    «Grazie, Anna, se per te non è un problema, ci mettiamo qui fuori la verandina a prendere il sole» disse Spina, pagando i caffè.

    «Ma certo, Gianni, fai pure! Piuttosto, già che sei qui...se sa nulla de Roberto?» gli rispose Anna.

    «Eh, Anna, niente...ma anche se sapessi, lo sai, non te lo potrei dire fino a fine indagini, no?» disse Spina, toccandosi la narice sinistra con l’indice della mano.

    È vero, è vero...però so’ddispiaciuta per Roberto, la moglie poveretta è chiusa in casa da giorni» sospirò un po’ sovrappensiero Anna, correndo poi ad occuparsi di una masnada di ragazzini che si erano nel frattempo assiepati intorno alla macchina delle granite, vociando.

    Spina e Rinaldi si sedettero ad un tavolino, davanti all’ingresso dello chalet, all’ombra, e sorbirono il caffè, godendo d’una lieve brezza rinfrescante.

    «Di cosa parlava la signora Anna?» chiese Rinaldi, cui il primo sorso di caffè aveva istantaneamente riattivato le facoltà inquisitorie.

    «Beh, speravo di finire il giro panoramico prima di aggiornarla al riguardo, ma già che lo chiede…ecco…» cominciò Spina, poi, guardandosi intorno, giudicando il posto poco riservato proseguì «Dunque, per farla breve – e per non dir troppo su indagini in corso sulla pubblica piazza – due giorni fa abbiamo ritrovato un cadavere nella Sentina».

    «La Sentina?», chiese Rinaldi.

    «Sì, è la zona più a sud di San Benedetto, un po’ all’interno, dopo Porto d’Ascoli, sotto la sopraelevata che porta a Martinsicuro...è una riserva naturale. Una specie di palude dove vivono uccelletti di vario tipo…» spiegò Spina.

    «Capito...prosegua…» annuì Rinaldi.

    «Giovedì scorso, il 13, verso sera abbiamo ricevuto segnalazione da un contadino della presenza di un cadavere sulle sue terre, nella Zona Sentina...dagli accertamenti, è subito emerso essere il corpo di Roberto Straccia, ristoratore locale e titolare di uno chalet situato poco più avanti di dove siamo ora. È stata disposta l’autopsia per accertare la causa della morte, anche perché il cadavere era in un pantano da un pezzo, ed a faccia in giù per giunta: era molto gonfio...e le lascio immaginare il casino che ne han fatto gli animali selvatici» riferì Spina.

    L’ispettore sorrise nel notare il tono sussiegoso con il quale l’agente aveva riferito i fatti, quindi disse «Ovviamente fino a che non escono i risultati dell’autopsia, nulla più sappiamo, giusto? Aveva nemici, debiti? Qualcosa in sospeso?» chiese.

    «Da quanto so, l’indagine ancora non è stata del tutto aperta...comunque nulla, almeno per quanto sinora emerso. Roberto era un personaggio popolare e benvoluto. Lascia una moglie, che, come ha sentito, è molto provata dalla sua perdita, ma nessun figlio. Ovviamente, ora lo chalet è semi-chiuso, e la signora Straccia ha affidato la gestione degli ombrelloni ad un paio di ragazzetti di sua fiducia, almeno finché non si riprende. Sarei comunque sorpreso se uscisse fuori che non si sia trattato di un qualche incidente…» sospirò pensosamente Spina, raschiando con il cucchiaino lo zucchero sul fondo del proprio caffè.

    «Mah, guardi, Spina, non si può mai sapere...per esperienza, tutti nascondono almeno un segreto, grande o di poco conto che sia, quindi davvero non dia mai nulla per scontato, durante un’indagine, se posso permettermi» disse Rinaldi, pulendosi i baffetti con una salvietta monouso, quindi si alzò dalla sedia dicendo «Dia a me le tazze, che le porto dentro, così saluto la signora Anna.».

    «Lei si ambienterà bene, ispettore...si comporta già come un nativo Sambenedettese!» gli sorrise Spina, osservandolo poi prodursi nei rituali salamelecchi di commiato con la bagnina.

    I due poliziotti ripresero dunque la loro passeggiata, sino ad arrivare dinanzi allo chalet di titolarità del defunto Roberto Straccia. Una grande banda nera ricopriva l’ingresso del bar/ristorante, evidentemente chiuso, e qualche mazzo di fiori e lumino votivo era stato adagiato da parenti ed amici sulle finestre dei cabinati. Alle spalle della struttura, la vita dei turisti sull’arenile sembrava proseguire indisturbata, sia pure con velato imbarazzo tra gli adulti adagiati al sole.

    Sul lungomare, proprio dinanzi allo chalet, su di una panchina di legno pitturata di un color giallo sbiadito e scrostato, era sdraiato uno strano individuo, supino sulla seduta, la mano sinistra appoggiata sullo schienale, quasi vi fosse aggrappato. Avvicinandosi con curiosità, l’ispettore avvertì un tremendo odore di alcol. L’individuo era ubriaco perso, già di primo pomeriggio. Vestiva una maglietta bianca a strisce blu, consunta e macchiata in più parti, ed un paio di calzoncini color kaki, anch’essi evidentemente utilizzati per molti anni e, dunque, irrimediabilmente lisi. Un cappello floscio a falda irregolare, color fango, gli copriva il volto. Sembrava dormire...o essere svenuto a seguito di una sbronza.

    Spina si avvicinò e scosse con garbo la spalla dell’uomo. «Mario, su alzati...vai a casa, che non puoi rimanere qui, lo sai...sei ridotto uno straccio...mamma mia, quanto puzzi!» gli disse, coprendosi il naso con la mano destra.

    «Era ‘n’amico mio caro! Ie volevo bene, capisci, Spinò? Bene! Siamo cresciuti assieme...cinquant’anni tutte le mattine a prendere il caffè…» piagnucolò l’individuo, stropicciandosi gli occhi con un’espressione stralunata e profondamente triste. Il cappello cadde in terra, rivelando un viso tondo e rubizzo, dominato da un naso paonazzo rigato da vene viola. Capelli bianchi lisci con una forte stempiatura coronavano il viso, la barba incolta, anch’essa bianca, sembrava paradossalmente ringiovanirlo, rispetto ad un’età che l’ispettore giudicò avanzata, di sicuro oltre i settant’anni. Le vene affioravano anche negli occhi del disperato, facendo da curioso contrasto ad un’iride azzurro cielo, simile a quello dell’ispettore. Mario piangeva, singhiozzava e si strofinava gli occhi. Alle sue spalle, l’ispettore intravide una bottiglia di vino rosso, infranta sul marciapiede, i vetri verdi sparsi sino all’ingresso dello chalet.

    «Lo so che ci tenevi, Mario. Però sono pure sicuro che a Roberto non gli sarebbe piaciuto vederti così…su, vai a casa...» disse, conciliante, Spina.

    Mario raccolse da terra il cappello e se lo calzò fino quasi a coprirsi gli occhi, quindi si alzò in piedi, più sconsolato che confortato, e si avviò barcollando a zig-zag lungo il marciapiede. Inciampò una prima volta e si tenne in piedi abbracciando il fusto di una palma. Si rialzò, ringraziò la palma toccandosi il cappello, quindi riprese la propria sgangherata marcia, inciampando in una ringhiera di ferro e rovinando stavolta addosso ad un’altra panchina. I suoi riflessi, pur appannati, lo salvarono da una sonora testata, sicché, aggrappandosi allo schienale della panchina, egli sostò qualche istante, prima di riavviarsi nuovamente, sempre in maniera scomposta, verso il lungomare sud.

    «Quello era Mariò, ispettore...Mario Gaspari. È un vecchio marinaio, ed era molto amico del Signor Straccia. Ha preso molto male la morte dell’amico, e se prima già beveva parecchio...beh, posso immaginare quanto beva ora. È già tre volte che lo trovo qui davanti, ubriaco lercio. Credo avesse l’abitudine di passare ogni mattina a trovare Roberto, ed ora venga qui tutti i giorni con una bottiglia di vino.» disse, scuotendo la testa, Spina.

    «Mi sembra un povero diavolo...capisco bene che gli manchi l’amico...speriamo però che reagisca, perché altrimenti più che l’arresto direi che rischia la vita, ad andare in giro in quelle condizioni...Mi dica però qualcosa di più su questo Signor Straccia», chiese Rinaldi, osservando attraverso le finestre chiuse del locale i curiosi e variopinti interni dello stesso.

    «Roberto era il tipico Sambenedettese, ispettore: una persona affabile e cordiale, forse anche un po’ matto, ma di quella pazzia benevola che si perdona volentieri, e che al più ti fa fare qualche risata.». Qui Spina tirò fuori dal taschino della giacca un taccuino e prese a leggere qualche appunto, evidentemente preso nei giorni precedenti: «I genitori erano originari di Stella di Monsampolo, ma lui ha vissuto a San Benedetto negli ultimi quasi 50 anni...ne aveva 58, e ne avrebbe compiuti 59 tra qualche settimana. Aveva rilevato lo chalet una trentina di anni fa, un po’ per gioco, impegnando la vecchia casa di famiglia, alla morte dei suoi...beh, ispettore, tra la sua fantasia e la bravura della moglie in cucina, ha estinto l’ipoteca in meno di dieci anni. Era bravo e ben voluto...e sarà davvero un peccato, se la moglie Egle non deciderà di continuare l’attività nella ristorazione», concluse, richiudendo il taccuino.

    «Nessuno scandalo con la moglie?» chiese Rinaldi, alzando il sopracciglio destro, smorfia che gli riusciva oramai automatica, quando faceva domande di un certo tipo.

    «No, assolutamente, ispettore: Egle ha qualche anno in meno del marito, è vero, ma erano una delle coppie più affiatate che abbia mai visto...credo di non averli mai visti litigare od alzare la voce l’un con l’altro…» rispose Spina.

    «Beh, direi che finché non è conclusa l’autopsia, è inutile insistere troppo, anche perché…» chiosò l’ispettore, interrompendosi tuttavia di colpo e girando su sé stesso di scatto, facendo perno sul tacco delle proprie scarpe ed esclamando «Mi scusi, lei...desidera?» all’indirizzo della persona dietro di lui.

    La corpulenta e rubiconda signora sulla cinquantina, dai capelli castani in parte ingrigiti, con le labbra carnose ed un paio di ridicoli occhialoni da sole dalle lenti gigantesche e bordate di dozzinali brillantini, che si era avvicinata di soppiatto alle spalle dei due poliziotti per origliare la conversazione, arrossì violentemente e indietreggiò balbettando «No, ehm, io...cioè...Spina, io non è che...insomma, sa...la curiosità…» all’indirizzo più di Spina che dell’ispettore, che quasi non osava guardare in volto.

    «Selma, essù, vieni via, che ti sei già resa ridicola!» la redarguì da qualche metro di distanza un omino minuto, calvo e grinzoso, dai grandi occhi neri e con delle sopracciglia grigie e pronunciate, il cui volto portava i chiari segni di pluriennali vessazioni coniugali.

    La signora Selma arretrò ancora di qualche passo sotto lo sguardo sbigottito e severo dell’ispettore, quindi quasi tentò di nascondersi dietro ad una palma, operazione evidentemente impossibile, data la sua stazza. Il marito si fece avanti e porse all’ispettore il gomito, presentandosi «Perdoni mia moglie Anselma...sono Federico Liberati, ma qui in paese mi conoscono tutti come Fred...non ho il piacere di conoscerla».

    «Buon pomeriggio...Franco Rinaldi, ispettore», rispose al saluto Rinaldi.

    «Santa pace, Selma, stavolta la sì ‘ffatta grossa, eh! Guarda che poi l’ispettore ti multa per pettegolezzo molesto...», sghignazzò il nanerottolo, quasi gongolando; poi, come pentendosi di ciò che aveva detto, la andò a prelevare da dietro alla palma dove ella tentava ancora (sempre inutilmente) di nascondersi e la trascinò (opera, anche questa, davvero titanica!) di nuovo dinanzi all’ispettore, e disse «Dai, su...vedi di scusarti, che sennò davvero ci arrestano a tutti e due».

    L’ispettore – che in cuor suo s’era ormai fatto un’idea della coppia, classificandoli come «innocui pettegoli» – sorrise mentre la signora Anselma si profondeva balbettando in mille scuse e giuramenti di miglior comportamento, quindi bonariamente disse «Va bene, va bene...non fa nulla, però Signora mi raccomando, eh, che la tengo d’occhio!».

    La signora Selma si distese un poco, quindi, come se i due poliziotti non fossero più un problema e anzi nemmeno fossero più presenti, recuperata la sua sicumera e cambiato improvvisamente registro lessicale, si rivolse al marito con toni bruschi: «Freddy, che figura m’hai fatto fare, l’ispettore penserà che sia una povera cretina...hai visto? Che ti dicevo? La faccenda di Straccia è seria, sennò non ci sarebbe venuto l’ispettore, allo chalet, a controllare la situazione!».

    «Veramente siamo qui per caso» intervenne Spina «Stavamo prendendo un caffè e facendo due passi, l’ispettore è appena arrivato».

    «Aah, ma che mi dice!» si illuminò Selma, come folgorata da una meravigliosa intuizione «Allora deve venire a trovarci appena riapre il ristorantino dello chalet – perché riapre, vero, Spina? – che voglio sapere tutto di lei!» esclamò.

    «Beh, Signora, vediamo...non so dirle quando qui riaprirà…» tentennò l’ispettore, con palpabile imbarazzo.

    «Allora è deciso, verrà a trovarci!» sentenziò il donnone, poi si rivolse al marito e disse: «Freddy, brutto cretino, muoviti, che qui stiamo facendo perder tempo all’ispettore...Forza, su! Di corsa all’ombrellone!» e si avviò di gran carriera verso i cabinati senza nemmeno un gesto di saluto, facendo quasi tremare la terra sotto l’impeto dei suoi grossi passi.

    «Con permesso, scusate ancora ispettore...Spina…» salutò brevemente Freddy, lanciandosi poi in una corsa a perdifiato sul marciapiede per accorrere a sostenere la moglie, che dopo qualche passo già barcollava pericolosamente sulla sabbia della spiaggia.

    «Bene, quelli erano i coniugi Liberati» sospirò Spina.

    «Mai vista una coppia più strana!» commentò l’ispettore, che ancora seguiva con occhio beffardo la strana coppia allontanarsi sull’arenile, la Signora Selma eretta e tronfia nel proprio portamento elefantiaco ed il piccolo Freddy, provato ed ingobbito, che le trotterellava appresso come un cagnolino, «Ho idea che anche loro facciano parte del comitato locale di quelli che sanno tutto prima degli altri, sbaglio?» disse quindi a spina, ammiccando sotto le lenti azzurre.

    «Eh, ha ragione...tra loro, Mìddio e le gemelle Frangipane…» sospirò nuovamente Spina.

    «Non conosco queste ultime, ma da come ne parla ho già i brividi» sorrise l’ispettore, poi concluse «Beh, credo che abbiamo dato abbastanza spettacolo sul lungomare, per oggi...che ne dice di portarmi in caserma, così mi presento al Commissario?».

    «Signorsì. Venga, torniamo alla macchina» fece strada Spina.

    Un altro breve viaggio in automobile per le stradine della città portò i due agenti sino al locale Commissariato in via Francesco Crispi, una elegante palazzina in mattoni di tre piani, il cui ingresso principale si componeva di una scalinata tra due globi luminosi e sopra la cui porta d’accesso trionfava un balconcino con le bandiere della repubblica e dell’unione europea. Particolare curioso, che denotava la probabile appartenenza dell’edificio all’edilizia dei tardi anni ‘60/’70, le due grandi finestre al piano terra erano bifore ogivali, mentre al secondo ed al terzo piano esse tornavano ad essere di una più moderna forma rettangolare.

    Rinaldi si presentò verso le ore 16.45 nell’anticamera dell’ufficio del Commissario Scartozzi, il quale dopo pochi minuti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1