Terre nuove
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«Mi travolse un’onda di calore che non aveva luogo e che aumentava a misura della sua furia, a misura del mio appartenergli tutto, a misura della mia coscienza e del suo scorrere dentro di me, che sentivo sempre più impetuoso. Nel suo accasciarsi abbandonato, mordevo la polvere e singhiozzavo. Ma furono le sue lacrime calde sulla mia schiena che me lo fecero amare».
Ambientato nell’Ottocento, questo racconto erotico scandaglia l’animo e le emozioni di chi è pronto ad accogliere l’altro donandosi completamente.
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Anteprima del libro
Terre nuove - Roberto Russo
Terre nuove
Roberto Russo
¡Mi amado, las montañas,
los valles solitarios nemorosos,
las ínsulas extrañas,
los ríos sonorosos,
el silbo de los aires amorosos;
la noche sosegada,
en par de los levantes de la aurora,
la música callada,
la soledad sonora,
la cena que recrea y enamora;
nuestro lecho florido,
de cuevas de leones enlazado,
en púrpura tendido,
de paz edificado,
de mil escudos de oro coronado!
(JUAN DE LA CRUZ, Cántico espiritual)
La campana della chiesa ha suonato già il tocco e sento da lontano gli spari a festa che salutano il nuovo secolo: l’ultimo di questo millennio. Non ne vedrò la fine e, sinceramente, non lo vorrei neppure. Già il mio secolo è stato segnato dalle più grandi rivoluzioni e si è alimentato di speranze di incredibili cambiamenti, forse troppi per la vita di un uomo, e mi sembra che le grandi certezze nel progresso e nella libertà stiano anch’esse scemando come il secolo morente e come la mia vita che ormai volge alla fine.
Il Novecento, con i suoi nuovi balocchi non m’interessa affatto, la mia curiosità è ridotta al lume come la mia debole vista e come le mie membra di sopravvissuto.
Ho sparso in giro per il vasto mondo una prole numerosa e altera, una progenie che non riconosco più, con denti aguzzi e nobili unghie per afferrare la vita. Di quando in quando me li rivedo attorno tutti insieme a festeggiare questo grande avo e sono così nobili e fieri che riesco a ritrovare in loro una flebile traccia di mio padre e della mia giovinezza, ma non ricordo più tutti i loro nomi e gli intrecci e i rami per cui mi sono nipoti e bisnipoti.
Flora ci riusciva ancora, quand’era con me nella nostra vecchia casa, e teneva a riempirla di tutta la progenie, quasi a mostrarmela e a mostrarsela, come un grande albero della vita, e gentilmente mi ripeteva la storia per cui il frugoletto biondo che mi ruzzava tra i piedi intimidito mi era bisnipote.
Rammentava tutto, lei: i nomi, gli accidenti, i vari accadimenti che le lettere dei figli e dei nipoti ci portavano nella grande casa, come spoglie di una terribile tempesta che la risacca accompagni dolcemente sulla spiaggia.
E vivevamo ormai di questa vita remota, tra l’ossequio dei vecchi servi e la frugalità della vecchiaia. Ed era grande festa per Flora aspettare il Natale e il Capodanno, vedere la casa riempirsi di luce e di camini accesi, e i grandi teli bianchi togliersi dalle poltrone e dai divani ridondanti, e, infine, il panno verde del biliardo ripiegarsi. E giovani serve e cuoche invadere la casa di opere tranquillamente frenetiche, le finestre aprirsi alla fredda luce dell’inverno e le coperte uscire dai cassettoni, la dispensa riempirsi di galline e il solare profumo di ginepro, l’allegro rosmarino invadere di promesse anche la cera del salone.
Era un rito benaugurante il mio ritrarmi burbero nella biblioteca di vecchia quercia e cuoio, con la giacca da camera cremisi, nell’attesa che lo scalpiccìo delle carrozze, il suono dei vetturali mi dessero il segnale che la grande cerimonia stesse lì lì per iniziare, dandomi il tempo di comporre il viso, lasciato il libro amato, alla dignitosa sovranità della mia casa e della mia canizie, cui era rivolto l’ultimo omaggio, e il primo, della stirpe orgogliosa.
Ch’io non andavo alla porta, non già, incontro ai vecchi figli