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Amore amaro e altri racconti
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E-book275 pagine4 ore

Amore amaro e altri racconti

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Info su questo ebook

Storie di vite e amori, di piccoli paesini, leggende e intrighi; storie di miseria e riscatto: in questa raccolta di racconti, l’autrice mette in luce i problemi e gli ostacoli che una donna – e che in realtà sono tante donne – deve affrontare nel corso della propria esistenza, ma anche il coraggio che è in grado di tirare fuori di fronte alle difficoltà, e la forza per non soccombere, per non lasciarsi sopraffare anche quando sembra non esserci per lei alcun posto nel mondo.

Elvira Vitale nasce a Torano Castello (CS). Laureata al Magistero di Salerno in Lettere Moderne con indirizzo classico, ha insegnato in vari licei di Cuneo e provincia per dodici anni. 
Trasferitasi in Calabria, al suo paese, ha insegnato al Liceo Scientifico di Bisignano. Attualmente è in pensione e si dedica alle sue amate letture e alla sua passione letteraria.
Ha trasferito sulla carta tutto ciò che la memoria ha gelosamente conservato.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830674295
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    Anteprima del libro

    Amore amaro e altri racconti - Elvira Vitale

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Prefazione

    L’autrice racconta storie di donne, colte nella loro quotidianità, con i loro problemi, le piccole gioie o anche le rinunce, l’incapacità di trovare un loro spazio o una stanza tutta per sé; ma anche di donne coraggiose che trovano il riscatto nella cultura, nella capacità di vivere in libertà, senza pregiudizi o condizionamenti, nella quiete interiore, anche se con qualche rimorso, per i dormienti che lasciano dietro. Piccoli quadretti ritratti con gusto impressionistico, con rapide notazioni che colgono un particolare, un sogno evanescente, una vita nel deserto, uno spazio vuoto, in cui cresce solamente un cactus con un bel fiore rosso vivo. Bisogna avere il coraggio di lasciare il deserto.

    Al chiarore della lucerna

    Non so come cominciare a narrare i fatti che ho sentito raccontare dalla nonna che, pur contadina, sapeva leggere e scrivere. Mentre fuori il gelo invernale formava i ghiaccioli che pendevano dai coppi, o mentre la pioggia scendeva dalla parte alta del paese, il Castello, e formava un piccolo ruscello, e la sera scendeva pian piano a coprire le case e i vicoli, grandi e piccini sedavamo intorno al fuoco su sgabelli e piccole sedie, a sentire le storie di principesse addormentate, di streghe e di orchi, o della fanciulla che doveva consumare sette paia di scarpe, o riempire sette fiaschi di lacrime, prima di trovare il serpente che ogni notte si trasformava in un bellissimo principe e giaceva con lei in un letto di piume. Ma la sua curiosità l’aveva tradita: una notte, alla luce della lucerna aveva voluto vedere quel volto, che aveva imparato ad accarezzare e amare, e una goccia d’olio bollente aveva destato il giovane dormiente che l’aveva rimproverata della sua disubbidienza, ed era scomparso ai suoi occhi. Ma tanti altri fatti ho visto accadere davanti ai miei occhi. Tanti sono poi i ricordi affastellati nella mia memoria che devo fare uno sforzo per metterli in ordine, ma forse è meglio far raccontare ai vari protagonisti, anche se neppure loro sono molto attendibili, visto che non esiste una sola verità, ma tante a seconda delle idee o impressioni che ci facciamo intorno a una realtà, perciò ci dobbiamo accontentare di come i fatti vengono narrati, e accettarli per veri, ma su questo punto torneremo ancora a discutere.

    - Parte I -

    Capitolo I

    Non mi è mai piaciuto il mio nome, Maddalena, non c’era nessuna nel parentado che si chiamasse con quel nome, chissà come era venuto in mente a mio padre. Non mi piaceva al punto che, quando è nata la mia prima nipote, non ho voluto che venisse registrata con il mio nome, ma che il padre scegliesse liberamente, e così la chiamarono Catia, in ricordo di qualche Catiuscia che aveva aiutato mio figlio a ritornare in Patria durante la ritirata dell’armir. Nemmeno quel nome mi piaceva, ma non dissi niente per non urtare la sensibilità di mio figlio.

    La mia famiglia era numerosa, cinque figli maschi e tre ragazze, a cui bisognava fare la dote. Io ero la seconda delle donne e la settima della fila. I ragazzi a uno a uno cominciarono a partire per l’America.

    Il primo a partire fu mio fratello Adolfo, aveva solo diciotto anni, e ritornò in paese quando ne ebbe sessanta, che ci venne a trovare insieme al figlio maggiore, alla nuora e ai due nipotini, Teresa e Roberto. Fu una festa grande. Ogni giorno era un viavai di parenti, amici, compari che volevano salutare il paesano, che aveva fatto fortuna in America, che da lavapiatti in un ristorante era diventato col tempo padrone. Si era sposato tardi, perché prima doveva pensare alla dote delle sorelle. Ogni mese ci mandava i soldi da mettere da parte, e scriveva che appena fatto un bel gruzzolo sarebbe ritornato in paese. Non voleva morire lontano, perché troppo era la nostalgia del paese, dei genitori e dei fratelli. Ma poi partirono anche gli altri fratelli e Adolfo fu impegnato ad aiutarli a sistemarsi. Intanto gli anni passavano, lavorando in campagna e soffrendo per le annate scarse. A Natale mandavamo i pacchi con i fichi secchi, le olive schiacciate e le olive nere passate al forno, il pecorino, i semi di finocchio selvatico e quelli di anice per fare i taralli. Mandavamo quello che potevamo, attenti a non superare il peso dei chili previsti. Anche loro mandavano i pacchi in Italia: c’era un po’ di tutto, dai grembiuli di cucina agli strofinacci. Mia cognata Rosalia, la moglie del secondo fratello, che era una siciliana di Catania, ci mandava anche i pizzi per orlare le lenzuola, e pizzi più stretti per le camicie da notte e le sottovesti. Una volta dalla comare Lina ci arrivò un pacco con una bambola bella, grossa che sembrava una bambina vera, che quando mia nipote Catia l’ebbe tra le mani non la lasciò più, era sua, così diceva la lettera che accompagnava il pacco: per la piccola Catiuscia che noi ricordiamo sempre. Da grande Catia, quando si laureò, andò come premio in America a trovare i parenti e la famiglia della comare Lina, e fece il giro di tutti i paesani e quando tornò disse che vivevano come se fossero stati in paese: le stesse usanze, le stesse credenze e anche la lingua era quella di un tempo, un dialetto con termini che noi non usavamo più, non si erano integrati per niente nel nuovo contesto sociale, soprattutto la prima generazione, i giovani con fatica cercavano di assimilare le nuove abitudini.

    Noi rimanemmo in paese, a raccontare i fatti dell’uno e dell’altro. Specie d’inverno quando pioveva per settimane intere e non si poteva andare in campagna e il buio scendeva presto sulle case insieme a una densa nebbia che avvolgeva l’animo già amaro per i tanti pensieri che stipavano la mente degli adulti. Il raccolto che poteva andare a male con tutta quella pioggia, o la dote da mettere insieme per le figlie femmine, o la vicina fastidiosa, che abbisognava di qualche lisciata, poiché spostava i pali del confine e sembrava che la terra venisse rosicchiata dai topi, e prima o poi era necessario un lisciabussa. E una sera corse voce che Fidora la Longa, mentre tornava in paese dalla Matina, la terra del piano, che si trovava al termine di una ripida discesa, era caduta della viottola ed era precipitata nella scarpata. Si era talmente rovinata le costole e rotto il naso che l’avevano accompagnata in ospedale a Cosenza. Ma la sera tardi, alla cantina, gli uomini raccontavano, davanti a un quarto di vino e a un piatto di rosamarina, che Fidora aveva avuto il giusto, e che era meglio tenere la bocca chiusa se non voleva rotta i garretti. Quando tornò dall’ospedale, i pochi che andarono a trovarla raccontarono che aveva il viso viola come una melanzana matura, e gli occhi gonfi che non si vedevano, tanto le palpebre erano scese. I pali del confine però restarono per molti anni al loro posto, fino a quando mio figlio non comprò anche il terreno di Pantalia e aggiunse terra a terra.

    Quelli che rimasero in paese, che non partirono per le Americhe si aggiustarono come meglio poterono. Partirono poi i figli negli anni Sessanta e il paese a un certo punto sembrò deserto: le case vuote, le finestre sbarrate, i muri cadenti, le erbacce e i rovi negli orti e sui muri, muti i borghi e i vicoli: non più frotte di mocciosi sotto l’arco che giocavano e non facevano dormire Giustino, che ogni tanto tornava da New York, giusto il tempo di ingravidare la moglie e partirsene contento. Solo vecchi seduti al sole ad asciugare le ossa storte dai dolori.

    Il tempo scorreva lento, le giornate sempre uguali e mi ritrovai grande: avevo l’età giusta per sposarmi. Non era facile scegliere fra i tanti che mi ronzavano intorno. Certamente non volevo un morto di fame, né sfiancarmi a lavorare per i padroni, come facevano le altre donne del vicinato o del paese, che invecchiavano prima del tempo. Poi io avevo la dote, le casse erano piene di lenzuola, coperte di seta, camicie da notte, tovagliati, tutto di lino ricamato e di tela ricavata dalle fibre della ginestra. Mia madre non aveva badato a spese, con i soldi di mio fratello Adolfo. Ogni tanto mi scriveva che se volevo andare in America mi avrebbe pagato il biglietto e il marito era già pronto, bravo e lavoratore. Ma io ormai avevo adocchiato Dolfo, che aveva i baffetti biondi e gli occhi verdi; e quando andavo a Turbolo a lavare i panni con mia sorella Erminia, me lo trovavo dietro e mi lanciava un saluto e i suoi occhi avevano le pagliuzze d’oro. Anche lui era stato in Argentina, ma era scappato nottetempo per aver accoltellato un siciliano in una rissa, e aveva fatto la Grande Guerra ed era pronto per mettere su famiglia.

    Faceva il carrettiere, e mi faceva rabbia quando tornava da qualche suo viaggio dalla stazione dei treni con sopra il carro una donna a cui aveva dato un passaggio. Che male c’era a fare del bene a tante poverette che avevano il marito lontano. Lui si prestava ad aggiustare la tegola del tetto rotto, il muro della stalla, a fare piccoli lavori, e a notte inoltrata si vedeva un’ombra uscire dalla casa di Cristina o di Milia, che camminava rasente i muri, i passi guidati dalla luce lunare, quando la luna era alta nel cielo e illuminava d’argento il pendio della Livita, i cui ulivi, quando il vento fischiava forte, sussurravano un lamento che metteva tristezza. Erano in tanti a venirmi dietro, a corteggiarmi con le serenate notturne, al suono di chitarre e mandolini. Qualche volta mio padre faceva finta di non sentire nel cuore della notte gli stornelli d’amore tradito, di desiderio represso, di gelosia stipata. Altre volte prendeva lo schioppo e sparava in aria qualche colpo, e verso il vicolo qualche imprecazione e bestemmia, io zitta nel mio letto lamentavo la maleducazione di mio padre. Forse un giorno sarebbero venuti tempi nuovi che avrebbero spazzato un piccolo mondo antico, ma dovevo ancora aspettare quasi più di quarant’anni, e che comunque non riguardavano più la mia giovinezza ormai trascorsa, semmai erano i tempi della mia nipote maggiore.

    E comunque, a me non piaceva nessuno, tranne il biondino con gli occhi verdi che era figlio di massaro Lisandro, con un po’ di terra buona alle Destre e un paio di buoi attaccati al carro. Il partito piaceva anche alla mia famiglia. E così il Natale del 1919 venne a casa, accompagnato dal cognato a parlare a mio padre, il quale gli chiese due anni di tempo.

    Decidemmo di sposarci nell’aprile del 1921. A luglio doveva sposare mia sorella Erminia con Gustavo di Mastrangelo, che era rimasto vedovo con tre figli: la moglie era morta durante la Spagnola. Era un buon partito con terre in abbondanza alle Pianette, a fichi e a ulivi, e una casa comoda. Non voleva la dote se non il corredo personale, per il resto c’erano le casse piene della prima moglie. E poi Erminia non era tanto giusta con la testa: l’aveva sempre tra le nuvole e diceva che parlava con i morti. Raccontava che una notte, mentre tutti dormivano, lei non riusciva a prendere sonno e in silenzio si era alzata dal letto, si era affacciata dalla finestra che dava sulla strada, dove c’era comare Vennera che le faceva cenno con la mano di scendere e seguirla. Aveva alzato il paletto della porta, l’aveva accostata piano ed era scesa in strada. Non c’era nessuno, ma poi decise di continuare per la discesa al cui termine c’era la chiesa Madre. La porta della chiesa era aperta e l’interno illuminato. Tante persone in piedi assistevano alla Messa che un sacerdote celebrava sull’altare maggiore. Una donna presente, che, dalla descrizione che ne fece Erminia, era una comare di San Giovanni, morta tanti anni prima, le disse di andare via che quella era la messa dei morti e lei non doveva starci. La mattina dopo, appena giorno, corse voce che comare Vennera era morta dissanguata durante la notte. Perciò furono tutti contenti di sposare Erminia a quel vedovo e nessuno disse niente. Ma poi si dimostrò una brava madre per gli orfani e per i suoi tre figli che nacquero a distanza di diciotto mesi l’uno dall’altro, e marito e moglie andavano d’accordo e lavoravano insieme per aumentare le terre che compravano al sole, e non parlò più di morti.

    E venne il mio turno. Mi sposai durante una domenica di aprile del 1921.

    Quella mattina pioveva, si dice che sposa bagnata sposa fortunata; non fu così.

    L’unico fatto bello della mia vita fu la nascita del mio bambino. Nacque il 21 gennaio del 1922, alle tre del mattino dopo un travaglio che durò un giorno intero e metà nottata, e volli chiamarlo come mio padre, Roberto, e anche se non portava il suo cognome, mi auguravo che venisse forte e sicuro come il nonno.

    Mio marito continuò a fare il carrettiere, a portare sul carro le comari, ed era allegro e bugiardo, ma io l’amavo e perdonai quel suo non far niente, mentre io lavoravo le terre che avevamo preso in affitto dai padroni, i don del paese, che facevano il bello e cattivo tempo con noi disgraziati, e le mogli andavano a Napoli due o tre volte l’anno a comprare le stoffe per farsi cucire i vestiti e i mantelli con la pelliccia che poi sfoggiavano in chiesa a Natale o a Pasqua. E la signora Clementina andava ogni quindici giorni a casa a lavare i capelli delle signore e ad acconciarli con i bigodini e giurava che non avrebbe detto a nessuno i fatti che venivano raccontati tra una piega e l’altra. Mi dicevano che avevo un brutto carattere, che ero sempre rannuvolata, sempre arrabbiata. Forse era vero; ma io volevo una vita diversa, volevo una casa comoda, più grande, con bei mobili, armadi pieni di canapa, cotone e lino, credenze piene di formaggi, olio, vino, e ogni ben di Dio, non volevo risparmiare anche sul centesimo. Ero terrorizzata dalla mancanza di soldi, e se succedeva qualcosa di imprevisto? E se fossi rimasta vedova, potevo precipitare nella povertà assoluta; chi mi avrebbe dato una mano? Gli altri non stavano meglio di me, anzi. Non riuscivo a dimenticare quei discorsi fatti a labbra quasi serrate, per non far capire a noi bambini, quei discorsi che si facevano in cucina tra mio padre, mia madre e la nonna paterna, quando veniva il tempo di pagare l’interesse a quell’usuraio di Peppino che aveva fatto fortuna in America. E lui voleva essere pagato all’unghia, non voleva sentire Santi. E io ancora nel mio lettino, che facevo finta di dormire, sentivo quei discorsi e tremavo e non chiedevo mai niente per non gravare sulla famiglia. Mi ricordo di quell’anno in cui la nonna aveva venduto i fichi secchi, la cui raccolta era stata abbondante, e mi aveva portato alla Fiera di San Giuliano a comprarmi una stoffa per un vestitino, scelsi la stoffa di un colore turchese con i fiori bianchi. Quando Milia la sarta me lo cucì e lo indossai per andare a messa con la mia amica, che riceveva i pacchi dall’America con vestiti eleganti, mi sentii più importante di lei. Avevo quel solo vestito, e me lo lavavo e lo stendevo appeso ad una canna, ma il vento insidioso un giorno me lo buttò per strada e qualche passante lo rubò. Piansi tutte le mie lacrime, e da allora forse dentro di me nacque il desiderio di cambiare se non la direzione del vento almeno il modo di legare le canne. Ma bisognava lavorare fino a rompersi la schiena, d’estate e d’inverno; ed ero sola a farlo, mio marito preferiva passare il tempo allegramente, con qualche comara del vicinato e la sera alla cantina di Sartorino. E io dovevo stare zitta, ma quando mi stancavo di sopportare, parlavo e per un po’ le cose sembravano andare per il verso giusto.

    Ma era solo una tregua e gli anni passavano sempre uguali, e le primavere lasciavano il posto alle estati dal passo falcato e dai capelli biondi come il grano maturo, e il mosto nei tini e i funghi nel bosco vicino annunciavano il dorato autunno, ma poi i crisantemi negli orti con il loro profumo acre lasciavano intravedere l’inverno con i primi freddi, e i monti del Pollino si coprivano di bianco. E il Natale era alle porte e già all’Immacolata si cominciava a friggere i primi dolci, ammielati con il miele di fichi. Io non diventavo una ricca possidente e la casa era sempre quella di quando mi ero sposata, ma non perdevo la speranza che le cose potessero cambiare.

    Alle volte, quando mi svegliavo la mattina, mi sentivo prendere dall’angoscia, a stento riuscivo a prendere possesso della realtà che mi circondava, meccanicamente facevo le cose: accendere il fuoco con le frasche e la legnetta che avevo messo ad asciugare la sera prima, vicino alle braci morenti, mettere al fuoco il latte munto dalla capra nerina che chiudevamo nella casetta di paglia e creta, bollire l’orzo che avevo tostato nel forno, dopo l’infornata del pane. A volte impastavo un po’ di farina per fare le tagliatelle con i ceci, messi in ammollo la sera prima nella pignata di creta, e che mettevo a bollire appena il fuoco scoppiettava nel camino. Intanto l’orizzonte si tingeva di rosa, e mi piaceva guardare dalla finestra i monti che si stagliavano in lontananza, coperti di neve fino al mese di aprile. Sentivo i passi duri e pesanti scendere le scale, e allora mi giravo verso mio marito e, col sorriso dipinto sulle labbra, gli auguravo un buon giorno e lasciavo che si servisse del caffè e del lardo fritto con le uova; ma dentro avevo un vuoto amaro, una notte di tempesta e di pensieri scuri mi agitava la mente. Non ero contenta e sapevo il perché. Sapevo che non era bella la vita dei contadini poveri, sempre a fare i conti con il tempo, che pioveva e grandinava quando non doveva, con l’arsura estiva che bruciava le piante dei pomodori, con i danni prodotti alle viti e al frutteto dagli insetti. E certuni si indebitavano ed erano costretti a vendere un pezzo di terra, o fare il bracciante o emigrare altrove.

    L’unica cosa che potevo

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