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Racconti crudeli
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E-book249 pagine3 ore

Racconti crudeli

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Info su questo ebook

Le storie di Racconti Crudeli indagano importanti tematiche: l'amore (nelle sue varie sfaccettature: passionale, esaltante, tenero, romantico, disperato, meraviglioso, crudele, patologico, totalizzante), l'amicizia, il viaggio, la morte.
In esse è rappresentata una galleria di personaggi grandi e piccoli, ma tutti straordinari nella loro dignità esistenziale. Sono persone che l‘autore ha incontrato realmente nei suoi vagabondaggi per mare e per terra.
Da questi racconti si evince con forza il fascino e la bellezza della vita, unitamente alla sua inevitabile tragicità...

L'AUTORE
Francesco Prandi nasce a Sermoneta nell'ottobre del '43, durante lo sfollamento (nella pianura pontina infuriava la battaglia).
Appassionato di cinema e letteratura inglese, americana e francese, durante i lunghi anni di vagabondaggio sui sette mari, legge quasi tutti i classici della letteratura occidentale e poi si laurea con lode nel '75 alla Sapienza, in “Lingue e Letterature Straniere Moderne”.
È stato insegnante in vari licei di Latina dal '78 al '99, anno in cui è andato in pensione.
Oggi vive a Latina.
Ha già pubblicato libri di poesia, saggistica e romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2018
ISBN9788867933952
Racconti crudeli

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    Anteprima del libro

    Racconti crudeli - Francesco Prandi

    ponte.michele@gmail.com

    Francesco Prandi

    RACCONTI

    CRUDELI

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    A Nando Cardelli, Alberto Di Zazzo, Giampiero Fanelli, Enzo Franciosa, Francesco Porzi

    «... e un giorno anch’io gabbiano senza pace chiederò al vento di spezzarmi le ali.»

    ANONIMO

    ANGELINA E ANNETTA

    Non ricordo bene quando, ma tanto tempo fa, un mio compagno di scuola mi aveva invitato a trascorrere una settimana a casa della nonna ad Amalfi. Dopo un paio di giorni che ero lì, una mattina, mentre passeggiavamo sul porticciolo ammirando i canotti e i gozzi variopinti, mi disse:

    Stasera ho invitato degli amici a cena e tra questi ce n’è uno che un tempo, tra i banchi di scuola, ci fu tanto caro: trattieni la tua curiosità e non tirare a indovinare, tanto non ti dico di chi si tratta.

    Alle otto cominciò ad arrivare gente e dopo una mezz’oretta eravamo tutti a tavola sulla terrazza, con la più spettacolare vista del mondo negli occhi, ma il misterioso compagno di scuola tardava ad arrivare. Per ammazzare il tempo cominciammo a sorseggiare dell’ottima falanghina, a fumare, a chiacchierare del tempo andato e a raccontarci barzellette e storielle, leggere come le piume di un’oca.

    Finalmente, alle nove precise suonò il campanello e il mio amico, con un sorrisetto che voleva essere furbo, mi chiese di andare ad aprire. Entrò un uomo in maglietta rossa, jeans classici sdruciti, sandali marroni di cuoio invecchiato e un panama immacolato. Mi sorrise e, abbracciandomi, disse: Ciao, Kid, come va? Scommetto che non mi riconosci, e d’altronde come potresti? Negli ultimi venti anni me ne sono capitate talmente tante che il mio fisico, la faccia in particolare, ha assunto sembianze assai diverse dall’originale, ma la voce non dovrebbe essere cambiata troppo: concentrati e vedrai che ci riesci.

    Mi sforzai, ma fu tutto inutile: il volto emaciato e sofferente di quell’uomo non portava alcun ricordo a galleggiare sulla incerta superficie della mia memoria, né tanto meno la sua voce rauca, tipica del fumatore accanito. Meno male che a tavola ci ha pensato il mio amico a trarmi d’impaccio, alzandosi in piedi con in mano una coppa di prosecco, invitandoci tutti a brindare all’amico ritrovato.

    Miei cari disse, "con grande gioia ho l’onore di presentarvi lo studente più bravo dell’Istituto Nautico ‘Giovanni Caboto’ di Gaeta, per il quinquennio Cinquantasette-Sessantadue, e forse il più geniale di sempre. Ne sapeva più dei professori. È dal giorno del diploma che nessuno della nostra classe lo ha più visto né avuto sue notizie, ergo, in questa serata, a lui dedicata, ci dovrà raccontare tutte le vicissitudini accadutegli nei suoi misteriosi ultimi vent’anni, trascorsi chissà dove e chissà come, e in particolare la triste o le tristi vicende che gli hanno procurato tanta amarezza e tanto dolore da renderlo irriconoscibile: proprio un’altra persona.

    Pensate, cari amici, era alto, magro, ma pieno di muscoli, dritto come un fuso, aitante e biondo come Burt Lancaster, insomma era tutto quello che ognuno di noi avrebbe voluto essere. Aveva avuto un culo speciale perché, oltre alla bellezza, madre natura lo aveva dotato, come già detto, di un finissimo cervello. Guardatelo adesso: se non avesse quella trippa molle e flaccida assomiglierebbe a San Francesco del Greco. Neanche il suo compagno di banco dell’ultimo anno lo ha riconosciuto."

    Accidenti! quello era Lorenzo Aldebrandi. No, non era possibile! Ma poi, osservandolo meglio, riconobbi la cicatrice sul mento che una maldestra testata di un avversario gli aveva procurato mentre giocava a pallone al campetto dell’oratorio.

    Lo guardavo incredulo: come era potuto cambiare così tanto? I suoi grandi occhi, del colore delle foglie di ficus, più vivi e penetranti della lama di un rasoio, che, quando ti osservavano, scavavano fino a mettere a nudo l’anima, quasi completamente velati dalle palpebre, apparivano tristi e spenti come quelli di un bue che si avvia al macello. I suoi capelli, più bianchi della neve, unitamente ad almeno venti chili di grasso che dal petto sciabordavano fin quasi a raggiungere i testicoli e che gli avevano sensibilmente curvato le spalle, e alle guance flaccide e pallide, gli avevano fatto assumere le sembianze di un vecchio a cui la vita non aveva riservato altro che tribolazioni e dolori.

    Si accomodò accanto a me, alla mia destra, si versò dell’altro prosecco e, con il calice in mano, cominciò a scrutarci uno a uno. Questa sua indagine durò oltre un minuto, poi, posando il calice senza aver bevuto, con gli occhi che brillavano di una intelligenza quasi mistica e con una voce ben timbrata, ma intrisa di malinconica dolcezza, iniziò a parlare:

    "Non potete immaginare la gioia che ho provato quando Raffaele mi ha invitato a cena a casa sua, anche se ancora mi sto chiedendo come diavolo abbia fatto ieri mattina, al mercatino del pesce, a riconoscermi, ma poi, se vorrà, ce lo dirà lui stesso. Sono contento di stare tra di voi, ma, permettetemi di dirlo, sono strafelice di aver ritrovato due cari compagni di scuola, insieme ai quali ho trascorso il periodo più bello della mia vita, un tempo che con il senno di poi oserei definire di inenarrabile bellezza e leggiadria.

    Mi è stato chiesto quello che ho fatto negli ultimi venti anni e io vi dico subito che ho viaggiato in lungo e in largo per le terre del mondo e ho navigato per tutti e sette i mari alla ricerca di una felicità perduta assai presto e, dal mio aspetto, non ci vuole molto a capire, mai più ritrovata. Avrei tante storie da raccontarvi ma non voglio rattristarvi troppo, perciò ve ne narrerò una soltanto: quella che mi ha allontanato per sempre dall’Eden.

    Cari amici, ecco la storia:

    Mancavano pochi giorni al Natale del Sessantacinque, quindi tre anni dopo il diploma, quando, all’imbrunire, con una carretta da quindici mila tonnellate, siamo entrati nel porto di Coos Bay, una bella cittadina dell’Oregon, per caricare tronchi d’albero. Appena attraccati, abbiamo notato un gruppetto di una decina di persone festanti sul molo che sventolavano, oltre alle braccia, una bandiera italiana attaccata a una lunga asta di legno.

    Il Comandante mi chiese di scendere e di andare a salutare, a nome di tutto l’equipaggio, quelle persone che mostravano così tanta gioia nel vederci attraccare. Per scatenare tanto entusiasmo, per loro doveva trattarsi di un evento davvero straordinario. Erano stati sicuramente avvertiti del nostro arrivo dall’Agente locale della Compagnia.

    Neanche terminai di presentarmi che fui sommerso da un mare di frenetici abbracci e baci schioccanti sulle guance. Fui letteralmente travolto dal loro entusiasmo. Con le lacrime agli occhi, mi dissero che ci stavano aspettando da una settimana e che dovevamo assolutamente andare alla festa che avevano organizzato per il nostro arrivo.

    Chiesi se qualcuno di loro poteva venire a bordo con me per parlarne al Comandante. Due bellissime donne, dall’aspetto mediterraneo e dai volti e dal personale quasi identici, accettarono di buon grado.

    Il Comandante, un gigante di Camogli, dall’espressione burbera e dal fiero cipiglio, ma dal cuore più tenero di quello di un agnellino, alla loro richiesta, si commosse fin quasi alle lacrime e invitò tutto il gruppo a visitare la nave.

    Dopo un’oretta una quindicina di noi, eccitati e contenti, si riversò sulla banchina. Anche il Comandante, con la sua presenza, volle onorare quella brava gente.

    Cari amici, solo andando per mare possono verificarsi questi straordinari incontri. Ci caricarono su cinque enormi fuori strada e nel giro di una ventina di minuti ci ritrovammo dentro una grande casa di campagna, seduti intorno a un magnifico tavolone di noce massello, posto in mezzo a un salone più grande di una pista da ballo di una balera della Bassa Padana.

    Mai avrei immaginato, immerso com’ero in quella gaia atmosfera, in mezzo a tanta brava gente, meravigliosamente entusiasta e ospitale, che quella festa sarebbe stata foriera degli avvenimenti che avrebbero sconvolto la mia vita."

    L’allegria era alle stelle e il più contento di tutti era proprio il Comandante, che, appollaiato accanto al padrone di casa, un vecchietto arzillo e simpatico di ottantaquattro anni, con un bottiglione di vino rosso sempre pieno davanti, mangiava, raccontava, scherzava, ma, soprattutto, beveva.

    Avevano preparato una cena a base di legumi, verdure, carni arrosto e selvaggina, eccetto il coniglio, che da quelle parti non usano mangiare. Io, naturalmente, assaggiavo tutto, innaffiandolo con un rosé californiano dal forte gusto fruttato. Mi pareva così naturale trovarmi lì che non mi facevo alcuna domanda: ma a quella età chi si fa domande?

    Mi bastava sapere che erano emigranti italiani che bramavano conoscere come si era evoluta la vita nella loro patria di origine dal momento in cui l’avevano lasciata e io facevo del mio meglio per esaudire la loro morbosa curiosità. Non ci voleva molto a capire che volevano sentirsi raccontare di una patria povera e arretrata, dove ancora non c’erano la televisione, il frigo, la lavatrice e il juke- box e dove il cavalluccio e l’asinello la facevano ancora da padroni.

    Il vecchio possidente era arrivato da bambino, con il padre e la madre, da un paesino della Sila e aveva fatto fortuna. Possedeva una estensione di terra e di boschi che non bastava un giorno intero per visitarli. Rimasto vedovo, senza figli, dopo tanti sacrifici, arrivato alla soglia della vecchiaia, si concesse una vacanza in Italia, dove, sull’isola di Procida, conobbe la bellissima Angelina: la figlia più grande del padrone del ristorante dove tutti i giorni andava a pranzo e a cena. Se ne invaghì a prima vista e, dimenticandosi di essere parecchio avanti con gli anni, la chiese in moglie.

    Angelina, anche se lusingata dalla proposta di matrimonio, era molto restia ad accettare e a lasciare la sua isola e la sua amatissima sorella Annetta, più piccola di lei di due anni, e, bella com’era, voleva continuare ad aspettare speranzosa il suo bel principe azzurro, che mai e poi mai avrebbe immaginato così attempato. Ma il ricco signore americano era dolce e gentile, e, promettendole una vita da regina e che presto avrebbe richiamato anche sua sorella Annetta, riuscì a convincerla.

    Così Angelina a diciotto anni si trovò a vivere in un mondo nuovo, di difficile comprensione, per non dire astruso. La nostalgia canaglia la coprì col suo grigio mantello, intriso di rimpianti e malinconie.

    L’anziano gentiluomo di campagna, che dimorava in una splendida magione immersa nel bosco, per non perderla, dopo dieci mesi, mandò a chiamare la sorella. Costei, dopo un paio d’anni, si sposò con un signorotto del luogo di una decina d’anni più giovane del marito di Angelina. Non essendo chiara la sua provenienza, lui, per convincerla, le giurò di essere di origine italiana e un buon cattolico.

    Il volto di Angelina, di nuovo insieme all’amatissima sorella, riprese i suoi vivaci colori mediterranei, come se si risvegliasse da un lungo e profondo letargo, e si sentì di nuovo accarezzata dalla dolce brezza marina del mattino, e cominciò a sentire il profumo dell’aria che attraversava i campi e i boschi nelle belle giornate.

    Inutile dire che le due sorelle ripresero a vivere in simbiosi, anche perché dai loro matrimoni non erano nati figli. Stavano sempre insieme e pur non essendo pienamente soddisfatte delle loro esistenze, conducevano una vita frenetica, senza spazi vuoti, piena di cose da fare. Si dedicarono anima e corpo a far prosperare le loro proprietà, facendo anche molti affari in comune.

    Oltre alla terra e ai boschi possedevano una pescheria, una ferramenta, una concessionaria di macchine agricole e movimentazione terra, appartamenti e negozi, e tante altre cose ancora. Insomma avevano creato un piccolo impero (come Angelina era solita affermare) ma, arrivate alla soglia dei quarant’anni, le due splendide creature furono prese, per non dire assalite, da una confusa smania di desiderio di felicità piena.

    Nelle loro frenetiche giornate non avevano ancora incontrato l’amore, né tanto meno erano state travolte da quella passione, da quella frenesia impetuosa, assoluta, totalizzante e inarrestabile che fa impazzire dalla felicità quando è corrisposta e disperare quando non lo è, di cui tanto avevano sentito parlare e letto, da giovinette sull’isola di Arturo, sui settimanali femminili allora in voga in Italia (Confidenze, Intimità, Grand’Hotel, Bolero, Sogno e altri fotoromanzi).

    Sì, erano donne ricche e socialmente affermate, ma stavano invecchiando accanto ai loro vetusti mariti praticamente impotenti, che, difficile da credere, fino ad allora non avevano mai tradito, anche grazie alla sana educazione cattolica ricevuta.

    Così, quando vennero a sapere dell’arrivo della nave italiana e della sua lunga permanenza in porto, qualcosa di nuovo, di irrazionale, ma soprattutto di eccitante cominciò a frullare nelle loro testoline tardo romantiche. Iniziarono a sognare, a fantasticare su un possibile fatale incontro. Già vedevano un bel ufficiale, tutto vestito di bianco, attraversare la grande porta delle loro sontuose dimore e passare la serata ad ascoltarlo mentre se lo mangiavano con gli occhi, sorridenti, in attesa di essere invitate a bordo per una visita alla nave o a cena nel ristorante più chic della città.

    Insomma, tutt’e due, l’una all’insaputa dell’altra, erano convinte, anzi certe, che su quella nave avrebbero incontrato l’uomo della loro vita. Consciamente, oppure no, ma chi può saperlo? Avevano associato la nave con la passione d’amore, con la gioia, con la piena felicità, e quando videro il bellissimo, giovane ufficiale, avvolto dal rosso alone del tramonto, andare loro incontro, ne furono certe. Sentirono all’improvviso i loro cuori battere all’impazzata, fin quasi a soffocare, pervase da quella gioia sublime che solo l’amore a prima vista è in grado di provocare. Il loro fantasticare adolescenziale stava per materializzarsi.

    Quella sera, a tavola, i miei occhi sembravano impazziti, passavano da un volto all’altro: non riuscivano a decidersi su quale dei due soffermarsi in adorazione. Le due sorelle li calamitavano, li rapivano. Mi sentivo pervaso da un piacere inspiegabile: mai provato prima. So solo che i miei occhi anelavano incontrare i loro e, come per magia, come se tutto fosse stato preparato in ogni minimo particolare da un romantico, sofisticato incantatore, i loro sguardi si fusero con il mio, creando un unico, irrefrenabile desiderio.

    No, non poteva essere. Come mai da parte loro non c’era alcun tentativo di nascondere, sviare, non lasciare intendere all’altra la forte attrazione che provavano per me? Agivano in perfetta sintonia, come fossero state una sola persona. Davvero sconcertante, poiché quando due donne si invaghiscono dello stesso uomo, di solito nascono feroci gelosie.

    Ecco, mi stavo chiedendo questo e altro ancora, quando mi sentii afferrare per le braccia e trascinato, quasi di peso, fuori dalla grande magione di campagna immersa nel bosco.

    L’oscurità impregnava ogni cosa, anche se il cielo era trapunto di stelle. Una soave brezza marina alimentava gli ardori delle due donne e accarezzava la mia estasi, mentre passeggiavamo lentamente, mani nelle mani, sul viale alberato.

    Dentro la grande casa, la festa era al culmine. Tutti mangiavano, bevevano, parlavano, ridevano, danzavano al ritmo di vecchie, nostalgiche melodie partenopee. Al gruppo festante sul molo si erano aggiunte almeno un’altra dozzina di persone: tutti conoscenti dei padroni di casa, invitati ai festeggiamenti dei marinai italiani.

    Le due meravigliose creature mi stringevano forte le mani. Ero in pieno marasma, meno male che il chiarore baluginante delle stelle impediva di notare le mie gote, avvampate come due zucche nella notte dei morti. Camminammo per almeno mezz’ora, estasiati e in silenzio, prima di rientrare.

    Anche se agli altri davo a intendere di essere un tipo forte e risoluto: un duro, insomma, in realtà ero un giovane dall’animo delicato e gentile, emotivo e inesperto, che spesso fantasticava di romantiche e appassionate storie d’amore, ma mai mi sarei immaginato protagonista di una vicenda così complessa, eccitante ed esaltante allo stesso tempo. La fiamma ardente della passione di quegli occhi mi aveva ustionato: sentivo di amarle entrambe perdutamente.

    Ehi! Voi due laggiù, in fondo, smettetela di sorridere. Vi assicuro che era proprio così.

    Volevo soltanto stare in mezzo a loro due e da nessun’altra parte, e, fatto davvero incomprensibile, mai mi sfiorò l’idea di stare da solo con una di loro. Ero precipitato in quel vortice amoroso in meno di un baleno, senza opporre alcuna resistenza, sentivo che potevo sguazzarci come in una pozza piena di acqua profumata da petali di rose. Ero felice e, dall’espressione radiosa dipinta sui loro volti, realizzavo che esse lo erano ancora di più.

    Si assomigliavano come due gocce d’acqua, neanche fossero state gemelle monovulari. Non erano più giovanissime, ma come in preda a un sortilegio, il tempo sui loro volti si era fermato nel momento in cui l’anziano milionario calabro-americano era entrato per la prima volta nel ristorante della loro isola.

    Fisicamente però, eccetto i lineamenti del volto e i capelli corvini, erano assai diverse dal tipo mediterraneo classico. Alte, magre e slanciate, avevano un portamento fiero e risoluto, quasi aristocratico, che dava ancora più risalto ai loro seni prorompenti; i loro grandi occhi neri emanavano spruzzate di fascino a ogni occhiata; con i loro lunghi capelli, sensibilmente ondulati, effondevano ventate di seduzione a ogni scuotimento del capo; con le loro bocche carnose, dalle labbra rosse come ciliegie appena mature, che invitavano irresistibilmente a essere assaggiate, provocavano brividi di desiderio a chi vi posava lo sguardo.

    Non capivo più nulla, sapevo solo che il Paradiso, tanto agognato, lo avevo finalmente trovato.

    La mattina seguente, durante le operazioni di carico, si spezzò un bigo di forza (albero di carico) e così abbiamo dovuto interrompere il lavoro per alcuni giorni, anche per poter controllare bene lo stato di salute degli altri due alberi. Questo incidente, naturalmente, fu accolto con grandissima gioia da tutto l’equipaggio: non avremmo più voluto salpare da quel porto.

    I marinai liberi da guardia (ne rimanevano solo tre o quattro a bordo) andavano la sera a festeggiare nella grande casa nel bosco, che per loro era sempre aperta. L’ospitalità di quegli emigranti italiani nell’Oregon era davvero ammirevole. Li riempivano di premure e di regali, anche per le loro famiglie.

    I marinai, sicuramente senza rendersene conto, avevano portato tra la gente che frequentava la grande casa una ventata d’aria fresca, di allegria, di eccitante vitalità, direi quasi di frenesia, aumentata anche dalla spiccata italianità che essi effondevano nei loro gesti e nei loro racconti e di cui quegli emigranti avevano perso perfino il ricordo.

    I più contenti erano proprio i mariti delle due sorelle, che, a loro volta, non passava giorno che non venissero a prelevarmi a bordo. Si presentavano a tutte le ore e, quando ero impegnato con le operazioni di carico, se ne stavano buone buone nella mia cabina ad aspettare che io terminassi, poi, quando non rimanevamo a fare l’amore fino a sera, ce ne andavamo, con la loro fiammante Cadillac rossa, a zonzo per l’Oregon. Talvolta, cenavamo fuori, ma quasi sempre ci univamo agli altri, contribuendo non poco all’allegra atmosfera regnante in quella casa.

    Il Comandante non stava più nella pelle: aveva legato alla grande con una effervescente divorziata dai capelli più rossi di un tramonto tropicale, che aveva in dote una di quelle risate che quando esplodono incrinano pure i cristalli di gran pregio e si trascinano dietro tutti, provocando epidemie di ilarità.

    Cari amici, so che state facendo una certa fatica a credermi, ma vi giuro sul mio onore di ufficiale e gentiluomo che l’amore tra noi tre aumentava sempre di

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