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Non adesso: Un divorzio fuori tempo massimo
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E-book195 pagine2 ore

Non adesso: Un divorzio fuori tempo massimo

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Info su questo ebook

Una donna della buona borghesia milanese racconta la fine del suo matrimonio durato trent’anni. Un fatto comune, succede spesso, ma ogni volta è un fulmine a ciel sereno. Si incomincia col fatidico “Ti devo parlare…”, “Una pausa di riflessione…” fino alla inequivocabile scoperta di una terza incomoda, e l’arrivo di un bebè.
“L’altra” vive a Roma, dove il marito va per lavoro tutte le settimane. Terrazze fiorite, cieli blu, tramonti rosa, il ponentino e gli scandalosi salotti pieni di messaline contro la compostezza e la discrezione di una Milano in bianco e nero.
Con profonda autenticità, ma anche una certa ironia, e una punta di sarcasmo, la protagonista ci rivela tutta la gamma di emozioni attraversate, che l’hanno traghettata fino al nuovo status di “singola” non più giovane, obbligata a reinventarsi in una Milano che si scopre pullulante di donne sole.
Sarà proprio la leggerezza della solidarietà femminile, unita all’affetto del figlio, ormai adulto, a darle appoggio e coraggio per affrontare la seconda parte della nuova inaspettata vita.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2014
ISBN9788868990305
Non adesso: Un divorzio fuori tempo massimo
Autore

Emma Treves

Emma Treves è nata a Milano nel 1948, città dove vive e dove si è laureata in lettere, alla Statale di Milano. Ha lavorato come redattrice di moda per Vogue Italia negli anni Settanta-Ottanta e poi per varie testate Rizzoli fino al 1995, girando il mondo a fianco dei più grandi fotografi. Adesso è in pensione e fa volontariato in ospedale. Questo è il suo primo libro.

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    Anteprima del libro

    Non adesso - Emma Treves

    Epilogo

    Lo rividi anni dopo, in tribunale, per siglare il nostro divorzio. Una faccenda di pochi minuti. Nessuno scambio di parole. Solo un lunghissimo sguardo, mentre eravamo in attesa, uno di fronte all’altro, appoggiati alle pareti di quel lungo corridoio gelido con le finestre alte fino al soffitto. Dai suoi occhi mi parve trasparisse una tenerezza quasi dolorosa. Accennò un sorriso che ricambiai appena.

    Ricordi dissolti mi tornarono in mente, ma li cacciai via subito.

    Mi guardai attorno per un po’ e poi gettai ancora un’occhiata su di lui: pensai che era un bel vecchio mio marito, proprio un bel vecchio. Meglio di persona, tutto scarmigliato come era sempre lui, di quando appariva in televisione tirato a lucido.

    Non era cambiato gran che. Solo i capelli candidi si erano diradati tanto che la fronte appariva più alta e gli occhi, appesantiti dalle palpebre spioventi, sembravano più infossati nelle orbite.

    E io? Come gli sarò apparsa io, adesso che i miei ricci si erano ingrigiti e li avevo tagliati cortissimi, e poi tutte le nuove rughe che gli erano sconosciute? Chissà.

    Chissà… forse, se non fossimo stati sorvegliati a vista dai nostri avvocati sentinella, ci saremmo lanciati uno verso le braccia spalancate dell’altro, e saremmo poi scappati via ridendo come matti, come Dustin Hoffman e Katharine Ross nel Laureato, prima che fosse troppo tardi. Due buffi vecchietti su una spider rossa.

    Lasciai correre i pensieri senza il freno della logica mentre un sorrisetto nervoso e un po’ ebete mi stirava le labbra.

    Appena ci chiamarono misi da parte le mie ridicole fantasticherie senili e tornai presente.

    Mi mossi per prima. Entrammo nella stanza del giudice che ci aspettava seduto dietro una massiccia scrivania di legno scuro. Qualcuno fece un cenno e ci accomodammo davanti a lui.

    Ricordo, nel silenzio, il rumore sordo delle sedie che avevamo spostato strisciandole sul pavimento. Una voce lesse qualcosa a cui non riuscii a prestare attenzione. Sul registro che ci avvicinarono scrivemmo i nostri nomi uno accanto all’altro, con la stessa penna: una luccicante Aurora bordeaux filettata d’oro che ci passammo di mano stando ben attenti a non sfiorarci.

    Fatto!

    Spiacevole incidente

    1

    Un’invidiabile coppia non più giovane, ma non ancora anziana. Così ci sentivamo.

    La salute reggeva bene e una raggiunta agiatezza ci permetteva di vivere senza affanni. Di aspetto piacevole, entro qualche anno avremmo potuto non sfigurare in pubblicità di dentiere, apparecchi acustici, ormoni sostitutivi, pillole blu o cose simili.

    Io, minuta, statura mignon, con i capelli ancora naturalmente scuri, non dimostravo i miei cinquantanove anni. Cinquantanove virgola novantanove, per la precisione. Roberto, di tre anni più vecchio, elegante, fine nei lineamenti, così alto e massiccio, faceva proprio una bella figura.

    Quando mi abbracciava, piccola com’ero, mi conteneva tutta fino a farmi sparire dentro le sue braccia. Se ballavamo, nonostante sollevassi il mento per allungarmi un po’, sbattevo il naso contro il revers della sua giacca. Lui adorava ballare. Io mi sentivo a disagio.

    Eravamo buffi, fisicamente tanto diversi, ma tutti dicevano che stavamo bene insieme.

    La verità però è che nei trent’anni in cui siamo stati sposati molto d’accordo non eravamo mai andati, e anche se portavamo impressi nella memoria tanti momenti perfetti, entrambi avevamo sopportato una buona dose di infelicità.

    Non solo le nostre fisionomie erano opposte, lo erano anche i caratteri e le aspettative che nutrivamo nei confronti della vita.

    Persino la comune religione non era stata un collante. Lui, sefardita, sradicato dalla sua terra, viveva l’ebraismo anche negli aspetti rituali che ostinatamente rifiutavo. Io, di origine askenazita, nata e cresciuta a Milano, sentivo la mia identità nell’essere rigorosa, nell’ironia, nell’avere molte speranze ma nello stesso tempo nel non averne alcuna e, anzi, nell’essere di un pessimismo patologico, atteggiamento che lo mandava in bestia più di tutto perché lui era l’esatto contrario.

    I suoi esaltati, perpetui entusiasmi con l’andar del tempo erano diventati un nemico che combattevo con dosi da cavallo di negatività e sarcasmo.

    L’ho punto parecchio, ammetto. Molte volte a ragione, altre solo per abitudine, per inerzia, sicura com’ero della sua imperitura fedeltà.

    Il problema, però, era che Roberto non rideva per niente alle mie caustiche ironie. Gli sarebbe stato facile controbattere con la stessa arma, e far finire il bisticcio in una risata, ma la sua esagerata autostima glielo impediva. Regolarmente, mal interpretava le mie parole e le leggeva come attacchi feroci, anche se non lo erano.

    Probabilmente avremmo dovuto accettare il fallimento del nostro matrimonio molti anni prima, ma se eravamo arrivati fino a quel punto, lottando con grandissima ostinazione, era perché un profondo affetto ci legava. Avevamo un disperato bisogno del reciproco amore, ma con il passare del tempo e il cronicizzarsi delle incomprensioni, ci era divenuto sempre più difficile dimostrarlo e i nostri cuori teneri erano andati nascondendosi dietro modi ruvidi e boicottaggi di cui neppure sapevamo i motivi.

    Insomma, ci mandavamo spesso a quel paese, con modi diversi, pur volendoci un gran bene e ora, approdati miracolosamente al traguardo delle tre decadi, eravamo (a questo punto sarebbe meglio dire ero) in attesa di quella tranquillità d’animo che dovrebbe giungere a ricompensare di tanti sforzi l’ultimo tratto della vita.

    Ero persuasa che, giunti alla soglia di quell’età che fatalmente ci rende più fragili e incerti, più bisognosi del proprio compagno e meno propensi alle guerre di posizione, ai conflitti e alle asprezze, le baruffe iniziate fin dal nostro primo incontro si sarebbero infine tramutate in tenerezze scambiate al riparo di un plaid scozzese, morbidamente adagiato sulle nostre ginocchia artritiche, e che ci saremmo vicendevolmente spalmati la pasta adesiva sulla dentiera fino alla fine.

    Tutto questo lo pensavo io. Lui proprio no. Infatti, quasi fuori tempo massimo, mio marito ha cominciato a ballare.

    E questa volta senza di me.

    Era il 2008 quando, per le feste di Natale, partimmo per Singapore. Avevamo progettato di raggiungere nostro figlio Dani, che aveva allora ventisette anni e in quella città stava concludendo un master in economia, per poi trascorrere laggiù qualche giorno di vacanza.

    Dani, il fantastico prodotto del nostro matrimonio, l’unico progetto di cui andavamo entrambi fieri. Alto ed esile, con la faccia da bravo ragazzo che gli ho regalato, e la sensibilità che traspare da ogni sua parola, con il mio carattere schivo e la mente analitica del padre, ci sembrava ormai ben corazzato per potersi gestire la vita.

    Il lungo volo che dovevo affrontare lo metteva in ansia: conosceva bene i violenti attacchi di panico che mi coglievano all’improvviso ad alcune migliaia di metri di altezza, quando cominciavo a dimenarmi, incatenata al seggiolino, mentre con lo sguardo cercavo disperatamente una qualche via di fuga.

    Invece tutto filò via liscio.

    Devo dire che Roberto, per sedarmi, mi regalò un biglietto in prima classe. In quel lusso esagerato la hostess ci rimboccò persino le coperte della poltrona-letto, mancò poco che ci desse il bacino della buona notte. O forse ce lo diede ma non me ne accorsi, già sprofondata com’ero nel sonno indotto da una massiccia dose di Tavor sublinguale, per il quale nutro da sempre un’insana passione.

    Considerai quei giorni in Oriente un punto di svolta per il nostro svogliato matrimonio.

    Da quel luogo esotico e lontano saremmo tornati più uniti, pensavo: Dani, giovane uomo ormai sicuro di sé, non avrebbe più avuto bisogno di noi, e mio marito mi aveva dimostrato tenere attenzioni. Mi teneva per mano. Mi chiamava con quel nomignolo buffo che non gli sentivo pronunciare da tanto. Spesso incrociavo il suo sguardo carico di una tale dolcezza che il mio cuore indurito si scioglieva in un attimo.

    «Vado a fare un giro in centro. Voglio comprare qualche souvenir. Vieni, amore?» cinguettai l’ultimo giorno della nostra romantica vacanza a Singapore, verso sera, prima di chiudere le valigie, sorprendendomi di averlo chiamato amore. Non lo facevo mai, preferivo il solito vezzeggiativo che storpiava il nostro cognome. Strano che lui non ci avesse badato, una volta gli avrebbe fatto piacere e mi avrebbe risposto con un sorriso complice. Non si accorgeva che diventavo più affettuosa se mi sentivo ancora amata?

    «No, vai tu. Rimango in albergo. Devo fare delle telefonate. Ciao ciao.»

    «Come vuoi, a dopo.»

    «Stai molto attenta, e non farti mettere sotto dai motorini, qui corrono come pazzi!» mi accompagnò con lo sguardo verso la porta e ripeté un altro «ciao» con un insolito tono frettoloso e metallico che, ricordo, mi infastidì. Qualcosa di simile al prurito che avvertivo negli ultimi tempi.

    In effetti era da un bel po’ che Roberto, trascinato dal suo lavoro in giro per il mondo, lavoratore iperattivo-compulsivo, ancora e sempre più in carriera, aveva perso l’abitudine di tenermi al corrente dei suoi mille parossistici spostamenti.

    «Atterrato a New York», «Tutto bene, sono a Parigi», «Che bella Londra!», «Sono all’aeroporto di Tel Aviv», erano da sempre il suo buongiorno quotidiano.

    Da quando quella rassicurante consuetudine aveva smesso di punteggiare le mie giornate, avevo iniziato a percepire un certo disagio, ma niente più che un senso di inquietudine.

    Così adesso ero io a mandargli continui sms per sapere dove fosse e se stesse bene e come mai non si faceva sentire.

    La risposta, puntualmente, era «tutto ok».

    Non mi stupivo più di tanto. O, almeno, così avevo deciso di fare: del resto lui era sempre di fretta; non aveva mai tempo se non per le cose o le persone che lo interessavano e che gli scatenavano entusiasmi irrefrenabili. Probabilmente, aveva per le mani qualche nuova mission (così diceva) che lo appassionava terribilmente, mi ostinavo a pensare.

    Al mio ritorno in camera lo trovai ancora nella stessa posizione in cui l’avevo lasciato, mollemente sdraiato sul letto a baldacchino king-size, avvolto nell’accappatoio di spugna bianca fornito dall’albergo, con il cellulare stretto in mano. Lo chiuse nello stesso istante in cui mi vide, fissandomi con quel sorriso che gli fa stirare le labbra, più simile a una paresi che a un’espressione di felicità nel rivedermi sana e salva nonostante il traffico selvaggio e lo scarso rispetto per i pedoni in Oriente.

    «Eccomi. Ho comprato un sacco di cose… incredibili i prezzi! Con chi parlavi?» chiesi, buttando i pacchetti direttamente nella valigia aperta.

    «Con Dani.»

    «Ma potevi passarmelo, no? Perché hai attaccato così in fretta?» Notai che si sforzava di sostenere il mio sguardo. Non ricordo cosa rispose. Certamente non ci feci gran caso.

    Facemmo l’amore quell’ultima sera, come non capitava ormai da molto tempo.

    Molle di quella stanchezza dolce che avevo dimenticato, mi tirai poi il lenzuolo di lino stropicciato fin sotto il mento per nascondere il corpo di cui non andavo più tanto fiera.

    «Perché ti copri?» mi chiese Roberto che era rimasto disteso sul fianco destro a osservarmi pensieroso, reggendosi la testa con la mano, il gomito puntato sul letto.

    «Perché sono una donna pudica…» risposi ridendo mentre mi coprivo anche bocca e naso.

    «Sei ancora bella…» aggiunse lui.

    Mi parve strano che mi facesse un complimento, anche se era senza molta convinzione. Non me ne faceva mai. Per questo ne serbo un ricordo ancora così vivo.

    «Ma va… a momenti potrei essere una nonna… le nonne è meglio che stiano sotto le coperte.»

    «Sei bella» ripeté, lo sguardo perso nel vuoto, l’aria sognante. Chissà cosa sognava, poi.

    Le pale del ventilatore giravano lente sopra il letto, smuovendo l’aria umida. Ipnotizzata, la mente prese a volare. Pensai che ci vuole così poco per sciogliere risentimenti antichi: una frase gentile, guardarsi negli occhi, scambiarsi un sorriso, ricordarsi di essersi amati. Allora ci si può innamorare un’altra volta, poi un’altra, poi un’altra ancora fino alla fine.

    Ero timidamente felice e decisa a tenermi stretta quella sensazione assai rara di pace. Ogni sgradevole presentimento svanì e fui certa di non poter chiedere di più alla vita.

    Nell’età in cui si comincia a morire, io e mio marito avremmo ricominciato a vivere.

    2

    Tornata a Milano, fatto un attento esame della mia vita imperfetta, mi misi in moto per realizzare il progetto di costruirne una nuova e più serena con il mio burbero compagno: avrei smesso di lasciarmi vivere, di lamentarmi, di attaccarlo con battute acide, avrei movimentato il nostro matrimonio stagnante. Insomma avrei tentato di maneggiare i miei sentimenti in modo meno maldestro di quanto avessi fatto fino ad allora.

    Se avessi provato a cambiare io, forse sarebbe finalmente cambiato anche lui.

    Non era troppo tardi.

    Purtroppo non lo feci partecipe delle mie intenzioni, e questo fu certamente un colossale errore, perché i progetti che possono portare a svolte epocali (detesto questa parola, ma effettivamente rende l’idea) non possono essere decisi unilateralmente.

    Pensai di siglare questo nuovo inizio facendogli una sorpresa: avrei raggiunto Roberto a Roma, città in cui lavorava due giorni a settimana, ormai da anni. Quante volte mi aveva chiesto di farlo! Ecco, era arrivato il momento.

    «Cecilia, buongiorno. Le spiacerebbe prenotarmi un biglietto sul Freccia Rossa delle cinque? Domani vado a Roma. Mio marito è sempre all’hotel Inghilterra, vero?»

    «Certo, le prenoto subito il biglietto…» fece una pausa, «però… però, signora, suo marito… non…»

    «Dica…»

    «Non va più in quell’albergo.»

    «Ah no? L’ha cambiato? Ha preso un residence?»

    «No, signora…» La storica segretaria di Roberto a quel punto era prossima a una crisi d’asma. Si schiarì la gola prosciugata con piccoli colpi di tosse.

    «E dove sta?»

    Silenzio.

    «Le ho chiesto dove alloggia adesso» ribadii in tono seccato.

    Si può immaginare l’imbarazzo della povera Cecilia? Si può immaginare con

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