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Oltre l’infinito
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Oltre l’infinito
E-book1.258 pagine20 ore

Oltre l’infinito

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Info su questo ebook

Sta per iniziare un altro anno scolastico, l’ultimo per fortuna. Già, perché per Sara la scuola è sempre stata il luogo in cui più di tutti si è sentita fuori posto. Fin dal primo giorno di asilo, quando è arrivato inatteso il confronto con una realtà che l’ha fatta sentire fragile, esclusa: in una parola, diversa. I suoi compagni correvano, giocavano, si divertivano e lei rimaneva ai margini, confinata su quella carrozzina che l’accompagna da quando aveva pochi mesi. Naturale che con il passare del tempo sia diventata diffidente e poco incline a socializzare, decisa a trascorrere quegli anni quasi in apnea, in attesa di conseguire l’agognato diploma che l’avrebbe liberata finalmente da quell’obbligo quotidiano. Tuttavia, proprio in quel primo giorno dell’ultimo anno di liceo, Sara incontra Veronica, una nuova compagna di classe, che senza esitazioni e con una naturalezza disarmante prende posto accanto a lei, occupando quel banco che era rimasto sempre vuoto per cinque anni. La sua amicizia sarà il punto di partenza per una crescita personale che porterà Sara a guardare il mondo da un’altra prospettiva e a mettere in dubbio tante delle sue certezze – la propria diversità, il rapporto con il suo corpo, quello con i genitori – arrivando a contemplare nella propria vita perfino un sentimento che fino ad allora le sembrava precluso: l’Amore. Oltre l’infinito si addentra, con grande capacità analitica e narrativa, tra i pensieri e le emozioni di una giovane donna che, tra esperienze a volte meravigliose e altre decisamente drammatiche, trova la forza di aprirsi alla vita, come un fiore bellissimo e delicato che dischiude finalmente i suoi petali per mostrarsi in tutto il suo splendore.


Classe 1992, Laura Berardi è una lettrice vorace, amante della scrittura, della poesia, della conoscenza e della natura. Pescarese, medico non esercitante e convivente con una disabilità motoria da quasi tutta la vita, ha pubblicato diversi racconti. Oltre l’infinito è il suo primo romanzo edito. https://lauraberardi.com/
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830682481
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    Anteprima del libro

    Oltre l’infinito - Laura Berardi

    Nuove Voci

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Settembre

    Prologo

    Per la prima volta nella mia vita, sto tentando di muovere le gambe. Ho sempre sognato di avere una visione del mondo più alta, più ampia. Potrei essere sovrastante ai bambini, a quelle creature che non comprendono il senso, il sapore dell’esistenza, ad un pastore tedesco, ad un San Bernando. Da piccola pensavo che i più alti fossero anche i più intelligenti: quelli che conoscevano il segreto per agire, per assaporare pienamente la vita, per gustarla fino in fondo. La gente mi guardava, mi osservava con un’aria stranita, inconsapevole. E quello sguardo mi faceva davvero credere di essere bellissima, affascinante, con l’incanto di una bambina timida, vergognosa, timorosa di ogni cosa, di ogni elemento, di ogni persona.

    Rimpiango l’infanzia, quella semplicità assurda, quella spensieratezza felice, quei bei momenti trascorsi a giocare con le bambole: ricordo quegli attimi in cui fingevo di essere una madre premurosa, attenta, pronta a compiere qualsiasi gesto per il proprio figlio. Vorrei rivivere quelle sensazioni, quelle percezioni, quelle lievi emozioni che mi rendevano gioiosa, mi riempivano il cuore di felicità: sentivo il sangue scorrere tranquillo, privo di ansia, di preoccupazioni.

    Pensavo che quei camici bianchi che mi circondavano fossero lì esclusivamente per me e mi ritenessero una regina, una persona che necessita di attenzioni continue, infinite: la mia metà inferiore era famosa, celebre in tutta la penisola italiana, in tutta l’Europa, in tutta l’America settentrionale. Forse era così incantevole da voler essere ammirata da tutti, anche se non ricordo di aver ricoperto alcuna pagina di giornale.

    Niente, i miei arti inferiori non rispondono. Né avvertono alcuna sensibilità al mio tocco. Ma non importa, perché quello che ho appena fatto era soltanto un esperimento per non pensare. Per distrarmi. Non è servito a nulla.

    Avverto una terribile stanchezza. L’ultimo giorno delle vacanze estive è sempre così straziante, anche se per me le giornate sono tutti uguali, monotone, tanto noiose da uccidere ogni mia speranza. Questa sera mi addormenterò tra le lacrime, pensando a cosa accadrà domani. Ogni notte bagno il mio cuscino, ma questa sarà diversa, lo so già: un mare attende il mio letto. Devo resistere soltanto dieci mesi, poi l’incubo sarà finito.

    Almeno, così voglio credere.

    1

    Sento una mano accarezzarmi il braccio. La riconosco subito, anche se le mie palpebre sono ancora fortemente serrate.

    «Buongiorno, principessa». Una voce soave. Una voce capace di confortarmi in ogni momento.

    «Buongiorno, papà», rispondo con un tono impastato ma chiaro. Ormai è un rituale: ogni mattina mio padre mi sveglia dolcemente, con una delicatezza infinita.

    Pian piano apro gli occhi. Inizio a vedere i caldi raggi di sole settembrini trapassare le persiane abbassate, a distinguere i colori. Scruto il viso abbronzato di mio padre: per me è l’uomo più bello del mondo, malgrado quel naso un po’ storto, quella bocca stretta. I suoi occhi verdi mi annientano, mi trasmettono una sicurezza infinita. Si abbassa per baciarmi una guancia, io gli circondo il collo con le braccia. E più lo stringo, più mi convinco che la mia vita sarebbe nulla senza di lui.

    «Che scena patetica! Dovete fare così ogni mattina?», irrompe un’altra voce, che induce mio padre a voltarsi e a scoprire la mia visuale. E quando mi ritrovo davanti allo sguardo sprezzante di mia madre un impeto di rabbia mi assale. È sulla soglia della camera, il suo aspetto è impeccabile anche struccata e in camicia da notte, eppure in qualche modo sembra sconvolta.

    «Sei solo invidiosa», ribatto con ferocia. E mentre sono ancora abbracciata a mio padre, lei scompare, lasciando dietro di sé una scia quasi impotente di fronte al mio sguardo così duro. Papà si stacca da me e va ad alzare le persiane. La luce del sole mi inonda.

    «Dato che è tardi, stamattina ti do una piccola spinta», afferma lui con un’aria scherzosa, sollevandomi inaspettatamente e poggiandomi sulla sedia a rotelle posta vicino al letto. «Non ti ci abituare però, eh?». Prima che possa allontanarsi, gli rubo un bacio sulla guancia, cosa che lo fa sorridere ancor di più. «Vai a fare colazione, tesoro», aggiunge procedendo a passo veloce e lasciando la stanza.

    E lo faccio anch’io, sbloccando e spingendo con agilità le ruote della carrozzina. In meno di un minuto mi ritrovo già in cucina. Il mio posto è già lì, vuoto. La mia testa invece è altrove, là dove dovrò incontrare persone già viste, prevedibili, noiose, là dove è iniziata la mia tortura: essa mi invade, mi strazia fino all’uccisione dell’animo. Ricordo quel giorno come se fosse ieri.

    Avevo all’incirca tre anni. Mia madre mi aveva vestito con abiti puliti, freschi di bucato. Abiti in cui ho notato subito qualcosa di nuovo che non avevo mai visto fino ad allora: un indumento rosa, una sorta di vestitino a quadratini bianchi. Ne sentivo il profumo, l’odore, l’assaporavo fino all’estremità del mio olfatto, ma non ero ancora consapevole che quell’aroma avrebbe mutato ogni elemento in un inferno vitale. Mia madre mi ha messo sul seggiolino della sua auto. E mentre guardavo fuori dal finestrino e gli edifici camminavano, spesso quasi correndo, il tempo è trascorso, forse fin troppo velocemente per una bambina di tre anni, anche quando l’auto si è fermata di fronte ad un edificio costruito perfettamente, rivestito da un bianco quasi accecante. Il palazzo aveva una pianta rettangolare, era piuttosto minuto: ricordo che lo fissavo con stupore, con uno sguardo inconsapevole, quasi imbarazzato da quella veduta. Sono entrata in quell’edificio avida di curiosità. Non so a cosa pensassi, ma il sorriso di mia madre mi rassicurava. Un sorriso ingannevole. Molto ingannevole. Perché tutto è cambiato nel momento in cui lei ha spinto la mia carrozzina in una stanza colma di fanciulli che giocavano, parlavano, ascoltavano la loro maestra, ma soprattutto camminavano: in quell’istante ho compreso ogni elemento, ogni fatto.

    Fino ad allora credevo di essere una bambina comune, che avrebbe iniziato ad utilizzare la metà inferiore del proprio corpo in età adulta, come mi avevano detto da sempre. Non avevo mai visto un infante camminare, correre, persino inciampare, cadere per poi rialzarsi: inaspettatamente la verità si è svelata ai miei occhi e ho capito di essere diversa dagli altri. Anomala. Ancora oggi dubito che mia madre si sia accorta di qualcosa. Mentre lei parlava con la maestra, la donna che sarebbe stata la mia insegnante dell’asilo, i bambini mi guardavano curiosi ed esterrefatti: una fanciulla e la sua adorata sedia a rotelle, il titolo perfetto per una favola della buonanotte.

    Da quel giorno non ho più vissuto. La frustrazione mi assale costantemente. Mi uccide osservare gli altri così spensierati, con un animo leggero, privo di ogni problema, del dolore assoluto. Ogni anno è sempre così. Il primo giorno di scuola non è un inizio, ma la fine di tutto.

    «Muoviti, Sara!».

    La voce di mio padre mi distoglie da questi pensieri. E mentre mi accorgo di aver già mangiato, mi reco velocemente verso il bagno, quella stessa stanza che una volta era l’ufficio di papà. Poi, quando i medici hanno comunicato ai miei genitori che le mie gambe non si sarebbero mosse nemmeno per un miracolo, quello studio pieno di scartoffie è diventato il mio bagno. D’altronde era l’unico spazio abbastanza grande disponibile dove riesco a muovermi bene in carrozzina.

    La porta è quasi di fronte a quella della mia camera. La apro delicatamente. Di solito è una stanza buia, quasi tetra, ma quando varco la soglia mi rendo conto che è già illuminata dai raggi di sole che penetrano dalla finestra. Mia madre deve averla aperta più di un’ora fa, perché sento l’odore dell’aria mattutina inebriarmi la pelle. I corrimani disegnano il perimetro della stanza. Davanti a me scorgo il WC, più alto del normale, corredato da due braccioli disposti ai lati, dal classico buco davanti per facilitare la mia igiene personale e circondato da strutture di acciaio con numerosi maniglioni, in modo da issarmici sopra con ancor più disinvoltura e facilità. Le mie gambe non funzionano, in compenso le mie braccia possiedono una forza immensa, quasi sovrumana. È incredibile quanto ogni corpo si adatti alla propria condizione, sviluppando a volte capacità extrasensoriali che nessuno possiede. Per me è diventato normale fare i miei bisogni in quel modo. Lentamente mi avvicino con la carrozzina e mi alzo la camicia da notte bianca, una delle tante che mia madre acquista ogni sei mesi sempre dallo stesso negozio, come anche per lei. Sono tutte uguali: larghe, comode, di cotone, con un piccolo merletto sul davanti che adorna il collo e le spalle. Anche le maniche sono capienti e arrivano a toccare l’avambraccio, così da poterle utilizzare sia d’inverno che d’estate. E dopo aver abbassato le mutande poco sopra il ginocchio per non farle scivolare troppo, appoggio le braccia sui maniglioni e pian piano riesco a passare dalla sedia a rotelle al WC. Non so perché, ma ho il presentimento che stamattina sia tutto più difficile, persino rispondere a un bisogno fisiologico come urinare. Coraggio, Sara. Non pensare all’incubo che sta per iniziare. Pensa che è l’ultimo anno, che poi sarà tutto soltanto un brutto ricordo. Focalizzati su questo e concentrati.

    Finalmente la pipì riesce ad uscire. Mi pulisco con la carta igienica, mi rivesto e mi rimetto a fatica sulla carrozzina. Mi guardo intorno cercando di riprendere fiato. Alla mia destra c’è la vasca con sportello, provvista di una sedia interna su cui mi poggio quando devo fare la doccia. Sulla sinistra è posto il lavabo. È più basso del normale, ha la cosiddetta rubinetteria a leva clinica, un sistema idraulico progettato per poter mettere comodamente le gambe sotto al lavandino, senza l’intralcio di tubi o scarichi.

    Infine, c’è lui. Stamattina sono talmente nervosa che non l’ho nemmeno notato quando sono entrata in bagno. Un enorme specchio che non copre soltanto lo spazio sopra al lavabo, ma continua anche sulla parete, occupando un altro buon metro di muro prima del gabinetto e riempiendo dall’alto in basso quasi tutta la superficie. È un complesso unico che i miei genitori avevano scelto per il proprio bagno, ma che poi hanno posizionato qui perché secondo loro nell’altro sarebbe stato uno specchio troppo ingombrante. E ogni volta sembra che aspetti con ansia la vista del mio corpo e non veda l’ora di deriderlo. Come ogni mattina, spingo la carrozzina con lo sguardo dritto e rivolto verso il lavandino, ma inaspettatamente mi blocco a metà strada. Cerco disperatamente di abbassare gli occhi per non guardare il riflesso del mio corpo su quello specchio grande, ma il mio volto sembra non ascoltarmi più, quasi che quell’oggetto avesse preso il sopravvento sulla mia capacità di intendere e volere. E prima che possa riacquistarla, mi accorgo che ormai è troppo tardi per tirarsi indietro. Lo scontro diviene inevitabile e mi ritrovo davanti all’immagine completa di me stessa. Mentre con un gesto brusco tolgo la camicia da notte, osservo il mio viso stravolto dalle troppe lacrime versate nella notte, i miei folti capelli castani ancora scompigliati dal cuscino, le mie braccia potenti, i miei seni piccoli e sproporzionati, gli arti inferiori privi di forza e di una massa muscolare adeguata. Immagini reali che prendono forma lentamente e i miei occhi non possono far nulla per evitarlo. E nonostante ogni mattina mi ritrovi a guardare il mio volto nello specchio sopra il lavandino, oggi la mia carrozzina si è fermata prima, come se fosse stata catturata da una sorta di richiamo.

    In un secondo tutto diventa estremamente più grande: ogni dettaglio della carrozzina, le mie gambe sottili, i piedi ridotti a due soprammobili e ciascun singolo particolare dello stesso corpo mostruoso che si riflette nello specchio della mia camera, che copre totalmente l’anta centrale dell’armadio. E anche quando devo prendere i vestiti e me lo ritrovo davanti, riesco quasi sempre ad ignorarlo, distogliendo subito lo sguardo. Esattamente come in questo bagno, in cui solitamente mi imbatto soltanto in un volto senza espressione. È uno scontro quotidiano che non posso evitare e al quale probabilmente non mi abituerò mai, malgrado ogni giorno faccia finta che quello specchio sia in realtà coperto dal ritratto di qualcun altro.

    Ma ora è diverso. Non mi basta distogliere lo sguardo, perché quella figura intera fa più male del solito. Oggi non posso fingere che quel corpo appartenga ad un estraneo. Quel volto stanco e spento e quel corpo seduto sulla carrozzina sono soltanto miei ed entrambi stanno cercando invano di cacciare via il ricordo del primo giorno d’asilo, quello che ha cambiato la mia vita per sempre. Quel ricordo che riaffiora costantemente, ma che oggi sembra mille volte più pesante, come una specie di mostro gigante uscito dal nulla, il cui unico diletto sembra quello di torturarmi e di rendermi facile preda della mia stessa immaginazione.

    Sento di nuovo il bisogno di piangere. Ma non posso farlo. Non ora. Cercando di non pensare a nulla e di non badare a quel mostro, con uno scatto improvviso riesco a spingere la sedia e a fermarmi di fronte al lavandino, ignorando totalmente il mobile soprastante: per una persona in piedi sulle proprie gambe può risultare impossibile, perché lo specchio può riflettere anche il bacino – soprattutto se si tratta di una persona di statura alta – mentre per me è una delle pochissime fortune che la vita mi ha dato, perché mi basta semplicemente abbassare lo sguardo per non guardare il viso, le spalle e i manici della carrozzina.

    Eppure, appena tocco la superficie del lavandino con una mano sudata, la mia mente sembra volare in un luogo desolato, costituito unicamente da domande alle quali molto probabilmente non saprò mai rispondere, nemmeno in punto di morte. Domande apparentemente banali, come quanto denaro sia stato buttato via per me in tutti questi anni. Quanta energia sprecata per non farmi mancare niente. Quante lacrime versate per la mia vita dipendente da una carrozzina. Quanto dolore procurato a chi mi sta vicino e si sente in dovere di accudirmi. Quanta sofferenza per mio padre, che ha dovuto rinunciare alla propria stanza solo per costruire un bagno adatto a me. Quante parole non dette per non farmi stare peggio. Quante esperienze sfumate per i limiti imposti dalla mia condizione. Quanti mostri insidiati nel mio corpo esile e informe, che riescono sempre a sopraffarmi, oggi come non mai.

    E mentre tento inutilmente di mettere da parte quell’orribile ricordo del primo giorno d’asilo, non posso fare a meno di pensare che questo sarà l’ultimo rientro a scuola. Solo quello riesce a darmi un minimo di forza, almeno per aprire il rubinetto e lavarmi i denti.

    In camera scelgo i vestiti più brutti e anomali. Un pantalone nero largo e una t-shirt grigia. La mia solita divisa settembrina. Non mi sono mai interessata alla moda, la trovo inadatta a me. Con qualsiasi abito sarei sempre la stessa. Per me i vestiti sono soltanto un modo per non restare nudi, per arricchire ulteriormente le maschere che si indossano, per non svelare ciò che si è veramente.

    Sto cercando di infilarmi i pantaloni. Mi sono allungata sul letto per farlo. Come in bagno, ci sono dei maniglioni su cui appoggiarmi, oltre ai corrimani che perimetrano la camera. Devo sollevare con le braccia una gamba alla volta, per poi infilarmeli del tutto. È lì la parte più complessa, per questo indosso sempre pantaloni larghi, così scivolano più facilmente.

    Ecco, finalmente ci sono riuscita. E naturalmente con lo sguardo rivolto nella direzione opposta allo specchio sull’anta dell’armadio.

    Pian piano, appoggiandomi sui maniglioni, mi rimetto a sedere sul letto e scorgo sulla soglia mia madre che mi sta guardando con insistenza. Non la sopporto.

    «Perché mi controlli?», le domando, ancora respirando a fatica. Stamattina è tutto incredibilmente difficile, come se da ieri a oggi fossi ingrassata di un quintale.

    Il mio sguardo è così tetro da abbatterla. Mentre infilo la t-shirt noto i suoi occhi offesi, malinconici.

    «Non ti stavo controllando. Hai preparato tutto?», mi fa con aria affranta.

    «Pensi che sia così stupida da dimenticare i libri? Lasciami in pace!». Grido così forte che forse ho svegliato i vicini.

    Finalmente se ne va. Non la tollero, soprattutto quando mi tratta come una bambina. Sento mio padre chiamarmi. Afferro il cellulare sulla scrivania, controllo se ci sono notifiche, anche se già so che nessuno mi ha cercata. È così: ormai prevedo tutto, data la monotonia della mia esistenza. Una totale monotonia. Mi chiedo sempre perché possiedo quel dannato aggeggio. Anzi, lo so: è solo utile alla tranquillità dei miei genitori. Guardo l’orologio, sono le sette e mezzo.

    È l’ora di andare. All’inferno.

    Mentre mio padre mi trascina fuori dal pianerottolo, scorgo la sua macchina, una Mercedes Classe A bianca: è stupenda, lo devo ammettere. Quando l’ha comprata, ho avuto l’onore di essere la prima a farci un giro. Ricordo che mia madre mi guardava dai sedili posteriori, con l’aria di chi ha appena perso a poker. Lei detesta le attenzioni di mio padre verso di me. Infatti quella sera stessa hanno litigato. Li sentivo urlare in camera, poi d’improvviso è calato il silenzio: sono sicura che quella notte hanno fatto l’amore, perché ricordo di aver pianto più del solito.

    Rabbrividisco sempre all’idea di essere il prodotto malsano dell’unione dei loro corpi intrecciati, così fragili, così morbosi: quell’immagine mi logora dentro. E quando la mia mente la trova, penso a mio padre: non riesco ad immaginarlo avvinghiato alle carni di quella donna.

    Mio padre mi sta sollevando di nuovo dalla sedia. Il suo corpo mi avvolge, mi protegge, avverto un’immensa sicurezza mentre mi poggia sul sedile anteriore della Mercedes.

    Si mette alla guida, il suo profilo è incantevole. Lo osservo con tutta me stessa e mi chiedo ancora come faccia a tollerare ogni giorno la presenza di mia madre.

    «Allora, sei pronta per l’ultimo anno di liceo?», mi domanda con una voce soave, aiutandomi ad allacciare la cintura.

    «L’importante è finire», gli rispondo con un tono autorevole, quasi glaciale. «Tutto il resto non conta».

    «Non hai ancora cominciato», cerca di rassicurarmi lui con un’espressione dolce. «Non essere così distruttiva».

    «Io so soltanto che devo liberarmi di questo inferno», dico senza pensare mentre mio padre mi guarda sbigottito, come ogni anno. Il primo giorno di scuola è sempre stato così, non riesco a dimenticare quell’attimo che ha annientato la mia infanzia. Non l’ho mai confessato a nessuno. E d’improvviso mi carezza la guancia. La sua mano è così grande, protettiva e il suo calore mi rassicura, allontanando tutto il dolore, tutta l’ansia di questa torturante mattina. Mi rassicura persino quando si infila la cintura lui stesso, avvia il motore ed esce dal garage, utilizzando i rispettivi telecomandi per abbassare la serranda e aprire il cancello automatico per poi imboccare subito la strada.

    Guida attraverso le vie della città con uno sguardo fiero e tranquillo. E orgoglioso. Forse di me e del mio ultimo primo giorno di scuola, nonostante la mia riluttanza. Forse pregustando una vittoria già certa nell’aula di un tribunale. Sì, perché ogni volta che un giudice scorge il nome di Tommaso Rossi, lo guarda con ammirazione infinita, quasi fosse intimorito dalla sua bravura, da un avvocato così determinato da vincere tutte le cause, da incutere una paura atroce.

    Ricordo la sua tenacia in un processo in cui tutti – compresa me – lo ascoltavano con una stima immensa. Era una causa abbastanza complessa e intricata.

    Lo scorso anno una signora ha chiesto l’aiuto di mio padre perché riteneva il proprio figlio un assassino. Secondo lei era stato lui ad avvelenare il suo cane e chiedeva il risarcimento per danni morali. Io conoscevo quel ragazzo: si chiamava Gabriele, eravamo in classe insieme alle scuole medie. Bravissimo in tutte le materie, i professori lo consideravano un genio. Lui amava gli animali sopra ogni altra cosa, eppure la sua famiglia non la pensava così: ricordo le scenate dei genitori in classe, davanti agli occhi terrorizzati di tutti noi. Gabriele non aveva continuato gli studi, suo padre l’aveva costretto a lavorare nel bar di famiglia. E da lì aveva cominciato ad avere un atteggiamento scontroso, distante, quasi che stesse tramando qualcosa. Quel povero cane che Gabriele diceva di amare tanto era stato ritrovato morto una mattina d’autunno e sua madre lo aveva denunciato. Non ho mai capito cosa avesse scaturito quell’uccisione brutale. Mio padre era uscito vincente dal tribunale, tra gli applausi di tutti: aveva convinto il giudice a condannare il ragazzo a due anni di prigione. La madre aveva urlato di gioia. Sembrava più felice dell’idea di liberarsi del figlio piuttosto che di aver trionfato grazie ad uno degli avvocati più bravi della città.

    Il cambiamento repentino di Gabriele mi aveva profondamente turbato: lo studente modello diviene improvvisamente l’uccisore di creature innocenti, come se una parte di lui fosse rimasta nascosta per diciassette anni. Essa scalpita, desidera uscire ardentemente, con ogni forza possibile. Forse lo stesso Gabriele si è stupito di questa forza, di quest’atroce ribellione. Non si può sfuggire al proprio essere. Chi fugge è codardo.

    Ed io ora non posso fuggire. Il vicolo appare improvvisamente, provocando il ritorno di ogni sofferenza. Lo sguardo di mio padre diviene un misto di dolcezza e determinazione, i miei occhi lo stanno supplicando di non svoltare per quel vicolo maledetto, di non prendere la strada del liceo. Ma è troppo tardi. Ormai scorgo quell’edificio, quell’ammasso di cemento bianco che mi intossica, mi distrugge la vita. Gli studenti sono già lì: chi parla, chi fuma, chi si vanta dell’estate trascorsa a ubriacarsi ogni sera, mentre io non avrò nulla da raccontare né tantomeno da condividere.

    Mio padre parcheggia al solito posto davanti alla scuola. Scende di corsa e si dirige verso il portabagagli, aprendolo senza far rumore. Le mie lacrime tentano di uscire, di oltrepassare le palpebre, di liberare tutto il loro odio, ma in qualche modo cerco di trattenerle: non voglio farmi vedere in questo stato. La mia vita è sempre stata una castrazione, una continua negazione di me stessa. Non lo sto scoprendo oggi.

    Ormai lui è lì, spinge la sedia nella mia direzione. Mi slaccia la cintura e mi prende in braccio, sotto lo sguardo attento degli studenti. Soltanto quelli del primo anno mi guardano stupiti, gli altri ormai sono abituati alla mia visione. Sento un fuoco ribollirmi dentro, nelle vene, nelle arterie, in tutto il sistema circolatorio. Il diaframma è sul punto di esplodere, lo stomaco è talmente contratto da indurmi una nausea intollerabile. Non riesco più a trattenermi, una lacrima esce, sfugge al controllo: non posso fermarla, è troppo densa di dolore.

    Mio padre sembra accorgersene, ma non ha alcuna reazione, resta impassibile mentre mi poggia sulla sedia per l’ennesima volta. Bacia quella guancia rigata, colma di una sofferenza atroce, di una tortura infernale.

    «Ti voglio bene, tesoro». La sua dolcezza è infinita, mi conforta e pian piano gli organi riacquistano le proprie posizioni, le lacrime non tentano più di uscire, di sprigionare la loro ira funesta.

    «Anche io, papà». Attacco la borsa allo schienale, lo guardo negli occhi. Si sta rimettendo alla guida e mi sorride per l’ultima volta prima di partire per il tribunale. Chissà quale vittoria l’attende. Chissà quale processo l’attende.

    Io conosco soltanto il mio e dovrò affrontarlo per l’ultima volta.

    Finalmente riesco a varcare la soglia di quell’edificio. Mi rendo conto soltanto adesso di essere stata a fissare il vuoto per cinque minuti infiniti: in realtà guardavo lo scivolo e le scale all’ingresso della scuola, chiedendomi come sempre il motivo per il quale a nessun adolescente venga mai in mente di utilizzare lo scivolo o magari anche l’ascensore.

    Ma la voce inconfondibile di Elena Fattori mi riporta alla realtà: la ascolto raccontare al solito gruppo di amiche la sua estate meravigliosa, la sua prima esperienza sotto le lenzuola. La mia compagna di classe mi rivolge un cenno con la mano, io ricambio con un mezzo sorriso forzato. Proseguo diretta verso l’ascensore, rispondendo con indifferenza alle persone che mi salutano. Voglio soltanto andare in classe e finire questa recita da quattro soldi.

    Quando raggiungo l’aula, mi accorgo che non è cambiato nulla rispetto a tre mesi fa: soliti banchi, solite sedie, solita lavagna. Eppure accanto al mio banco in prima fila scorgo una ragazza che non ho mai visto prima: è carina, ha una carnagione chiarissima, un viso molto lineare circondato da capelli castani, lunghi fino alle spalle. Indossa dei jeans scoloriti e una maglietta con la bandiera americana. Appena mi scorge, sulle sue labbra si stampa un sorriso sincero e malinconico allo stesso tempo. L’ansia sta per assalirmi, lo sento. Eppure lei si alza e mi viene incontro con un’incredibile nonchalance.

    «Ciao, scusa se ho preso il tuo posto», mi dice con una voce calma, che frena l’ansia sul nascere.

    «Non preoccuparti», riesco a risponderle, sorprendendomi della mia stessa tranquillità. In teoria già dovrei provare disagio. «È che non sono abituata a vedere qualcuno in classe così presto. In genere sono la prima ad arrivare in aula da quattro anni a questa parte».

    «Vuol dire che quest’anno saremo in due», aggiunge, porgendomi la mano. «Comunque io sono Veronica, piacere di conoscerti».

    Le stringo la mano con naturalezza. «Sara, piacere». Mi accorgo che, al di là della splendida compagnia di mio padre, sto sorridendo per la prima volta da una settimana. È una sensazione positiva. Spingo la sedia verso il banco in prima fila: quel posto è mio ormai da quattro anni ed è sempre stato isolato, con un tavolo accanto rigorosamente vuoto. Meglio così, almeno ho due banchi tutti per me.

    «Posso restare seduta vicino a te?». Una semplice domanda può risvegliare mille pensieri? Nessuno mi aveva mai posto quel quesito al di fuori della mia famiglia, nemmeno durante le poche gite scolastiche a cui ho preso parte, quando accanto a me nel pullman sedeva la mia insegnante di sostegno.

    «Tutto bene?». Un’altra domanda, che questa volta mi ridesta da quei ricordi negativi. Alzo lo sguardo verso di lei. È incredibile la naturalezza con cui mi parla. La naturalezza con cui continua a sorridermi.

    «Scusami, stamattina sono accecata di sonno». Dico la prima cosa che mi viene in mente, non posso di certo rivelarle cosa sto pensando realmente. Come scusa, mi pare buona.

    «Normale, è il primo giorno», mi rincuora lei. «Anche io ho fatto fatica, ma non hai ancora risposto alla mia domanda». Di nuovo quei pensieri.

    «Ah, sì. Accomodati pure». Ormai non mi ascolto nemmeno, la mia testa è altrove. La guardo mentre si sistema in quel posto rimasto vuoto per anni: è così strano vederlo improvvisamente occupato da qualcuno.

    «Da quale scuola vieni?», le chiedo d’istinto. L’ennesima domanda, questa volta spuntata da chissà quale angolo della mia mente confusa.

    «Io e la mia famiglia ci siamo trasferiti da poco in questa città», ribatte lei dopo qualche secondo. «Non conosco nessuno. A parte te, ovviamente. Invece mio fratello sicuramente si sarà già fatto un sacco di amici. Gli basta un secondo per socializzare». Lo dice con una punta di rammarico, come se fosse davvero dispiaciuta di non avere quella capacità.

    «È più piccolo di te?». D’improvviso la curiosità è più forte di ogni stupore. Più la osservo, più sono disinvolta.

    «Di qualche ora». Una risposta secca. Veronica abbozza un sorriso, molto probabilmente in risposta al mio sguardo perplesso. Ma mi bastano pochi attimi per capire la verità: «Hai un gemello?».

    «Sì, e avrebbe dovuto essere qui già da un pezzo». Controlla l’orario sul suo telefono, un iPhone di vecchia generazione: le 8:10. Sembra un po’ preoccupata, ma non vuole darlo a vedere.

    «Perché non venite a scuola insieme?», le chiedo d’impulso. Ormai la mia curiosità ha preso il sopravvento, eppure il suo sguardo ora è vago: sul viso traspare un velo colmo di tristezza, di malinconia, di insicurezze. Gli sprazzi di serenità che aveva fino a pochi istanti fa sembrano essere svaniti nel nulla. «Scusami, non volevo essere invadente».

    «Ma figurati», mi rassicura, abbozzando ancora un mezzo sorriso. «Non lo sei affatto. Comunque, per rispondere alla tua domanda, lui ha la macchina, perciò vuole andare da solo. I miei gliel’hanno comprata da poco per premiarlo della sua media scolastica. A me hanno detto che me la compreranno quest’anno solo se mi diplomo con un voto superiore almeno all’80: cosa altamente improbabile, dato che ho la media del sei. Ma tanto non me ne importa nulla». Lo dice tutto d’un fiato, poi fa un respiro profondo: si mostra sollevata, come se si fosse liberata di un peso enorme sullo stomaco. Sembra più tranquilla, rilassata. Mi rivolge addirittura uno sguardo complice.

    «Ti aiuterò io, se vuoi», le dico spontaneamente, senza pensarci su nemmeno un secondo. Veronica intanto guarda costantemente l’orologio, preoccupata di chissà cosa: le 8:15.

    «Grazie, accetterò volentieri qualsiasi forma di aiuto». La sua risposta mi coglie alla sprovvista, come se non avessi mai parlato, come se fosse stato tutto un sogno: è così irreale che qualcuno perda il proprio tempo a parlare con me. Non lo ha mai fatto nessuno in quattro anni di liceo.

    Immersa in questi pensieri, il timbro deciso e reale di Veronica smentisce subito la mia teoria: «Ah, ecco mio fratello. Come ti avevo anticipato, si è già fatto degli amici». Volgo il mio sguardo verso la porta, scorgo un gruppo di compagni di classe che mi ha sempre ignorato, quasi che io fossi un essere invisibile, un’entità sconosciuta. Li osservo con disprezzo mentre chiacchierano, mentre discutono di calcio, di donne, mentre si prendono scherzosamente in giro. Eppure all’improvviso avverto qualcosa. Qualcosa che nasce, qualcosa che cresce a massima velocità dentro di me: una fitta allo stomaco, un brivido indefinibile lungo il viso, il collo, il torace, il cuore. Le mie pulsazioni aumentano vertiginosamente. La testa si stacca dalla metà funzionante del mio corpo.

    Lo riconosco subito tra gli altri.

    Improvvisamente, tutto cambia.

    Un’onda mi travolge, un fulmine annienta il mio essere, il mio io: lui è lì, entra in classe con estrema disinvoltura, come se conoscesse tutti da sempre. Lo guardo mentre sta parlando con Elena, che sembra essersi già dimenticata del suo ragazzo. Lo ammiro in tutta la sua bellezza, contemplo ogni piccolo particolare: ha i capelli corti castani, un filo di barba. La bocca si apre in un sorriso meraviglioso, che emana una luce del tutto nuova, un bagliore che quasi mi acceca. Indossa una t-shirt bianca e jeans neri. Il suo fisico è perfetto, alto, slanciato, fiero. Quel qualcosa sta crescendo ancora, ininterrottamente: una miscela di sensazioni totalmente sconosciute che ora addirittura sembra estremamente grande per essere contenuta nel mio corpo minuto.

    Sono sul punto di scoppiare. Mi aggrappo al banco, lasciando visibili le impronte delle mie dita sudate. Ho le mani freddissime, non avverto quasi più nemmeno la circolazione sanguigna. Non posso reggere tutte queste emozioni. Di questo passo, esploderò davvero.

    «Era ora!», grida Veronica al fratello, alzandosi dalla sedia, ma lui sembra ignorarla.

    «Stefano, sto parlando con te!», grida ancora Veronica. Così scopro il nome di quel ragazzo, senza nemmeno il bisogno di presentarmi.

    «Che cosa vuoi?», le risponde Stefano con aria seccata.

    Veronica distoglie lo sguardo, prende nuovamente il suo posto accanto a me: è affranta e d’improvviso assume l’aspetto di una vecchia signora di almeno cent’anni. Mi lancia un’occhiata stanca, rassegnata, come per cercare conforto e rassicurazione. L’ho incontrata per la prima volta dieci minuti fa, ma mi sembra di conoscerla da anni.

    Io non mi trovo più lì: i pensieri vagano, si perdono in un labirinto sperduto, in un luogo senza via d’uscita. È come essere rinchiusi in una prigione per i detenuti più pericolosi, mi sembra già di sentire le sbarre contro il petto, mentre sto tentando disperatamente di uscire da quel vicolo cieco.

    È più forte di me, devo guardarlo ancora. Osservo Stefano chiacchierare con i suoi nuovi compagni di classe, gli stessi che non hanno mai nemmeno pensato di includermi nei loro discorsi, di invitarmi ad una festa o di chiedermi qualcosa. Ora la loro attenzione è concentrata tutta sul nuovo arrivato. E in effetti anche la mia. Ogni volta che guardo Stefano, avverto quella sensazione di impossibilità di via di fuga, sento il cuore martellare, quasi a volersi liberare da una camicia di forza, come se volesse urlare al mondo intero cosa sta accadendo al mio animo.

    Una mano mi accarezza la spalla. Mi coglie così alla sprovvista da dare un colpo al banco davanti a me. Mi giro di scatto e vedo la Professoressa Gabriella Marini, la mia insegnante di sostegno.

    «Mi dispiace, non volevo spaventarti», mi fa con un sorriso perplesso. Anche lei sembra invecchiata rispetto all’ultima volta che l’ho vista, come se l’estate fosse durata trent’anni invece dei consueti tre mesi. È una donna alta e snella di circa quarant’anni, con biondi capelli che le scendono lungo le spalle. Indossa una camicia beige e pantaloni neri. Un look molto formale, forse anche troppo.

    «Non si preoccupi, Professoressa, il primo giorno è sempre così. Come sta?». Pronuncio queste parole con un affanno smisurato, quasi mi trovassi improvvisamente catapultata sulla cima del Monte Everest, in cerca di ossigeno.

    «Io sto bene, grazie. Tu come stai? Hai trascorso delle belle vacanze?», mi chiede con un sorriso forzato. Lei sembra accorgersi del mio stato emotivo, ma fa finta di niente. Avrà ben altro da pensare, mi dico. Non so perché, ma avverto qualcosa di strano nella sua voce, quasi fosse timorosa anche di parlare. Sicuramente è una mia sensazione, dato che stamattina niente è come sembra, almeno per me. Nel frattempo mi sto pian piano riappropriando della realtà: almeno devo cercare di sforzarmi di non pensare a nulla. L’affanno sta diminuendo, il respiro sta ritornando alla normalità.

    «Sì, sono stata a Città del Messico con la mia famiglia. Due bellissime settimane», riesco a risponderle. In realtà non è proprio così, almeno per quanto riguarda il viaggio. Il concetto di bello non mi appartiene. Durante la vacanza tutti mi hanno trattato egregiamente, quasi fossi una diva di Hollywood da proteggere dai paparazzi. Mi chiedevano ogni minuto se stavo comoda sulla poltrona della hall dell’albergo dove mio padre o qualcun altro mi aveva adagiato, se il cibo era di mio gradimento, se mi serviva qualcosa in particolare. Anzi, ora che ci penso non lo chiedevano direttamente a me. Lo chiedevano ai miei genitori, specialmente a mia madre, che si accingeva piacevolmente a rispondere a tutte le domande che le porgevano. Chissà, forse in Messico esiste la convinzione che chi è su una sedia a rotelle non è capace nemmeno di proferire parola. No, in realtà non è così. Mi accade continuamente, in Italia così come in tutti i luoghi del mondo che ho visitato. Deve essere una caratteristica intrinseca del genere umano, di qualunque nazionalità.

    «Bene, mi fa piacere», mi fa la Professoressa Marini. Non so perché, ma mi sembra trascorsa un’eternità da quando mio padre mi ha lasciata davanti alla scuola.

    «Non mi presenti la tua amica?», mi domanda ancora, sorridendo e volgendo lo sguardo verso Veronica, ancora triste per lo scontro con il fratello, o meglio per il non-scontro. In effetti alla mia insegnante di sostegno deve essere sembrato strano vedere qualcuno accanto a me, dopo quattro anni in cui nessuno si era azzardato ad occupare quel banco. Ha un’aria stranita, ma almeno questa volta il suo sorriso sembra sincero.

    «Sì, mi scusi. Lei è Veronica, una nuova compagna di classe che si è trasferita da poco in città». Mi giro verso di lei, che pare risvegliarsi non appena sente pronunciare il suo nome. Ha uno sguardo assente, ma le sorrido ugualmente. «Veronica, permettimi di presentarti la Professoressa Marini, la mia insegnante di sostegno». Finalmente lei ricambia il mio sorriso. O quantomeno, ci prova in tutti i modi.

    «Piacere di conoscerla, Professoressa. In realtà non sono da sola, c’è anche mio fratello Stefano. Ci siamo trasferiti quest’estate». Lo dice tutto d’un fiato, stringendole la mano con fare educato. Non insistere, Veronica. Ti prego, non farlo. Non pronunciare il suo nome. Da quando è arrivato in classe, non riesco a smettere di ascoltare la sua voce, che ora si è di nuovo amplificata. Perché hai osato nominarlo?

    Adesso so che ritornerà l’affanno, il cuore pulsante, la sua voce dentro il mio esile corpo. E quel qualcosa che non smette di crescere.

    E infatti eccolo lì. Il fiato diventa sempre più corto, le palpitazioni aumentano. Questa volta la Professoressa Marini non può far finta di niente. Mi domanda se mi sento bene, mentre Veronica si mostra anch’essa preoccupata. No, non sto affatto bene. Ci mancava anche questa, come se la mia vita non fosse già abbastanza pesante.

    Mi aggrappo di nuovo al banco per riprendere il controllo del mio corpo, quasi fosse l’ultima ancora di salvezza. In effetti è così: il respiro ritorna regolare, la frequenza cardiaca è nuovamente nella norma.

    «Sto bene, sono solo un po’ stanca», mi rivolgo alla mia insegnante di sostegno e a Veronica, che mi stanno ancora osservando con aria perplessa e preoccupata. Per la verità, sono sfinita, quasi che avessi appena concluso una lunghissima serie di sollevamento pesi. Così quando scorgo sulla soglia dell’aula il Professore di latino e greco, il signor Fabio Arezzi, un uomo tutto d’un pezzo sulla cinquantina, decido di cogliere la palla al balzo per riprendermi e far distogliere l’attenzione da me. «Ah, guardate, è arrivato il Prof. Comincia ufficialmente l’ultimo anno di liceo», dico sforzandomi di sorridere.

    E mentre Veronica ricambia il mio sorriso, la mia insegnante di sostegno mi si siede accanto. Tutto sembrerebbe essere tornato alla normalità.

    Se non per un piccolo grande dettaglio: quella voce non è affatto scomparsa.

    2

    Mi sto scervellando per tradurre questa versione di greco. Da quando è cominciata la scuola concentrarsi è diventata un’impresa ardua, spesso quasi impossibile. I pensieri mi sovrastano, come se il mio corpo fosse immerso tra le onde di un mare in tempesta. Non so nuotare, non so riemergere, non so tornare a riva. Sono in balia delle onde, mi sento soffocare, non c’è nessuno in grado di soccorrermi. Questa volta me la dovrò cavare da sola. Perché non si può domare un fuoco che arde dentro. Perché le emozioni prevalgono sulla razionalità. Eppure io non posso farle vincere: la mia vita si è sempre fondata sulla ragione e sul controllo di tutto. E una legge della fisica difficilmente può mutare.

    Mi ritrovo a guardare la mia stanza. È sempre stata il mio rifugio, quasi come se qui dentro fosse sbocciata una parte della mia anima che si nasconde tra le spesse mura. Ha una pianta quadrata ed è molto spaziosa. È dotata di tutto: osservandola dalla soglia della porta in legno massiccio, si vede il letto al centro della stanza circondato da un piccolo comodino di legno dotato di abat-jour e dal divano rosso a destra e dall’armadio ocra a sinistra, con gli scaffali della biblioteca di fronte, vicino alla finestra che dà sul balcone. Accanto a quegli scaffali colmi di libri di ogni genere, l’angolo della parete è occupato da un televisore di ultima generazione, che non accendo quasi mai, se non per guardare la sera qualche thriller da due soldi sdraiata sul letto. Ora che ci penso, non mi sono mai seduta su quel divano. Sarebbe troppo stancante, ogni volta la fatica mi costerebbe troppa energia. Per me è soltanto un inutile pezzo di arredamento scelto dai miei genitori, di cui potrei fare tranquillamente a meno. Probabilmente un giorno lo sostituirò con degli ulteriori scaffali per la biblioteca. Lo spazio per i libri non basta mai, soprattutto per una lettrice accanita come me.

    Adesso sono alla scrivania di legno posta tra la finestra e l’armadio, immersa a contemplare gli alberi ormai ricchi di foglie gialle, quelle tipiche dell’autunno. E mi ritrovo a pensare ancora al giorno che ha cambiato ogni prospettiva, ogni angolo della mia vita.

    Da quel primo giorno di scuola, niente è più come prima. Quella mattina il Professor Arezzi, l’insegnante di latino e greco, ci ha presentato i due nuovi compagni di classe, Stefano e Veronica Favilla. Due fratelli gemelli completamente diversi. In tutto. Lui è brillante e socievole, lei è timida e insicura.

    Guardo l’orario sul telefono: le 17:43. Sono trascorse due ore da quando ho cominciato a tradurre e non sono arrivata nemmeno a metà versione. Molto strano, visto che solitamente impiego poco meno di novanta minuti per finirla. Così prendo il diario, lo apro e vedo che per domani ci sono ancora gli esercizi di matematica, oltre ovviamente alla traduzione da completare.

    Almeno non devo studiare, penso. Almeno non ora, perché per fortuna non sono ancora cominciate le interrogazioni orali: d’altronde è trascorsa soltanto una settimana dall’inizio della scuola. Quasi sicuramente lo scorso anno, in questo stesso periodo, avrei già cominciato a prepararmi per le prime verifiche orali. Ma ora è diverso, ho altro per la testa. Vaga smarrita, confusa, eppure improvvisamente un dettaglio la distrae. Sto ancora guardando la pagina del diario, con tutti i compiti per domani, quando noto qualcosa di strano su un angolo, qualcosa che non ci dovrebbe essere, come un personaggio a colori nei vecchi film in bianco e nero. Mi avvicino per guardare meglio, noto che c’è scritto il nome Veronica, seguito da un numero a sette cifre. È una calligrafia minuta, ma chiara e leggibile.

    E il ricordo riemerge subito: il secondo giorno di scuola, durante il cambio dell’ora, Veronica mi aveva chiesto di scambiarci i numeri di telefono.

    «Così ho una nuova amica con cui parlare!», ha esclamato. Io l’ho guardata con aria perplessa. Ha davvero pronunciato la parola amica? O me lo sono soltanto immaginato?

    «Sara, che hai? Stai bene?», mi ha poi domandato lei, essendosi forse accorta del mio stupore. Ero rimasta a fissarla per troppo tempo senza proferire alcun verbo, ripensando a quella parola che lei aveva pronunciato con una tal leggerezza da destabilizzarmi.

    «Sì, sto bene, scusa. Stavo soltanto cercando di ricordare il mio numero. Sai, la memoria non mi assiste molto in questo periodo», ho risposto mentendole spudoratamente. Ricordo che lei ha scrollato le spalle con un sorriso stampato in viso, facendo finta di nulla e scrivendo il suo numero su una pagina del mio diario poggiato sul banco.

    Mi ero completamente dimenticata di quell’episodio. E il motivo è semplice: ho sempre in mente la sua immagine, la sua voce, il suo modo di parlare, di camminare, la sua sfrontatezza. Stefano non mi ha mai degnata di uno sguardo in una settimana, non si è nemmeno presentato con un cenno di mano, adottando lo stesso comportamento degli altri. Eppure lui non mi dà fastidio. In fondo a me basta così per ora, mi accontento di osservarlo da lontano ogni giorno, quasi fosse una stella di Hollywood irraggiungibile e io fossi la sua prima fan.

    Ecco, lo sento arrivare ancora. Il cumulo d’angoscia sale lentamente come un vecchio ascensore in un vano strettissimo. Solo che quel vano ora è il mio corpo, il mio esile corpo sempre più soffocato dal grumo crescente di angoscia mista ad ansia e inquietudine. Esso attraversa i miei organi, i miei muscoli, fino ad arrivare alla gola. Ormai lo sento vicino all’osso ioide, ma non posso lasciarlo libero, non posso permettergli di sfogare il suo essere. No. Cerco disperatamente di fermare la sua corsa, di ostacolarlo ingoiando quel po’ di saliva che mi è rimasta. E improvvisamente mi torna in mente Veronica.

    Penso che sarebbe un’ottima idea scriverle adesso: d’altronde ho bisogno di conforto, ho la necessità di combattere quel corpo estraneo in gola, ora come non mai. La situazione potrebbe diventare ancora più insostenibile, ma è un rischio che devo correre. Così prendo il mio iPhone, lo sblocco con l’impronta digitale, compongo il numero di Veronica e le scrivo un breve messaggio:

    Ciao Veronica, sono Sara. Come stai? Io sto cercando di tradurre, ma questa versione di Aristotele è davvero difficile! Tu che fai?

    Lo invio senza nemmeno rileggerlo, spinta dal desiderio di poter almeno pensare ad altro, di poter abbattere in qualunque modo quel cumulo d’angoscia. Provo a continuare la mia traduzione, guardando la versione ancora incompleta sul mio quaderno. Mi sforzo di trovare un senso a quel testo, ma invano. È difficile scorgere un significato in qualcosa, quando non riesci a trovarne uno nemmeno in te stessa. Sfoglio il vocabolario di greco in cerca di una parola che mi dia un input, qualcosa per riprendere la versione. Prima o poi finirà, ma mi mancano ancora sei righe. Ho tradotto soltanto quattro righe in due ore. Penso di aver stabilito un nuovo record.

    Ma di colpo sento un suono insolito, quasi fastidioso, come un rumore improvviso nel cuore della notte. Proviene dal telefono che si è appena illuminato, facendo apparire la notifica di un messaggio. Che strano, penso. Non sono abituata a quel suono. Prendo l’iPhone e leggo la risposta di Veronica:

    Ciao Sara, finalmente ti fai sentire! Aspettavo da tanto un tuo messaggio. Io sto guardando le repliche di Games of Thrones, già mi manca! Prima ho dato un’occhiata alla versione, ma ho perso subito la speranza. In effetti contavo su di te, solo tu puoi essere capace di tradurre Aristotele. Ma in compenso ho fatto già gli esercizi di matematica, erano davvero facili. Se vuoi, te li farò vedere domani a scuola. Così potremo fare un bel lavoro di squadra!

    Lo rileggo più volte, incredula che qualcuno mi abbia scritto un messaggio così incredibilmente puro, ma incredula ancor di più del fatto che qualcuno conti su di me e sulle mie capacità. Guardo nuovamente la versione di greco e improvvisamente tutto diviene più chiaro, come se dentro di me fosse sorta una nuova luce dopo anni di buio infernale. Devo mettermi al lavoro prima che si spenga, prima che muoia definitivamente. Rispondo velocemente a Veronica:

    Ok, cercherò di fare del mio meglio per tradurre questa versione! Se non riuscirò a fare gli esercizi di matematica, sarò ben felice di chiedere il tuo aiuto. Buona serata!

    Mentre poggio il cellulare sul tavolo, ripenso a qualche giorno prima, quando Veronica mi aveva confidato che odiava le materie umanistiche. In effetti non è molto brava in latino e greco, ma in compenso è un genio in matematica. Ricordo che durante una lezione la guardavo risolvere i problemi e le equazioni con facilità impressionante: per lei è come bere un bicchier d’acqua.

    È praticamente il mio opposto: anche io me la cavo in matematica, ma in realtà non capisco la materia fino in fondo, non riesco mai a entrare pienamente in quel mondo di numeri, come se fosse necessaria una chiave speciale per accedervi. Io non la possiedo, Veronica invece è in grado di aprire tutte le serrature chiuse a doppia mandata. E quando quel giorno le ho chiesto perché non avesse scelto il liceo scientifico, data la sua bravura in matematica, mi ha guardato con aria affranta, per poi tornare ai suoi esercizi. Mi sono subito pentita di aver fatto quella domanda. Ero mortificata, ma lei sembrava già aver dimenticato l’intera faccenda dopo pochi secondi. Mi ha anche spiegato con cura un procedimento che io non ho mai compreso. Fino a quel momento, ovviamente.

    Guardo ancora l’orario sul telefono: sono le 18:01. Mi devo concentrare sulla versione, altrimenti non riuscirò mai a finirla entro oggi. Se non lo voglio fare per me, lo farò almeno per Veronica.

    Non so perché, ma sento che glielo devo.

    Ho appena finito la traduzione, ed è quasi ora di cena. Oggi va così. Non avevo mai impiegato tanto tempo: forse sto davvero peggiorando. Eppure il rendimento scolastico è sempre stato molto importante per me, quasi vitale. Per quanto possa odiare la scuola, da sempre mi impegno al massimo in tutte le materie, anche in quelle che mi piacciono di meno. Per la ricerca di una perfezione, credo. E per il desiderio di essere la migliore della classe, forse anche dei vari istituti che ho frequentato, cosa che in un certo senso corrisponde alla realtà.

    In questi quattro anni di liceo, sono stata sempre premiata tra gli allievi migliori della scuola. Ogni volta aspettavo quel giorno con trepidazione, con un’euforia strabiliante, con l’ansia di guardare i frutti del mio lavoro. Ma quella stessa trepidazione si trasformava puntualmente in delusione, perché durante la cerimonia, che si teneva nell’aula magna della scuola, guardavo gli altri parlare tra di loro, incoraggiarsi e congratularsi a vicenda, mentre io ero a lato delle prime file di sedie con la mia insegnante di sostegno, isolata. I miei genitori erano tra il pubblico, ma io non avvertivo nemmeno il loro supporto. Ero completamente annientata dalla spensieratezza dei miei compagni, che non solo conducevano una vita normale, ma erano anche delle eccellenze: per me era inconcepibile che riuscissero a conciliare le due cose. Ricordo che li guardavo con un misto di invidia e stupore, perché avevo e ho tuttora la convinzione che io non sarei mai riuscita a rientrare tra i migliori studenti se non fossi stata su una sedia a rotelle. Io ho concentrato tutta la mia vita sullo studio, altrimenti sarei stata sicuramente una studentessa mediocre. Quando giungeva il momento della mia premiazione, ero così angosciata che facevo persino fatica a stringere la mano al Preside della scuola, il signor Salvatore Lombardi. Un uomo sulla sessantina sempre distinto ed elegante, alto e possente, ma mai autoritario e sgarbato. La Professoressa Marini spingeva la mia sedia attraversando lo scivolo fino ad arrivare al palco, dove tutta la commissione mi osservava con una tale ammirazione che la mia frustrazione cresceva ancora di più: non meritavo quella stima totale, quell’applauso così lungo e assordante da farmi venire i brividi di paura.

    Lo riesco a percepire anche adesso, così come quella frustrazione che tutte le volte mi ha sempre annientata, che mi ha sempre fatto piangere almeno un paio d’ore quando finalmente tornavo a casa dalla cerimonia. I miei genitori facevano sempre finta di nulla, anzi organizzavano ogni anno una festa con amici e parenti. Io odiavo quelle feste. Insomma, aspettavo con ansia quel giorno, ben sapendo che si sarebbe trasformato in un incubo, nonostante coincidesse con la fine della scuola.

    Eppure negli ultimi sette giorni qualcosa è cambiato in me. D’improvviso lo studio è diventato un elemento secondario, non più così vitale, è passato direttamente in secondo piano per lasciare spazio al mio Io, ai miei sentimenti più intimi, più nascosti. Non avverto più come prima il senso del dovere, non mi interessa se prenderò delle insufficienze, anche se questo è l’ultimo anno di liceo e dovrò affrontare la maturità. D’altronde, se non fosse stato per Veronica, non avrei nemmeno finito la traduzione e molto probabilmente avrei inventato una scusa con il Professor Arezzi.

    Percorrendo il corridoio che divide la zona notte dalla zona giorno, i miei occhi si fermano per un istante sulle sue pareti colme di fotografie, quadri e dipinti ottocenteschi, un’altra passione di mio padre. Lui ha la straordinaria capacità di fotografare tutto per poi trasformarlo in una meravigliosa opera d’arte: può rendere perfetta anche l’immagine di un semplice piatto di pasta, sfoggiando colori sgargianti e sfumature uniche. Mi ritrovo di colpo a osservare una fotografia sulla parete sinistra del corridoio. Scorgo un mio primo piano sotto il cielo di Parigi, che abbiamo visitato lo scorso anno in agosto. Ho un sorriso così spensierato che quasi non mi riconosco: la carnagione è chiarissima, i lineamenti sono rilassati, i capelli mi scendono lungo le spalle, una maglietta aderente risalta incredibilmente il mio seno poco prosperoso. È stupefacente come l’acquisizione di un istante di vita possa distorcere del tutto la cruda realtà: quella fotografia mostra una semplice sedicenne in cerca del proprio futuro e cela ogni sofferenza, ogni dolore che caratterizza la mia esistenza da quando sono nata. L’apparenza ingannerebbe chiunque, quasi fosse il meraviglioso vaso di Pandora contenente tutti i mali del mondo.

    Mi dirigo verso il salotto, dove mia madre è seduta sul divano verde a guardare uno di quei quiz preserali. Sembra talmente catturata dai colori del televisore che non si accorge nemmeno del mio arrivo. Ha uno sguardo perso, non ho idea se per il programma televisivo o per qualcos’altro. Ultimamente l’ho notato spesso, come se in quei momenti partisse per un lungo viaggio senza poter far ritorno, come se fosse rimasta bloccata in una dimensione ultraterrena dalla quale è difficile uscire. Ed ora riesco a osservarla meglio: ha un viso proporzionato adornato da occhi castani, capelli tinti di un biondo cenere raccolti in una coda di cavallo, un aspetto slanciato. Merito della palestra, dove va tre volte la settimana. Ci andrebbe anche se nevicasse, anche se improvvisamente finisse il mondo, perché per lei è come una fonte di vita. Pochi giorni fa le hanno anche donato il tesserino dei clienti affezionati. Quando me l’ha mostrato, ho notato che era personalizzato: in evidenza c’era il nome Francesca Meteni, scritto accanto ad una piccola fotografia sfocata e ad altri dati personali. Lei è stata molto contenta, come se le avessero dato un premio Nobel, e mi ha detto che lo avevano dato a pochissimi altri prima di lei. Me lo ha riferito con un’espressione euforica, spensierata: e ora che la osservo meglio, noto che di quello sguardo non è rimasto nulla, nemmeno un’ombra. Sembra ipnotizzata.

    «Mamma?», le faccio. Lei sobbalza sul divano, volgendo lo sguardo verso di me. Uno sguardo atterrito e allo stesso tempo stupito, quasi che io fossi diventata un’estranea in quella casa.

    «Ah, sei tu! Scusami, ero completamente immersa nei miei pensieri. Che ore sono?», mi domanda esibendo un sorriso forzato.

    «Sono le 19:45, è quasi ora di cena. Hai cucinato qualcosa?», le chiedo. Sono talmente stanca che non mi accorgo nemmeno di parlare. Quella traduzione di greco mi ha letteralmente annientato i neuroni.

    «Sì, ho fatto una zuppa di verdure fresche, ma bisogna ancora apparecchiare la tavola, tra poco tornerà tuo padre. Ti andrebbe di darmi una mano?». I suoi occhi castani sono un misto di preghiera e speranza, come se in quella domanda fosse custodito il segreto della salvezza della Terra. Ma sono troppo stanca per accontentarla.

    «Stasera non ce la faccio, mi dispiace. Sono distrutta, devo ancora finire gli esercizi di trigonometria», le rispondo tutto d’un fiato.

    «Potrei aiutarti io dopo cena», propone lei. In effetti è sempre stato così, data la sua laurea in matematica. Non ha mai pensato di fare l’insegnante, perché ha sempre affermato di non sentirsi in grado di trasmettere il proprio sapere ai più giovani, anche se devo ammettere che con me ha dimostrato il contrario. Ma ora non mi va proprio di chiederle aiuto. A costo di prendere un’insufficienza, preferisco stare da sola.

    «No, non preoccuparti, questa volta sono sicura di aver capito il procedimento degli esercizi», le mento nonostante l’imbarazzo, perché sto seriamente valutando la proposta di Veronica: in fondo si tratterebbe di un semplice scambio. Ma conoscendomi sono sicura che dopo cena darò un’occhiata a quei quesiti. D’altronde, non credo di avere altro di meglio da fare.

    «D’accordo, ma se cambi idea sono disposta ad aiutarti». Scorgo lo sguardo deluso di mia madre, ma poi evidentemente decide di lasciar correre. Spegne la tv e si dirige verso la cucina. Decido di seguirla. Ho fame e voglio mangiare qualcosa in attesa della cena. Mentre mi sistemo al mio solito posto a tavola sprovvisto di sedia, sento di nuovo quello strano suono. Non può essere il telefono di mia madre. Lei ha un Android, per sua scelta: lo ritiene molto più semplice e sofisticato. A nulla sono valsi i tentativi di mio padre di persuaderla ad abbracciare il mondo Apple: per quanto mi riguarda, è questione di gusti. Io ho sempre avuto l’iPhone. Ricordo ancora il primo che mi hanno regalato i miei genitori: avevo soltanto dodici anni, ma a me non importava granché, perché non ne vedevo l’utilità, data la mia scarsa vita sociale. Mi sforzavo di sorridere e ringraziare, come quando si deve accettare un brutto regalo, per giunta inopportuno.

    «Sara, credo che il tuo telefono abbia ricevuto un messaggio», mi dice mia madre con un’aria quasi curiosa. La guardo accondiscendente, cerco il cellulare nella tasca della mia sedia e lo tiro fuori. In effetti è così: quando premo il dito sullo schermo, appare in evidenza la notifica di un messaggio. Scorgo il nome di Veronica e lo apro:

    Ho letto di nuovo la versione e sono entrata in preda al panico. Tu l’hai finita, vero? Sei la mia unica speranza!

    Io sarei la sua unica speranza? Non ha qualcun altro a cui chiedere? Non ha un fratello eccellente in tutte le materie? No, Sara, non pensarci nemmeno.

    Troppo tardi. Come un fiume in piena, improvvisamente mi torna in mente Stefano, la sua voce, il suo corpo. Respira, respira lentamente, non puoi farti vedere da tua madre in questo stato. Alzo lo sguardo: per fortuna lei è di spalle, impegnata a condire la zuppa di verdure. Mi sto riprendendo, ma poi sento il rumore di qualcosa che cade a terra. È il mio telefono:

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