Dove porta il vento
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Anteprima del libro
Dove porta il vento - Stefano Befera
casuale."
Nuovo Mondo
1912. Gli ultimi raggi del sole dai colori rosso vermiglio con riflessi rubino e dorati, coloravano tutta la vallata nel declino di una giornata tipica della metà di aprile. Riverberi, con tonalità di contrasti verde caldo e grigi con sfumature d’orchidea, rendevano ancora più incantevole Arpino, un paesino adagiato sui colli del frusinate. Tramontava il sole, e in un batter di ciglia, i riflessi tinteggiavano le case oltre le colline che prendevano tonalità calde, e fra le piccole pianure si intercalavano ombre e chiarori sino alla boscaglia. La natura pareva volesse mettere in risalto quel momento, e fare venire alla memoria altri tramonti ed epoche. Tali sfumature apparivano come se volessero prendere tra le braccia e marcare il paesaggio variegato nelle menti dei mortali che ivi dimoravano. Il calar del sole degradava lento verso l’orizzonte, lasciando a poco a poco più chiare e distinte le stelle e gli astri nell’oscurità dell’universo. Sul tardi l’assenza di luce mostrava la via lattea chiaramente riconoscibile con una scia, che all'apparenza indicava chissà se la direzione della sorte o della vita, mentre a rompere le tenebre c’era il suono distante dell’ultima canzone della balera prima della chiusura; e al chiar di luna, il paesaggio argenteo, veniva attraversato dalla cadenza dei rintocchi della campana di mezzanotte come se il comandante del tempo annunciasse la ritirata al suo esercito. Passò qualche ora e nel silenzio della notte si sentivano solo rieccheggiare lontani latrati di qualche cane solitario, come se proferisse alla luna uno sconosciuto disappunto. Nel contempo Otello Mancinelli e la moglie Marisa Ricci con la loro figlia di quattro anni Chiara, chiudevano per sempre dietro di loro il portone di quella che era stata la loro dimora, per recarsi verso piazza Municipio, dove c’era ad aspettarli la corriera. Durante il breve tragitto respiravano a pieni polmoni per l’ultima volta quell’aria, assaporando quell’odore tipico del luogo, fatto di legno bruciato mescolato al profumo del grano, che è il classico sapore che sa di montagna. Fiduciosi di lasciare per sempre dietro di loro la miseria ed un’esistenza magra e senza speranza. Tanti anni prima, grazie all’eredità dei genitori, avevano comprato la loro casetta che avevano da poco rivenduto, facendo un bel tesoretto e pensando di poter aprire una nuova pagina di vita. Con l’aiuto di Dio, poterono permettersi così di spendere circa 600 lire per acquistare 3 biglietti per attraversare l’atlantico.¹Con questa fiducia nella provvidenza decisero di emigrare, come tante famiglie di quell’epoca negli Stati Uniti d’America. Nel silenzio della notte camminando nei vicoli sentivano riecheggiare solitario il suono dei loro passi, mentre risuonava nella mente e nel respiro sincrono di ciascuno un’ansietà piena di mistero, mista a tanta speranza per l’avvenire. Saliti sul mezzo, si confrontarono subito con le facce più o meno assonnate degli altri viaggiatori, quasi tutti conosciuti. Erano facce famigliari che in paese durante le compere o nelle passeggiate di sicuro avevano incrociato. Otello dopo aver salutato in modo generico tutti, si sedette insieme alla moglie vicino a Gustavo ed Emma loro amici, nei sedili di dietro. Marisa con sulle ginocchia la bambina semiaddormentata rivolse loro solo un sommesso saluto. Prendevano tale mezzo ogni giorno, per recarsi dopo circa un’ora di percorso, al lavoro come altri braccianti nei terreni coltivati della cittadina di Teano, precisamente presso il Convento di Sant’Antonio, situato nella attigua campagna di Caserta. Collaboravano con i frati del convento aiutandoli nella coltura di grano e ortaggi vari. Vita dura e guadagno di pochi spiccioli che, anche se sicuri, consentiva loro appena di tirare avanti. Chiara, appena compiuto un anno, ogni giorno veniva accompagnata da Giulia, una loro vicina di casa, vedova, che la accudiva amorevolmente dietro un piccolo compenso, sino al loro ritorno nel tardo pomeriggio. Durante il viaggio Gustavo e Emma, si rivolgevano loro con toni rassicuranti, dicevano d’invidiare il loro coraggio e che stavano facendo la scelta giusta, che stavano per darsi la possibilità di riscattare la loro magra esistenza. Ricordavano a entrambi quante volte, andando e tornando dal lavoro, avevano parlato e ripetuto come un ritornello dell’eventualità di emigrare in America per provare a uscire dallo stato di miseria, e che l’Italia per la gente umile non è che offrisse altre valide alternative lavorative. Gustavo, in dialetto come altre volte, per incoraggiare ancora Otello che vedeva pensieroso gli scandì il proverbio che ormai sapeva a memoria:
Oté, quanno la fame rrendra de la porta, la paura scappa de la finestra- Quando la fame entra dalla porta, la paura scappa dalla finestra
.
In sostanza ribadiva che non valeva la pena rimanere a fare la fame e che ogni suo timore doveva cessare. Mentre i loro amici parlavano, ogni tanto le loro menti andavano altrove, trasportate dalla nostalgia, guardavano fuori dal vetro del finestrino, fino a che gli occhi guidavano lo sguardo per un’ ultima volta verso il chiarore della luna crescente che ammantava d’argento tutta la campagna. All’orizzonte si stagliava un piccolo lento bagliore dell’alba, che sarebbe venuta. Anche se ancora quasi buio, la famigliarità di quei luoghi li indusse a ricordare il verde della vegetazione di quelle valli ammantate dal tenue riverbero della rugiada. Le colline e le piccole alture che si succedevano dolci circondate da fattorie e cascine, apparivano e si alternavano scorrendo oltre il finestrino del pulman. Complice il vetro un poco appannato del finestrino, tutto appariva come un dipinto d’autore, o di un film lo strano finale. Ora che stavano per andarsene, avevano la sensazione che quelle terre maledette, avessero qualcosa di speciale, e avvertivano solo adesso come un filo invisibile volesse tenerli legati. All’improvviso furono distolti dalla voce baritonale dell’autista, che avvisò che mancavano pochi istanti alla fermata di Teano. Gustavo ed Emma salutarono con calorosi abbracci, e si diressero commossi, senza voltarsi verso la portiera. Appena soli, Otello e Marisa si rimisero seduti l’uno accanto all’altro con la bimba stretta in mezzo tra le braccia della madre.
Avevano viaggiato tutta la notte stipati su quel gracchiante vecchio pulman maleodorante. Nel dormiveglia, sballottati dai sussulti del mezzo, furono svegliati ad un certo punto, dal clacson e dalla debole luce del giorno. Era l’alba del 6 aprile del 1912 [rsb1]quando giunsero a destinazione. Dopo pochi passi a piedi tenendosi per mano, arrivarono alle banchine del porto di Napoli dove c’era ad attenderli il piroscafo Michigan
in parte adibito al trasporto passeggeri. Mancava ancora un’ora circa alla partenza, decisero allora di passare un pò di tempo per scaldarsi presso la vicina locanda Rosastella
dove si confortarono con caffè e latte caldo.
Notarono subito che il locale era quasi pieno di viaggiatori, riconoscibili perché vestiti come loro di cenci e recanti umili bagagli. Otello senza dire nulla alla moglie per non allarmarla, non poté che sviare gli sguardi diffidenti e di giudizio severo di quei pochi avventori, ciurma di navi o residenti di transito, avvizziti dal fumo di sigari, seduti ai tavoli o appoggiati al banco, che li fissavano con occhi che sembravano carichi di disprezzo. Rifletteva che, senza alcuna benevolenza, essi non si rendevano per niente conto che l’economia del luogo prosperava grazie al passaggio di loro emigranti. Trascorse forse una mezz’ora, anche se nell’agitazione sembrarono pochi minuti, prima di sentire la potente sirena della nave che annunciava l’imbarco, si precipitarono fuori e, in pochi istanti, erano di nuovo mano nella mano sulla banchina. Un servizio d’assistenza di volontari li guidò a percorrere un tratto di strada separato da transenne che l’avrebbe portati a bordo, insieme alla folla enorme di emigranti che s’accalcava. La giornata nel frattempo s’era fatta scura, ora pioveva, con un gran vento che sembrava a tratti avvolgerli a tratti accompagnare. Il mare era assai mosso tanto che le onde sembrava volessero oltrepassare la banchina. Una massa eterogenea di persone disordinata pigiava dandosi spintoni mentre saliva sulla scaletta della nave. Nella confusione, in seguito alla mossa brusca di uno sconosciuto, Otello perse il contatto della mano con cui teneva la moglie e Chiara, urlò nella loro direzione dicendo alla moglie di badare alla bimba. Non era certo di essere stato ascoltato, tra la gente vedeva loro solo a momenti e poi scomparire. Una volta a bordo ci mise parecchio nella confusione a ritrovare Marisa, ma con sconforto constatarono che Chiara mancava. Il piroscafo stava ormai per partire, quando con sgomento dopo vane ricerche, si resero conto che la figlioletta era perduta. Speravano con tutto il cuore che fosse da qualche parte sulla nave. Furono vani i tentativi e le suppliche ad un ufficiale di bordo, per rimandare la partenza o perlomeno per dotare l’equipaggio di megafoni per chiamare la loro bimba dispersa di appena quattro anni. Il comandante li consolò dicendo loro che sicuramente la bimba era sulla nave e che da lì a poco avrebbe organizzato, anche con l’aiuto di volontari una battuta sull’intero natante per cercarla. Passarono dei minuti interminabili, in seguito sentirono dei sobbalzi, l’enorme nave iniziava a muoversi e videro lasciarsi dietro di loro il porto, in mezzo alla tempesta e la forte pioggia battente. Otello, sforzando un celato sorriso, ma anche per autoconsolarsi, diceva alla moglie che sicuramente il comandante aveva ragione: la bambina era da qualche parte sulla nave, oppure la teneva qualche persona e magari li stava pure cercando.
Il viaggio, oltre alla sciagura di aver smarrito la loro piccola, si presentò subito poco felice. Con