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IL FILO di DEDALO: L'attesa di sé
IL FILO di DEDALO: L'attesa di sé
IL FILO di DEDALO: L'attesa di sé
E-book568 pagine10 ore

IL FILO di DEDALO: L'attesa di sé

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Info su questo ebook

Il labirinto è elemento di contatto fuori da ogni catastasi spazio-temporale tra l'assoluto mitico e il relativo contingente esistenziale, tra trascendenza e immanenza stessa. Tra storie umane e pensiero incessante maniacale, ricordo, proiezioni e fughe, visioni ed elevazione artistica, la scomposizione in mille frammenti contrastanti, ambigui, dell'identità, fuori dall'univocità della definizione, in cui l'essere dell'uomo naturale collide con quello dell'uomo culturale e resta intrappolato in una impossibilità di permanenza rispetto al divenire. L'uomo-dio, l'uomo-mostro, l'uomo senza sede, l'uomo dell'attesa senza requie, colui che attende sé immaginando di attendere l'altro l'altrui l'altrove, si smarrisce e si disorienta in un labirinto che è città e deserto, terra e mare e cielo al contempo, materia ed anima, infinito e infinitesimo. Le mille forme del labirinto nel purificarsi devastante del nome e dell'identità umana, nella crocificazione perenne della colpa e della causa. Dove risulta impossibile proporre vedere o anche solo prevedere, e sapere è un orizzonte che soffoca e spreme nello stridore dei sensi la vita e la morte. Una galleria di personaggi travolti dal tempo, e che sostanziano un tenue filo narrativo, filo di creazione e di distruzione, filo di Dedalo, di architetto astorico causa ed effetto, vittima e carnefice. La colpa e la paura si intrecciano alle vie tortuose del buio e della luce, l'arte che partorisce mostri e uomini dentro i labirinti. Tanti nomi e tante storie, nomi che ingoiano ogni significato e senso, scolpiti nella profondità poetica della parola, squarciati nel desiderio e nella volontà.
LinguaItaliano
EditoreAbel Books
Data di uscita5 giu 2015
ISBN9788867521418
IL FILO di DEDALO: L'attesa di sé

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    Anteprima del libro

    IL FILO di DEDALO - Maurizio Garofalo

    Maurizio Garofalo

    Il filo di Dedalo

    L’attesa di sé

    Abel Books

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    ISBN 9788867521418

    Fuori

    Primo rintocco di campana luce spenta in fondo al corridoio annerito la camerata di muri spettrali sa già di preghiera sfinita e di fame: le carte da gioco regnano e avvampano il braciere acceso in un cantuccio siamo sommersi dalla formalina - salvezza di cadavere - occhi stipati nel sonno anonirico: e nulla vede chi si rifugia sotto il crostone di velluto filirame dell’orizzonte che palpa le carni gonfie d’acqua e di anni a marcire nell’abbandono. Nulla sa chi cerca di rubare un grido alla porta chiusa.

    Morto di sibillino presagio nuotavi arrancavi pressato al remo grezzo d’un naufragio senza isole a salvarti. Chi sapeva cogliere le tue bisacce piene d’oro insanguinato nella schiumaccia vizza che risacca le mani e porge il gozzo al sollazzo ha un metro di terra da divorare. Morto di nuvole incagliate nel cielo volavi sognavi grondavi legato al palo maestro assediato dagli aquiloni tra folate acide di taverna, dove trascina sul fianco la testa sudata l’ubriaco seme attaccaticcio d’inquisizione osanna e litanie. Morto di ruota di palo e di tenaglie chi grida le tue parole sprecate nel vento il tuo morso di lingua ottuso in una monologa giustificazione di martire, chi sugge il perlaceo riverbero del passato e raggruma tutti gli ossi di eternità nella pupilla verginoide, chi tace per sempre e bestemmia le sue emozioni come un ladro del giorno, chi non vede mai più la luce del cielo sotto caverne e caverne di terra sventrata da penetrazioni sconsacrate di dolore e pietà amen.

    I parte

    Solitudo dei

    Se il tempo raccontasse senza parole, solo a cenni di luci e colori, il suo tragitto costellato di mani visi occhi silenzi bugie e verità nel buio incurvarsi dei nostri anni, gli inverni e le stagioni sarebbero quelle pietre che ti hanno sfiorato il passo e colmato di peso i brividi prima che bianche di rinnovata calce vedessi le mura di un tuo abbandono.

    Non credo di riconoscere il filo troppo sottile delle mie notti e delle ferite che ha aperto nel mio petto di stenti e di rifiuti, ma so capire la fine di un giorno di sole e il suo bruciante desiderio di quiete in un cortile bagnato dalle preghiere sudate dei miei sguardi.

    Lascia piovere se vuoi bagnare ancora i tuoi sorrisi d’un ultimo estremo senso: l’allegria nasce nel dolore di chi non sente più il fiato di risalire e grida lontano alle perdute isole del suo viaggio, arroccate nel cupo svanire dell’orizzonte. Così sarà dei nostri vani strepiti di gabbiani a coprire le secche sapide del mare che non sa più portare via, non sa tornare dove finisce il vento alla sera. Schiume che s’impennano di sale e fatica, ma che naufragano relitti in frantumi d’un nulla eterno che pare gioco di risa, ma traluce di pianto.

    Verremo ancora dove è rimasto il nostro ricordo secco come pane e saremo i tanti nomi oscuri scritti nel diario d’una malattia ottusa che non sa trovare guarigione: l’essere uomini, balbettanti vagiti d’una voce mai più possente, un tempo di dio.

    Vestibolo

    Accettare che la sola via da seguire sia davanti a te, corri!, urlavi, lontano, non dietro, come questo muro si alza continuamente pressante a dirmi senza rispetto senza luce senza volto (chi ha gridato lì in fondo? la mia impressione è che tutti gridino in un intollerabile silenzio in questo fondo di pozzo in cui viviamo di necessità e che nessuno dica niente, nessuno vuol dire niente, in verità…) e credere che dietro questo goccio di cielo già trangugiato non ci sia davvero più niente, una terra desolata di nemici, mani che si sono lasciate a graffi e morsi (disiectae particulae, avresti detto mostrando la tua consueta indifferenza crudele), non importa per quale ragione (c’é forse mai un motivo valido nel lacerare a sangue una vita, la mia la tua?), anche solo l’essere stati uniti da paure nel tempo (so closer in feartime, scrivevi), quando non c’era bisogno di fuggire dalle nostre anime e stavamo qui immersi braccio a braccio nella broda di buone cattiverie reciproche in un girotondo estenuante di bugie… parole conducono giù e friggono nel mare ancora buio di questo mattino troppo ossuto da inghiottire senza un buon calice di tradimento e abbandono (sotto la coltre d’acqua le tue orecchie sentono tutto distorto e immaginano di ricordarsi il sapore che aveva la bellezza)per chi vive.

    Parole sbiadite stasera hanno un ciglio storto e un dente rotto di desiderio che chiede di piangere o ridere pur di uscire a soffocare mano sulla bocca tutte le strade. Tutte le strade non sono una sola che mi abbraccia.

    Parole sbiadite stasera hanno la forma biforcata del compasso (o di compassione?) che scuce tutti gli angoli opposti complementari ottusi (retti?)di questo cerchio e li vende agli assetati cosmogonici di verità e trinità (escatologie, direi), verbi leggeri e gustosi da masticare, lettere opache e color pastello, smaltate a fuoco, perché non brillino troppo di umanità e mantengano il necessario distacco dell’ipocrisia. Angoli e pietre che nel tempo fanno l’uomo e la sua negazione di sé graffiata su lontananze nero manto a cui si dà nome comune di affetti passioni amori. Tutte le strade gridano insieme adesso in questo risveglio nell’abbandono, mi spingono convulsamente dentro e fuori, senza una ragione si sovrappongono e si scompongono nell’additarmi il deserto e la città vicini, ridono della loro polvere bianca di leggi e confini e si torcono in mille crocevia di moltiplicazione, mille punti di incontro e di scontro, convenzionali panorami rinsecchiti da cartolina e commozioni a lunga conservazione, si specchiano nel riflesso di ombre e si frantumano tutti gli occhi avvelenati, ballettano saltellano grugniscono ammutoliscono farfugliano dozzinali sofismi di fede, ma non sono una sola strada che mi conduca diritto alla fine.

    Vestibolo di risposte intirizzite che aspettano una domanda – una sola e secca -, protesa la mano cieca in questo antro che presto crollerà, lasciando ogni buio al suo posto ogni morte alla sua vita. Parole che stasera non hai, perché, dici, hai già congelato per i domani ogni sentimento in scadenza, hai chiuso le porte e i tuoi silenzi sono congegni estremamente micidiali e, comunque, vuoi solo andare a nanna.

    Non si costruisce parola o domanda che non sia fatta di ricerca timore dolore. Questa nuda stanza delle parole, scavata qui nella pietra viva dell’inverno come un’ultima madre, ha preso proprio dal rumore volgare della luce, quando subito svanisce e raggela, l’amarezza da deglutire per sentire tremare e ridere. Parole in libertà, dicono, quelle che schiacciano sotto il tallone l’alta indifferenza.

    Così, parola, tu non mi leggerai mai, tu non mi scriverai, gabbia dei miei sporchi sonni senza denti ti abortisco e ti rinnego, senza lingua e cervello ti risucchio e ti anniento nel mio squallore cinico di classificatore e catalogatore incallito, io scriba asceta monaco libertario poeta musico grullo idiota. Apro le dita apro le tende apro le porte e non serve a niente. Tu, parola, non mi condenserai, ultimo muggito ferino del mio latte, berrò ubriacherò annegherò, non mi creerai ancora una volta, parola, se anche mi distruggerai, riderai e riderai – loffss - strangolandomi, mentre mi baci e mi sodomizzi, parola, non sarai tu a tirarmi dentro questo sacco per scagliarmi giù nel fossato e darmi fuoco, non sarai tu ad esistere a desistere a resistere, perché non c’è più terra su cui alzarsi gracchiare crollare. E in questo ti cerchio di rosso errore e ti lego mani e piedi perché non scappi anche tu, cachinno e lazzo offeso della nostalgia, ti essicco qui sulla mia pelle di cartastraccia e ti sorseggio nella tazza scaracchiata dei clandestini e degli intellettuali, veleno dolcissimo di chi tramonta e risorge su una croce o su una nave per trovare sé e i se, i sensi e i significati scartabellati come apostoli senza cena.

    Falsità e verità strimpellano ancora parole e parole impiastricciate qui e secche, quasi mosche basse di peste, su questa cartargento sibillina del cioccolato che, affamato nudo spossato di pensare sentire ricordare, trangugio soltanto a tarda notte, ratto a squittire un giudizio ultimo di condanna, mentre tutto dorme e nessuno ascolta, tanto meno chi dovrebbe, parole e parole di pioggia e sete, quasi baci di bene e di male avanzati alla grigliata odierna della carità, quando quasi tutti, lacrimando spinte meccaniche di egoismo in umido di affetti e diletti, risorgevano in processione e mi davano di gomito dicendo sottecchi è questa la fine della tristezza, fidati, eccoti tutte le parole in formula e in cantilena per sotterrare una buona volta l’infelicità, ormai troppo vizza e scorticata per noi vivi.

    Da qui le parole schizzano in un vortice frenetico di risate carezze pugni sputi mi avvinghiano e risucchiano. Parole crude peste avvinazzate che fanno l’amore e godono e poi muoiono fritte sulla sedia elettrica, affondano pesanti nei pozzi dei giorni a recuperare memorie che avvolgono a carta lucida e nastrini altre parole e poi ancora altre memorie e ancora altre parole. Ossessione morbosa di strutture e pensieri, parole ondeggiano galleggiano spumeggiano la materia oscura del divenire.

    Parole che sento e respiro e vomito acqua, carne, morso, freddo, città, mani, momenti, giardino, domande, speranza, ombre, strade, profumo, lingua, piaceri, leggende, sole, specchio, ragione, fede, verità, latte, occhi, e ancora occhi, silenzio, oscurità, casa antica, oracolo, lontano e dentro, piacere e dispiacere, circolo e quadrato, ventre, terra, mare, radici, vento e giochi, penserai o scrivi?

    Parole che si incastrano in sintagmi e assurde malattie mentali, penetrano proliferano (parole e prole), si annidano germinano verminano crepitano mitragliatrici traboccanti di accenti concetti precetti, rintuzzano pianti di fame, ombreggiano ogni ora, nella sceneggiata pornografia d’una innocenza, boccheggiando un ultimo sax per notti di strada, gorgheggiando di nuovo Bach, l’errore dell’eroe, un tuffo nella divisione piacere, tanti graffi fanno un obscaenus metus, pertanto addio a dio, se esce di casa la casa, un tonante balbettio dell’altissimo male qui a terra, dove è trascritto il bestiario d’un nuovo mondo, tori serpenti pazzi colpevoli condannati, vino che scola dal gozzo di un codice purpureo, la peste d’alba in un solo grido, compassione!, marmellata di mammelle acerbe o mature, sciarada di catarri senza voci, se davvero Tertium non datur, ma il quarto?, allora pigola un vibrafono dodecafonico attorno al muro, (quando nasce in fasce chi muore presto), pagheremo affranti un altro terno (o treno?) per mezzanotte, leccheremo distratti la fica di Arianna cliccando col destro il cazzo arrabbiato, ora che rimarginata è l’eco (ergo lecco),e tutti insieme, Euhoé! uno due tre l’istrione, (e poi le) note d’organo (elettrico orgasmo di sistema), nicchia di nocchia che picchia, purtuttavia rimane un filo di Brain damage, irreversibile!, cantami, o diva, il mestruo funesto d’Afrodite tessitrice, verso ogni mio verso verso una corrente d’ombra, Rimbaudando piano piano, pria che fugga l’albore della perversione, tramonti questa solitudine bizzosa di complicità, donde la tua virulenta imago, in uno spicchio agrodolce d’angolo, cosicché iudicatur iudex, se credi nella beata parodia di un belato, tu, venerando partigiano del misfatto, tu e la tua nuova famelica lucis fera, scrivi lettere di p(a)role da sfamare con una severa penna di piccione, cane in quanto cane, cosce tonde panem nostrum cotidianum, bisbigli de vera fide in lingua antica cosparsi di zucchero a velo e granella di bisognini, sempre laconica mente, ipse vixit e ora triduo registro il resurrexit sicut dixit, cardine invacillabile di errori, dati i baci sacri e le dovute genuflessioni al water, ormai che è verde il colore (anemia o isteria) ricomposto a sudario sul filo spinato della bellezza, cieco o niente, non esiste dove il folle (le folle?) ha parlato, davvero apri il rubinetto del gas per volare (trip on the wing) lontano altrove, senza lettere su questa tastiera di accurata (in)coscienza elettrica, sicché, anche quando obliviscitur memoria, dolgono arrossate di storia le rotte na(u)tiche, tu abrasax satanasso!, mulina il palindromo di acque mutilate dal vento…

    Calende greche – fuoco greco – minareto al tramonto- vigne di latte-il pantocratore- torre normanna- l’orologio delle due- ninfe- boustrophedon – korai. Miraggi. Un guanciale di vento. Campanule, mughetti , segno e memoria

    Tutto si spegne tutto inizia tutto è silenzio. Ho tanta voglia di dormire questa attesa, se spengo la luce anch’io, se lento precipito e non mi trattengo stringendomi ancora alle parole. Le sole che ho.

    Aditus ATHENANIGRAe VULNUs

    Scendere per queste strade tortuose basse univoche, per cui non si può più risalire, dove sono nato decenni di vite fa bambino e vecchio senza storia e senza radici e ho conosciuto sbagliato amato creduto dubitato, come tutti, con ingenua cattiveria di volontà, guardare questa gente incredula fermarsi, perché non sa e non vuol sapere, schivare il tuo incerto passo, colpevole di colpe che nemmeno ricordi, incontrare altre ombre fitte, grumi anneriti di carne desideri e parole su braci ormai fredde, gorgheggiare come loro nel cercare e cercare, affannati da bisogni voci ossessioni, rimane solo un posto chiuso che non è il tuo silenzio, ma il tuo rumore, il cigolare che fa il tuo nome, meccanico respiro ansante di cuore che ti dice vivo, ricoperto di pietre e sussulti, astruso nel mutuare significati e segni alle tue labbra corrucciate pensose ridenti, resta un solo disegno con cui tracciare l’uscita da questo torpore che abbatte terra e cielo, se questi sono gli ultimi giorni della tua vita, cosa pensi di dovere fare che non sia cercare ancora di risalire e tornare dove nessuno più ti aspetta, in cima al colle su per l’ascesa sfidando i dubbi e la penitenza che muovi con te e che tendono a precipitare. Le infelicità umane hanno una loro propria trama irrisolvibile e labirintica di nomi che negano altri nomi, di strade che chiudono altre strade, di oggi che negano ieri, di silenzi che coprono voci, di passi nuovi che calcano ombre e sepolture di passi e ricordi, di volontà che inghiottono desideri e necessità, di respiri che si incontrano si scartano si cercano e non basta mai una sola vita per farli spegnere. Negare spegnere cancellare dimenticare allontanare finire rimanere senza. I senza assidui che strangolano, lacerano, bruciano, annientano. Un torcersi incessante casuale confuso grottesco, persino meccanico nella sua crudeltà astrusa, dove non si ha più alcuno spazio forma luce per sé, l’attesa. E pare che si corra e si sta fermi, affossati sprofondati ansimanti. Anch’io so di non restare fermo in piedi. La mia lingua si è perduta nei secoli, non so comunicare a chi mi incontra il mio orrore e la mia repulsione. Stato neurale azzerato, apparente decesso cerebrale, direbbero, filo (di lana o atomo pulsante digitale di quarzo) che tira dritta la sua linea piatta (coma severo) sul monitor, bianca intermittente schiuma di risacca quotidiana, si impiastriccia di sapori e odori di bugie e illusioni e mi affonda pesante nella strada del mare, dove il bianco si rimescola al nero della lontananza nei vortici, tra gli scogli affamati di rovine. S’immerge e scompare, la mia mente è in balia delle onde e imbarca acqua e pesantezza,verdastra broda che mi avviluppa e mi sprofonda e giù s’intravede già il fondo che s’inabissa e la fine, il punto in cui si condensa la verginità febbrile del tempo con la lontananza dell’essere, vergine nera, Athenanigra, mente violenta che domina, mente di donna (non femmina), innestata sul profondo recesso del mare, nero mare (mare femmina, mare buco profondo, mare nascondimento di creazione e distruzione) nera matrice nero pube, il Mare, non più Nostrum, non più complemento della terra, senza più confini senza uomini senza padroni, sterminato e assoluto, che non dà più forma né spazio né senso né direzione, e stringe avvinghia morde, inquieto incontrollato selvaggio, ogni madre ogni femmina ogni donna nel suo viscoso amplesso sensuale di trasformazione continua, senza volto senza mani senza più strade. Mi trovo avvolto da sassi e sale, schiume di rosso vino mi sollevano rapide in alto, travolgendomi gli istinti, e la mia volontà si contorce e si rannicchia ancora testarda in posizione fetale per andare in basso, senza resistenza, dove non c’è alcuno spiraglio che consenta una fuga qualsiasi. Qui il mio cielo è tutto una curva distesa di alghe e ricordi, trappole si aprono a cogliermi impreparato, suoni che non ho mai conosciuto, il potente e umile non sapere che irride e annulla il mio vano e superbo sapere, mi ammaliano e mi invasano, citoplasma salso di oscurità mi lega ad un cordone avvoltolato a spirale, da cui sento fluire un aspro alimento, millenni e millenni di vita e morte che hanno popolato le acque i ghiacci e le schiume, fratello ultimo e primo dei pesci e dei mostri marini volo nella linfa primigenia della creazione e distruzione continua, tocco galassie intonse di stelle marine e di ectoplasmi viscosi, luminosi buchi neri ribollenti che risucchiano in bocche spalancate di filamenti e tentacoli, stalattiti e stalagmiti abbattono le loro feroci mannaie a trangugiare chi s’avventuri per gli abissi chiusi nelle spelonche, senza avere chiuso la sua vita tutta in un ricordo. Memoria d‘una nascita il mio nome scritto qui sulle acque spoglio di tempo e significato, perché è questo il momento in cui nasciamo tutti all’improvviso, colti a caso quasi fiori selvaggi senza profumo di campo, da una vulva palpitante di solo istinto, da una mente che non ha generato pensiero alcuno, da un mare femmina che cerca il ripetersi delle stagioni per partorire il suo bene e il suo male. Sono stanco qui in fondo alla fine, ma sento con tutto me stesso, sento. Mille identità mille nomi mille nascite mille forme mille vite sento. La storia senza un senso sento. Perduto e sperduto nel labirinto di questo tempo sento. Non solo l’oggetto, ma anche il soggetto, io sento. Perduto nel vorticare del mito che spumeggia, io sento. Tra labirinto e mito, tra morte e nascita, tra mille direzioni e nessuna, tra me e i tanti te noi voi loro, tra l’io e il lui la lei l’esso, l’altro, il diverso, ossia l’identico, io sento vedo sprofondo gorgoglio fluttuo brulico diafano e gonfio d’acque nere come una murena e sputo qui la mia voce dodecafonica di carnefice e vittima nel pestato del tempo per scalpicciare lontano dove sanguino dissanguato, esisto disumanato. Non so niente, ma sento. Se ora tutto filtra la coscienza.

    Non dire ora struttura, non pensarlo, non vedere qui cornici o architetture, cardini pilastri travi fondamenta e ammennicoli. Non serve costruire il cielo o la terra dove c’è già il tempo, l’orizzonte sempre lontano, cieco arbitro di fughe e attese, oracolo di risposte che portano solo altre domande. Ogni storia di forme e tempo trova un’umana sua applicazione nel labirinto, mutevole fenomeno multiforme e sfuggente, che manifesta ed elabora le tante altre forme di dissolvimento dell’essere. Anniento e distruggo ogni forma ultima che il tempo sviluppi e di ognuna tengo in mano gli occhi la voce la storia la memoria gli io stinti nelle lettere dei tu, di tutte non mi resta nemmeno una causa un senso un desiderio. Qui la schiuma palpitante della genitura continua avvolge migliaia di stanze specchi e corridoi, di cripte scale e cunicoli, di trappole muri e voragini che non chiudono, ma nascondono e sono. Carne crude di ragioni e di colpe che si sbranano si divorano si ingoiano, bui e luci si alternano casualmente insensatamente vertiginosamente, fanno smarrire il giorno e la notte l’inizio e la fine stallano. Io che non ho un nome do un nome ad ogni muro, alto basso spesso sottile duro impenetrabile, che mi recinga e mi tolga il nome, cancellandolo e annichilendolo nel silenzio o nell’ossessione di voci parole risa pianti. Io che non ho una forma do la forma a questo corpo tozzo nodoso sotterraneo o sottomarino, che mi include gravido, un ottagono (otto gli angoli della madre) smisurato di deserto, che reca incise dentro le ripartizioni di quattro triangoli (dodici angoli l’intera vita di un uomo), una croce greca (il sacrificio e il pensiero) e un cerchio (il ciclo ininterrotto e ripetitivo del tutto). Ne derivano ritagli sezioni segmenti anfratti stanze. Sento e sono simulacri e miraggi, illusioni e allucinazioni, perversioni e farneticazioni, ma sono e sento sempre di più, animale e mostro, bestia che mostra il grugnito potente del dio, dio che si gonfia di corna e muggiti e teme la fuga e il sacrificio delle sue vergini. Ogni specchio condensa figura e realtà, ogni stanza amplifica e rimpicciolisce, e all’interno spingono direzioni fatue, mentre lo smisuratamente alto si confonde con l’asfissia dei luoghi bassissimi, e soltanto da fessure e feritoie altissime nel muro si intravede appena il cielo e il mare, il sopra o il sotto, l’oriente o l’occidente, il dentro e il fuori, il sorgere e il tramontare di stelle e infanzie. Ovunque la lontananza e l’assenza. Ovunque il rarefarsi contorto delle immagini mi pervade e mi svuota, mentre vorticano in giostra rumorosa le profondità le dimensioni le prospettive le distanze. Stanze di vita quotidiana si rivelano si nascondono si trasformano ovunque vada. Nel frammentarsi della coscienza assaporo mille volti, di donne e uomini, di quel che sono e non sono, a costruire un bestiario sacro di vorrei dovrei potrei. Tra smarrimento e ricerca incessanti, nella mescolanza di dissoluzione e santità, graffi profondi di poesia bellezza orrore. Ogni persona è la sua antipersona e ogni realtà è la sua finzione. Cosicché il labirinto tinteggia giochi di luce e visioni con riso e pianto in un mutare continuo, il divenire, feroce e immanente divenire dell’esistere. Immagino e sento: sono un punto che sparisce.

    Il labirinto egiziano offre al silenzio lindoro delle sabbie la sua costruzione rettilinea di quadrati concentrici a delimitare l’azione di veleno di serpenti e scorpioni. Non ci sono biforcazioni o rotte alternative, non ci sono passaggi aperti l’uno nell’altro, non ci sono pensieri che annientano pensieri. Qui s’insediano le pietre e la sete della calura e tra teste calve di sacerdoti severi ed occhi di insetto non serve ancora un filo di lana per sopravvivere e ricomporre l’assenza, non serve un richiamo né un percorso,ma solo guardare e fermarsi ad incrociare esistenze senza storia. Intrappolati da millenni di lontananza e di sospensione. Il percorso dall’entrata all’apogeo che si eleva a segnare la fine (o il fine?) conduce presto con cupa ineluttabilità alla cella centrale, dove non si trova rinchiuso che il vento, ingabbiato in fischi e gemiti continui di parole oscure. Da qui la sabbia e il deserto delle pietre si trascina col grecale ad est sul mare delle vele quadre fin all’Egeo delle mosche, dove si aggira il toro e la paura senza mura in una costruzione a rete ampia scavata nei tunnel sotterranei, corredati con immagini gliptiche spaventose, quasi specchi riflesso del mostruoso, meandri e curve false, inganni continui della ragione, cunicoli meandri vicoli strade senza limiti né speranze, ipogei di nascondimento dal sole, follia bianca carta in termini di spazio e tempo da scrivere. Poiché è qui, nella paura, che il labirinto si articola nella complessità inestricabile e diventa perplessità e dubbio, sconvolgimento meraviglia confusione incanto. Come tutto sul mare, nelle radici nelle onde nelle risacche eterne, incanta e sorprende, sospende e rimanda senza limiti, amazing lifeline, labyrinthos mediterraneo prerazionale preariano preumano a ricevere il semplice mugolio illogico del mythos razionale ariano umano. Le pietre levigate del primo disegno del labirinto del mondo perdono la casualità naturale del compartimento unico e assoluto e trovano nel mito le linee tortuose che scardinano e introiettano nel pensiero, nel micidiale serraglio del causaeffetto che relativizza ogni dolore ogni assenza ogni presenza, e qui i muri cingono fino a strangolare, costruiscono e smantellano persone e anime, dispongono i tormenti e le angosce, scrivono l’io.

    Intro

    De alienatione: alias de insania (vel morbo animae) ac egestate (vel carentia).

    Ci sono mille forme in cui un uomo può diacronicamente dissolvere il suo essere: labirinti e meandri, ipogei oscuri e cunicoli angusti, vicoli tortuosi senza sbocchi e strade senza orizzonti di inizio e fine, vortici e gorghi schiumosi o abissi nella nuda pietra di fuoco, ascese vertiginose verso un cielo sempre più irraggiungibile o discese scoscese in precipizi di gole senza risalita, deserti di polvere e sassi e melme paludose di ricordi sonni e risvegli, fetori e miasmi, naufragi e affogamenti o alienazioni di perdute isole senza vita, stanze tenebrose o invase dalla luce, quotidiane ossessioni della malattia, della nascita o della morte e prigioni della tortura oziosa, caverne parlanti del dio o del mostro, pinnacoli visionari della fame e della sete, vestiboli frenetici di ricerca attesa e perdita.

    Il giorno e la notte immersi in tale dissolvimento ontologico sono la sete incessante di un bisogno che non sa trovare mai requie. Chiamano follia la paura e questo bisogno. Ma esso è vergine, puro, incontaminato dalla sozzura dell’orgoglio, dal greve sofisma culturale della noia. Follia e bisogno vagiscono infanti nell’essere naturale. Follia e bisogno hanno mille naturali forme che dissolvono l’essere in un gioco labirintico senza regole di inizio e fine al di là della erronea umana percezione

    Venti

    Stanza dei venti è questa in cui scrivo e non so fermarmi nell’inchiostro, come un segno perenne, un immutabile definizione che mi dia taglio o legame, due mani o due occhi e una sola, una sola, bocca con cui soffocare e rinascere, primo ultimo uno qualunque, insetto toro serpente uomo o dio.

    Stanza dei venti io ti ascolto, e non so nulla di me (o so tutto?), passare rapida dal labirinto, statico squadrato ossuto, al mito, vorticoso circolare fluido, da fuori a dentro (se c’è davvero un fuori e un dentro), da prima a dopo, da me a io e ad altro da io. Perché qui con me non è rimasto nessuno che mi dica vieni o resta, nessuno a cui abbia detto vai o rimani, nessuno di cui questo labirinto risuoni.

    Eppure so di essere qui solo all’ingresso di questo mio abituale labirinto, sempre diverso, in questa stanza forte, profonda incavata nella roccia antichissima. Labirinto arido e melmoso, a macchie e a ricci, a spire e a croci attorte, di ore e di venti, di voci incagliate nel ricordo, sono già qui, lo sento, vicino all’uscita, dimenandomi indifeso tra parole cadenti che non ricordano alcun loro antico significato, tra faville di logos e gocce di pathos, incerto se resistere ancora o finire, se vedere o no.

    Eppure so di essere qui solo all’ingresso e già all’uscita, tra la vulva e il fallo, la madre e il padre di ogni mio brivido di terra acqua fuoco. Distanza cosmica ti stringo bambino tra le dita. Ne ho paura e curiosità, ne ho desiderio. Qui all’inizio cerco me e trovo già la fine, la graffio a lunghi fiotti di sperma sul muro che mi ha partorito già vecchio e so (così?) di volermi ancora addentrare nei suoi meandri e nella memoria per non poterne più uscire, per non potere più essere, finire o continuare.

    Stanza dei venti fischia raggela e turbina, ti riconosco amica, mi hai visto morire miliardi di volte e sono qui, solo all’inizio e già alla fine, tra vulva e fallo, tra me e l’altro, scodinzolo le mie tristezze consuete morbose spugnose, guaisco i miei amplessi di allegria mitragliato sul fondo di un vallone e guardo a pupilla stretta la notte, questa primissima notte di attesa, già ultima, sublimarsi in grida e strepiti grotteschi di chi va e chi viene, per sempre per mai. Tra le ascese (e ascesi?) di vertigine verso un cielo irraggiungibile per la carne e per un dio, senza scale, senza più voli, e le discese (scoscese) di precipizi in gole senza risalita. Io non so cosa gridi questo mio nome di mostro, io …

    Asterio (I)

    Coesione di punti

    Nell’inizio c’è sempre anche la fine. Quello che è identità e compresenza è anche differenza e distanza, lontananza che crea antichità e colpa, attesa di quel che non può annullarsi in presenza. Una serie sterminata di punti nel silenzio: nodi della materia rarefatta. Punti disseminati di sostanza in perenne moto entropico, casuale sovversione di ordini arcani e, talora, rigida stasi sospesa sul filo di tela vergine, equilibrio profondo di opposti. Sostanza palpabile di carne e di sangue grezzo, punti impregnati di decisione e di potenza pura; a volte freddi impulsi saettanti e rapidi, come di invisibili correnti sotterranee, a volte attese solenni e gravi, come menti poggiati sul palmo di una mano assorta. Un mondo infinitesimale racchiuso e incontenibile di punti e spazi vuoti cupi devastati dall’anomia della tenebra, spasma insistente, sontuosa cappa di istinto. Scontri e coesioni continue, dissociazioni verginali e fischi scabri di dissolvimenti a cozzare tra sé, gocce infuocate: come in una creazione, un oceano che si versa stillando dalla coppa colma della vita, amore che attrae e respinge nel flusso sempiterno della volontà, desiderio che seduce la materia. Belle mani d’avorio, tese, sottili e tremanti, a impastare inesperte il grezzo magma bollente con spruzzi vaticinanti di carità e paura, in un verde cataplasma denso e fragrante di emozioni audaci. Profondi occhi azzurri anelanti ad esplorare dall’alto il sussulto primo e il rigurgito finale del Caos. Succose cosce di albero frondoso a sorreggere l’edificio primigenio innalzato di pochi palmi tra sole e mare, tra fulmini esplosi sulla pelle corallina ed acini innumeri di pioggia dorata sul volto; labbra vellutate di un vento novizio a brancicare le schiume gioiose e soffici che a cerchio si diramano nell’abisso. In una ossuta piegatura della carne, appena sorta fumante dalla massa informe, ecco l’istante lattiginoso mostrarsi: i punti si riempiono di una prima luce azzurra e corposa, gocce di sangue ancora denso e torbido nelle sacche strette del microcorpo equoreo; aderendo al cuore sentono il calore in punta alle dita e mandano suoni brevi come di scoscesi fremiti reconditi; si chiarisce in fondo all’abisso una tortuosa catena di cause ed effetti, un lucido susseguirsi di centri al bersaglio, mani e lingue tutte avviluppate nel silenzio etereo che aspetta di colmarsi di voce: una linea a nudo tracciata sul perimetro del creato, mura ciclopiche di una enorme rocca disabitata si ergono d’intorno incombendo d’angoscia: l’universo cosmo della partenia scintilla, fetale embrione immerso nel viscoso nutrimento placentare. In un battito rapido di ciglia la linea si fa luminosa e alta: esplode subitanea la Luce e il Giorno, gli abissi si schiariscono e le paure si fugano a spallate. L’attesa si accresce, poiché il sangue si versa a scorrere irruento in vene troppo piccole e nude e irrora subito gli occhi e i denti aguzzi: morsi che infanti masse di luce diedero alla terra di pietra nera e alle acque turbolente di grida. Sorrisi ingenui e radiosi, incapaci di peccato, che misurarono col palmo aperto il Bello e il Brutto, il Bene e il Male, dacché sortì la prima separazione di masse e di grumi senza schemi: la tenebra piange l’addio alla luce, mentre il silenzio attende ancora di gonfiarsi i polmoni. Una linea intonsa e immacolata a illuminare gli anfratti di odori e colori: il Sole e la Luna, le Stagioni e le Ore, in un cerchio roteante fra le mie mani. Campi di fragole per sempre.

    Nel principio il sole, la gloria unica di cui l’artefice si compiace e crea il sorriso biondo di grano. L’intelligenza macchia prima di rovi e spine entro cui nascondere il graffio e la morte. Niente è nascosto. Il mio sorriso primo è già bagnato di bava e peluria, ma non porta l’innocenza e la bellezza che credevo nello specchio d’acqua in cui mi rimiravo. Non credevo di essere distorto e deforme, non ce ne sarebbe una causa. Pasifae, mia madre, è davvero bella e giovane, credo, la sento muggire ancora di voglia insoddisfatta in un angolo di questa terra petrosa in cui mi trovo, risparmiato alla distruzione degli anni e degli affetti che sento raccontare. Asterio è il mio nome, l’inconcepito da desiderio, figlio di colpa e nascondimento, ma figlio che attende di vedere a occhi suoi il mondo informe che lo ha creato, primo dio di un cosmo senza ancora sangue e voce di stelle. Sono un intreccio di istinti e brividi ciechi sulle corde del tempo che strazia e costruisce il buio.

    Ma ecco, all’ora prima che chiarisce i geli del sangue, il sole muoversi e porsi al centro del cerchio fra mura innalzate da ogni parte e aghi di pino miliari della solitudine disseminati sulla nera pelle ctonia assetata. Il mare vorticare soffice di schiume liquorose più forte a ribollire e ruttare, sale e si colma di giustizia rossopudore: nella sua ultima quiete partorisce le onde placide e le correnti e le maree in un soffio continuo di labbra strette riarse. Mie sorelle le maree e le bufere di vento, costruiscono e scolpiscono le torri fortificate del mio cielo, edificano il tetto bluastro che sgocciola gelo e umori di bile. Mia madre coglie sui suoi capelli nerissimi le piogge ancora caotiche della tempesta travolgente. Pioggia silenziosa ma fitta, mille colori sprizzano e dipingono muri edifici templi celle strade tortuose e dritte. Poi qualcosa come una mano d’assassino infrange il silenzio e le scaglie acuminate si spezzano nel clangore bronzeo delle campane violette di resurrezione giorni piovosi d’aprile e rondini cosparse di mirto nel ritorno a nidi senza calore. Un rosone di suoni sulla mia vita, così lieve ancora e immobile. Tanti dei in un solo indefinito fato che si compie, la luce obbedisce modellando il buio in cui mia madre dorme, disfatta e sola della sua pazzia brutale. Il fiato di colpo viene esploso da fagotti di polmoni e le guance gonfie di sforzo in un trionfo d’angioli musici si eleva a strombazzare glorie osannate d’alleluia nel biancospino cianotico dell’estate senza ancora limiti di giornata. Un sibilo feroce tra i denti tremolanti e sembra che mi sia venuta fame. O desiderio? La prima poppata ancora acerba di latte del cielo. Le mammelle capaci della Madre Terra urania assidua fecondità del secolo e Pasifae mi scruta. È solo un istante che si eterna. Un tremendo brivido sulla schiena mi asseta e negli occhi della madre vedo qualcosa come odio. Un primo filo di vita strappata al suggello dell’inizio e uno spippolare di acini ancora aspri dall’albero ubertoso sapore selvaggio di femmina pelo nero di pube. Io maschio ho sete. Dietro le spalle fugge via lontano, orme che si perdono alla vista, il mito battello ebbro dell’umana finitezza. Dove sono?

    Il cerchio sospinto lontano lontano e la luce tramonta e la linea luminosa si espande fuori dal pascolo di pecore oziose ignoranti del Bene e del Male, ché tanta erba aspra sugge e rumina il figlio dell’Uomo, corna ebano di toro, dimentico della sua divinità. Gli abissi si empiono di ruvida materia grezza già plasmata d’argilla e di sputo. I muri della città tagliano chiudono dividono, non so chi, non vedo cosa. Vagiti di millenni e di notti brevissime inesplorate colgono senza sonno e fame i miei occhi increduli d’infante strappato al capezzolo. Figure di astri e costellazioni montano sul carro trabiccolante della via verso il monte lenta ascesa a piedi scalzi di pellegrini penitenti verso cui guardo, senza coglierne il senso o la direzione. Fiuto a nari piene l’avvizzito volto del viandante nella sua fatica nel sudore. Poggiarsi pesante sul bastone del cieco assetato nello scirocco.

    Lì in alto sul colle il tempio che stringe i denti perché fa già buio intorno a me e comincia il giorno degli anni e dei rifiuti, quel che è dato è stato assunto in un tabernacolo a segnare in uno specchio ostie di riflessi che mai ho conosciuto quando ero piccolo, troppo alti e lontani sulla pietra, vanno dove non sono più io, l’anima non l’animale scorre fluida nel girotondo di forme e colori e quando capisco che sono i miei occhi a guardare tremo

    Sul colle, è scritto, nasce il tempio, simulacro del tempo che non ha alcuna forma, o tutte insieme… è qui che ti ho visto, madre, deporre la tua smania e tirare per i capelli il tuo fiato di morente senza più voce? le forme hanno un significato di porte che si aprono e chiudono alle mie spalle. Chi sei? perché vieni qui, Asterio? Il no e il sì hanno fatto velo dietro al mio volto e il caos è rimasto fermo in disparte, tutto un baffo di padre, fuori a comandare aspro, a dire via! a dito protervo e eccoti il tuo tempio di vecchio vestito da giovane! Eccoti il tuo tempio che stringe il tempo dove non hai madre né padre! Resto qui.

    La vecchia è qui con me. Non mangia non dorme. Nello specchio di questo tempio affoga e riemerge. Schiuma. Quando carezzo col muso il muro si spande qualcosa che mi solletica le nari, un fastidio lieve o un piacere, un desiderio che vibra e chiede, un nome di femmina, anche gravide di folle, Pasifae geme. Sì, non mangia e non dorme, ha perso la volontà, dopo quel figlio non ha più sorriso. È una vecchia. E geme...

    Nuovi giorni concepiti e scritti nel registro sillabato delle illusioni quotidiane dentro questa mia casa inquieta, dove Pasifae invecchia rapidamente, malata ancora di insanabile desiderio: il martedì grasso e il sabato della festa, il giovedì di pioggia e il venerdì di afa. La settimana è una vecchia zingara chiromante di lignea struttura resistente alle percosse e denti d’oro nel chiedere l’elemosina o la iattura. La materia informe si sminuzza come pane, briciole a sedimentarsi nel ricordo e nella dimenticanza sempre uguali nei secoli dei secoli. Sazio già di mollichine e di pagliuzze vitree di vischio, mi rannicchio a zampe intrecciate e non mi accorgo che gli anni miei salgono, il mio corpo diventa forte e crudo. Metanoia di stelle e universo mi vedono alzarmi su quattro zampe nelle garze stinte di cenere dell’alba. Bulbi verdi e rossi di ricordi dietro la pietra gelida che innalza muri e chiude. Non so cosa io ricordi, non ho mai vissuto niente che non fosse già un ricordo, prima di me, nei secoli che non ho vissuto, nelle ere che non sono esistite. Sono tagliato e nudo per la storia.

    Il primo giorno che sento una fame calda di uscire, mi sento i muscoli della luce dentro di me sgonfiarsi e l’atto creativo è stato tutto già compiuto. Non penso oltre, non so toccare altro che quel che tocco con le zampe, il muso o le corna. Il mondo che hanno creato è tutto in ciò che si tocca, dicono. Ritorni di quel che si è toccato non ne esistono. Cosicché la sazietà di aprire gli occhi e non dormire viene dalla carne e dal toccare, colpire, scalciare, correre, saltare, cadere, addormentarsi, defecare, urinare, mordere, sbuffare, mugghiare, agitare la coda, ruotare gli stessi occhi, strisciare gli zoccoli, respirare furenti dalle grosse narici. Tutto quel che dicono sia sostanza del cielo e anima (soffio di vento?) non mi interessa, perché non lo tocco. Restare è un effetto che non conosco, poiché non so cosa sia la causa dell’andare e venire, muoversi, trasformare, scorrere, mutare, revertire. Non cerco né conosco il divenire, non pratico il trascorrere da una sede o da una forma a un’altra. Sono nato statico e fermo, fisso, immobile, immutabile, con due corna curve sul grande ammasso peloso del cranio e quattro zampe agili ma robuste, sbuffo fumo di naturale rabbia dal naso e muggisco fame, quando mi preme la voglia nei testicoli muti, ma non esco mai fuori dai miei stretti limiti (qualcuno dice stretti, non intendo cosa significhi), da questa traccia unica e nera che mi hanno (chi è stato?) costruito e fissato come dimora, tutta per me, per me solo, che pensare scrivere e leggere, parlare e ridere non so,ma essere muscolo gonfio e carne di fremiti, ombra cupa e peso di violenza, rumore consueto di zoccoli e mugghiare lamentoso, ruminare e sbatacchiare la lingua sul muso adunco. Con la durezza scagliosa di questa mia pelle sento la notte e il giorno e non ho mai paura, così dicono di me gli specchi e i muri che mi vedono non tremare mai, perché, dicono e sembra che lo sappiano bene, loro che tremano, non c’è niente nella notte e nel giorno che faccia paura a chi non avverte mai la differenza vera che il tempo crea, se non nel prendere posizione col proprio corpo in un contenitore, prendere forma, tenersi in piedi e scalciare, gridare per farsi sentire sempre, accendere e spegnere gli occhi e la fame nelle proprie viscere. Un giro di viscere a destra è la notte, uno a sinistra il giorno e poi viceversa o nulla, non sentire il bisogno o il ricordo, non un solo attimo di paura e attesa, non un solo frammento di emozione o lacerazione. Durare fermi e uguali, immutabili, percorsi da moti che conosci e sono la vita calda di respirare e mangiare.

    A volte mi pare che questo palazzo in cui mi trovo fin da quando ho aperto gli occhi sia esso stesso, nel suo farsi pietra e barriere limiti e varchi corridoi e volte archi e colonne fruscii scricchiolii e ticchettii (squittii, dicono, anche) notte e giorno, un alternarsi rapido di voglie sempre diverse del mio corpo, eppure lo stesso senso fluido di durezza e di pesantezza, che mi avvinghia le viscere e mi mordicchia il fegato o la milza, mi sconcerta e mi soffoca lentamente, anche se mi risulta come un pungolo di fame e sete o indigestione o crudezza o stanchezza e disorientamento per il sonno che stenta a venire o malore o… mai lo chiamerei in modo diverso. È solo fisico affaticato che soffre, malore livido del mio corpo grasso e lucido di pelo nero e sudore, intolleranza di restare sveglio quando ho tanto sonno, dolore e piacere che scavano le visceri, sangue che chiede subito ristoro, acuto richiamo dell’istinto senza meta e fine, prurito e bruciore che chiedono un cosa e dove, non un perché. Non lo chiamerei mai in altro modo questo mio innominabile malessere, insoddisfazione o irrequietezza o addirittura noia. Nomi metafisici, nomi di chi non ha pesantezza da mettere sulla bilancia della terra e si appende come mosca agonizzante alla fune del cielo, tra schizzi aspersi di paradiso e di inferno, tanto vento acido e nuvole a nascondere il dolore e a rivelarne in un brivido continuo solo l’eco lontanissima. Se dicessi cosa è questo labirinto ne uscirei forse fuori immediatamente, perché esso è in fondo soltanto un nome, aspro di sale, suoni inarticolabili parole di lettere saliva e idee. Grugnito e belato latrato e muggito. Sputo. Non è un nome morbido di idea che lo renderebbe chiuso alla fuga, ma solo di carne dura e di pesantezza, o di leggerezza. Ma non stelle e luna, non il sole, la fatica e la sofferenza, l’immagine che ha in sé una oscura e obesa difformità. Ecco che penso a me, quando mi vedo, non a quel che, estraneo, mi contiene mantiene sostiene, non all’io, ma al me crudo oggetto, distorsione sintattica e morfologica dell’essere. Non io sono, ma me sono,il punto che si stende sulla linea e poi sul cerchio che ne nasce e dà cielo non in altro essere, ma in sé e per sé, nello schiumare di bava che accompagna ogni mio movimento,qualunque mia volontà di istinto, mangiare uccidere bere scopare dormire defecare. Il labirinto è solo un intreccio di me e di , tanto crudo propterea quod non avviluppa e intrica l’io o l’egli, il soggetto, ma l’oggetto fisicizzato e nudo dell’essere,abbandonato (ma è stato mai tenuto da qualcuno o qualcosa che lo tutelasse?) senza protezione da volontà d’istinto, senza pensieri né idee né linee, ma cerchi e cerchi, uno nell’altro (ergo sum), squartati schiumosi magmi asimmetrici e gorgheggianti, scabrosi risucchi di impulso, turgidi sempre di sperma e fame. Quel che sono è quel che vedo (a occhi tondi cupi attoniti) di me, un brodo bollente e insipido di me che si sparge senza contenitore alcuno di io e di essere e si raffredda, perdendo forma e articolazione, nome brullo e nudo, appellativo impronunciabile e antico, nome vecchio di dio sublime e di mostro infimo, nome di uomo (uomo è quel che non è dio, dicono, quel che non è nuda animalità, e allora, quel che distrugge e crea il sé). Per tanti anni, per secoli, per ere ed epoche ho perso la squadratura di un nome tutto mio.

    E in fine (e in origine) non si desidera niente, se davvero non si sente niente, cosicché il tempo è e rimane un condensato amorfo di istanti, tiepidi gelidi o bollenti, ognuno uguale all’altro, ognuno un incomprensibile ergo di utopia e di aporia, un grasso impasto di terra e sputi senza significato, come una casa enorme di mille migliaia di stanze cunicoli antri fossi camminatoi scale urinatoi e letamai, alti muri spugnosi a secco sopra sotto a lato dentro fuori, prima durante e dopo, ingressi e uscite sovrapposte e incrociate a confondersi e ad annullarsi, per dove non si entra né si esce mai veramente (non esiste il veramente), un inesplorato e incomprensibile labirinto troppo grande e vuoto perché si possa riempire anche solo in parte di quel che chiamano uomo, o mostro o dio, o io.

    E in fine e in origine non si è niente. Essere è solo un tortuoso percorso di trasformazione misterica che nulla cambia, da AB ad AB, senza che in mezzo ci sia mai BA o B o A o C o niente… niente risulta fuori, niente emerge dagli occhi e dalle mani, nulla dalla vita e dalla morte, essere non è sostanza che trovi fenomeno, non è durata che prenda nome, non è storia che divori linee e forme.

    E in fine e in origine non so cosa sia fine e origine. Nomi senza niente. Potrebbero dirsi A e B o A e A o io e io o dio e dio o, più semplicemente, non dirsi in alcun modo, senza alcun nome, alcun suono. Sarebbe meglio iniziare dove si finisce, finire senza avere iniziato, divorare l’io senza aprire bocca. È questa coesione di punti, dal caos al kosmos, che non mi permette di uscire da questo silenzio in cui ho aperto gli occhi la prima volta e li chiuderò l’ultima (ma era davvero prima quella volta in cui aprii gli occhi e non c’era più un seno qualunque di madre a farmi stare indefinitamente bene?stavo bene? era qualcosa che si può definire bene in quella prima volta?ergo prima è bene? ancora muri e muri, sorgono senza che lo voglia o che me ne accorga, mi tolgono l’aria e scalcio ovunque capiti per gettarli a terra, muggisco sbuffo strabuzzo pazzamente gli occhioni ebeti di pietra, non sento più seno di femmina sotto il mio muso ispido e non c’è madre né padre né donna né uomo a dirmi niente). È questa linea non lineare del prima e del dopo che crea e distrugge quello che non è, artificio arcano di nomi e tempi, mito e storia masticati in un ruminante mugolare.

    Pasifae io sono la femmina la prima e la chiave che dà morte a chi nasce a chi prende voce e apre il tempio chiuso da muri al tempo, in fine e in origine il sacrificio (cos’è davvero, Asterio?) e le mani che non sanno accarezzare, perché pesanti e vecchie, amanti. Seno di madre se solo ti potessi svuotare e seminare nella mia carne e perdere infine di te solo la forma, quel sorriso castano sofferente che mai nessun altro mi ha donato, l’aspetto del dolore che esce fuori dalla storia e si condensa tutto in un pianto, misero pianto di occhi e gemiti, l'errore che ha ricattato il suo nodo di colpa! Pasifae io sono chi ha perso tutto.

    E in fine in origine sul seno di una madre o sotto il coltello di un padre la diversità e la uguaglianza scandiscono i nomi del tempo, oggi ieri domani, mentre durante dopo, istante millennio eternità mai sempre, i nomi che fanno scimmiottare nel tempo l’io, uomo donna dio ognuno nessuno, il sono e il vedo, il penso, il ricordo, il voglio. Sul seno gonfio d’una madre il coltello d’un padre e la mia bocca, sdentata avida affamata, la mia testa vuota di mostro, di cancellato e nascosto, di dimenticato e condannato, di me dissociato dall’io, di nomi senza niente, di linee senza linearità, mi trovo a interpretare un nome, uno solo, un tempo, uno solo, una voce, una sola, troppo grandi e vuoti di labirinto, troppo non miei, un dolore troppo non m-io, e muto, senza mutare, e cieco, senza echeggiare lontano, fuori da qui, fuori da me, fuori dal me, vergognoso belato del vile che striscia viscido dentro questo mio corpo inutilmente possente, fuori dal me che è inizio e fine, madre e padre, tutto e niente. Fuori da questo labirinto il tempo è pioggia che cambia e trasforma. Fuori non si può, non si deve, non si vuole. È giorni che fanno l’uomo e il veramente. Alito di verità, non ascolto, a ridosso del muro, cosa chi dove quando come… fuori è creare BA da AB e mai da sempre.

    Riparare il tempo, i tempi, ricreare il caos e la fuga, la distruzione dei muri e della casa di stanze, la fine e l’origine nella diversità e nell’uguaglianza. Reparatio temporum o preparare di nuovo quello che mai si è manifestato, sgorgare la goccia da dove non c’è liquido né sostanza alcuna, essere dal nulla. Solo allora (ancora un incastro di tempo, ancora un nome) la consecutio temporum, ogni sorta di connessioni e legami, rapporti incesti frazioni separazioni, del tempo, fuori da qui,dal belato del me.

    Riparare il tempo o svuotare l’idea del tempo. Uno sterminato ritorno ciclico che inghiotte e spreme i significati le misure le forze nude le direzioni. Un tornare che non ha mai conosciuto l’andare via, l’addio, gli anni che annullano la luce dei colori e dei volti, la tristezza delle pupille chiuse nell’oggi e tutti i ricordi costretti e mescolati dentro una grande scatola di giustificazioni e processi senza vinti, ovunque cada il senso si forma un vuoto che non vuole più essere colmato e finito, nemmeno un nome si attacca alle viscere e chiede di sanguinare ancora, nemmeno più un nido di parole secche. Riparare il tempo è privarlo della sua tossicità segnata di rughe e fratture, delle sue porte chiuse e aperte, delle sue mani che afferrano e strappano stanze, svellono radici colori e luci madri.

    Ma è giorno, dicono. Dodici cieli chiusi dodici anni di un dio silenzioso che ignaro ha succhiato il capezzolo rubato di una madre internata in un manicomio remoto dell’Egeo, qualche isola di vino forte e magia dove è attecchita la bellezza di nespoli solitari e boschetti sacri sullo schiumare ossessivo delle onde, quando un’empietà una blasfemia una tracotanza ha contaminato le acque nere della notte per desiderio di trovare un ristoro un piacere una scala che entrasse carne e occhi aperti nel cielo antico, per rubarne via tutto ciò che è andato e non ritorna mai più, tutto ciò che non sa morire e sfugge al pugno distruttore del tempo. L’isola che mi ha visto nascere e crescere è la stessa su cui la condanna ha giustiziato il capezzolo stesso d’una madre vestita d’una vulva bovina. Il toro che è venuto dal mare sconfinato ha detto che resterò ultimo in questa terra di vino forte e sale d’alghe sugli scogli, fino alla fine dei tempi, che hanno un ordine e un disordine intrinseco nel ritmo stesso con cui piove e rasserena, si ride e si piange, le madri gravide di colpa partoriscono e nella doglia maledicono il cielo dei desideri e delle atrocità, gridano la mano calata sulle palpebre e svaniscono piano lontano in una cella tumorale di torture o in una smania di sé che

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