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Cordialmente, Perfido: Truly Devious series 1
Cordialmente, Perfido: Truly Devious series 1
Cordialmente, Perfido: Truly Devious series 1
E-book397 pagine5 ore

Cordialmente, Perfido: Truly Devious series 1

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Truly DEVIOUS series 1

In mezzo alle montagne del Vermont, avvolta nella nebbia e isolata da tutto, sorge la Ellingham Academy, una rinomata scuola superiore per studenti particolarmente dotati. Il suo fondatore, Albert Ellingham, aveva voluto renderla un luogo magico e misterioso, pieno di enigmi, sentieri tortuosi e giardini. "Un posto" disse, "dove imparare sia un gioco".
Ma poco dopo l'apertura della scuola, nel 1936, sua moglie e sua figlia furono rapite e Dottie Epstein, la studentessa più brillante del corso, scomparve nel nulla. 

L'unico indizio trovato era un indovinello beffardo che elencava una serie di modi per uccidere, firmato "Cordialmente, Perfido". Il caso non fu mai risolto.

Ottant'anni dopo Stevie Bell, aspirante criminologa, si presenta alla Ellingham Academy con un piano ambizioso: risolvere quel mistero. Cioè, lo farà non appena si sarà ambientata e avrà conosciuto meglio i suoi coinquilini: Ellie, l'artista appassionata di meccanica; Nate, scrittore in erba che ha già pubblicato un fantasy ma non riesce a trovare ispirazione per il secondo libro; Hayes, star di YoyTube, che è diventato famoso con una serie sugli zombie; e David, misterioso nerd sul cui conto Stevie non riesce a trovare nulla online o sui social. 
Poi iniziano ad accadere strane cose, e tutto a un tratto ricompare a sorpresa il misterioso Cordialmente Perfido... E quando la morte visita di nuovo la Ellingham Academy, Stevie non ha dubbi: il passato è strisciato fuori dalla tomba. L'assassino è ancora in circolazione, ma questa volta non la passerà liscia. Perché lei continuerà a cercarlo.

L'enigma del passato si fonde con il mistero del presente dando vita a un'indagine mozzafiato che impegnerà Stevie Bell anche nei prossimi volumi della serie.

LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2018
ISBN9788858991206
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    Anteprima del libro

    Cordialmente, Perfido - Maureen Johnson

    1

    «Non è vero che ci sono gli alci» disse Stevie.

    Sua madre si voltò verso di lei, con quell’espressione che aveva spesso: un po’ stanca, costretta a concentrarsi su ciò che la figlia diceva per obbligo genitoriale.

    «Come?» disse.

    Stevie indicò oltre il vetro del pullmino.

    «Lo vedi?» Stevie mostrava un cartello che recitava: ALCI. «Ne abbiamo già passati cinque di quelli. Un sacco di promesse. E nemmeno un alce.»

    «Stevie…»

    «Hanno anche annunciato caduta massi. Dove sono i massi che cadono?»

    «Stevie…»

    «Sono fermamente convinta che bisogna dire la verità negli annunci pubblicitari» disse Stevie.

    Seguì un lungo silenzio. Stevie e i suoi genitori avevano discusso parecchio sulla natura della verità e dei fatti, e un’osservazione del genere avrebbe potuto provocare un litigio in un’altra circostanza. Non quel giorno. Parevano aver deciso, con un accordo tacito e condiviso, che fosse meglio lasciar correre la questione.

    In fin dei conti non succedeva tutti i giorni di andare via di casa per trasferirsi in collegio.

    «Non mi piace il fatto che non si possa raggiungere la scuola in macchina» disse suo padre forse per l’ottava volta quella mattina. Il libretto informativo era molto chiaro in proposito: NON PORTATE GLI STUDENTI A SCUOLA IN AUTO. SARETE COSTRETTI A LASCIARLI AL CANCELLO SULLA STRADA. NON SI FANNO ECCEZIONI.

    Non che fosse una vessazione gratuita, la ragione era chiara: il campus non era stato progettato per accogliere molte macchine. Esisteva una sola stretta strada che lo attraversava e non c’era posto per parcheggiare. Quindi si entrava e usciva con il pullmino di Ellingham. I genitori di Stevie non avevano visto di buon occhio quella regola, come se un posto difficile da raggiungere in macchina fosse di per sé sospetto e violasse la loro sacrosanta libertà americana di andare dove volevano con l’auto.

    Tuttavia le regole erano regole, perciò i Bell erano seduti su quel pullmino: un mezzo di qualità con una dozzina di posti, vetri oscurati e uno schermo che si limitava a mostrare il riflesso sbiadito del finestrino. Alla guida c’era un uomo dai capelli argentei. Non aveva aperto bocca da quando li aveva presi a bordo nell’area di sosta, un quarto d’ora prima, e anche allora aveva detto soltanto: «Stephanie Bell?» e «Siediti dove vuoi. Non c’è nessun altro». Stevie aveva sentito parlare della famosa reticenza degli abitanti del Vermont, e del fatto che chiamassero i forestieri gente della bassa, eppure c’era qualcosa di inquietante nel suo silenzio.

    «Senti» disse sua madre a bassa voce, «se cambi idea…»

    Stevie strinse un lato del sedile. «Non cambio idea adesso. Ci siamo. Quasi.»

    «Sto solo dicendo…» insistette sua madre, e poi si interruppe. Era un altro dei discorsi fatti mille volte. Quella mattinata sembrava destinata a riascoltare i grandi successi, senza alcuna novità.

    Stevie riprese a guardare fuori mentre il mistico blu dell’orizzonte spariva, mangiato dagli alberi e dalle pareti di roccia dove la strada s’infilava tra le montagne. Le si tapparono le orecchie per il leggero aumento dell’altitudine mentre procedevano lungo la I-89, allontanandosi da Burlington e inoltrandosi sempre più nella natura selvaggia. Avvertì che la conversazione era arrivata alla sua fine naturale, quindi infilò gli auricolari. Sua madre le toccò un braccio e lei fece partire il podcast.

    «Forse non è il momento migliore per ascoltare quelle spaventose storie di omicidi» disse.

    «Veri crimini» replicò Stevie prima di riuscire a impedirselo. Quella rettifica la fece sembrare pedante. E poi niente litigi. Non bisognava litigare.

    Stevie staccò il connettore degli auricolari e riavvolse il filo.

    «Hai sentito la tua amica?» chiese sua madre. «Jazelle?»

    «Janelle» la corresse Stevie. «Mi ha mandato un messaggio per dirmi che stava andando all’aeroporto.»

    «Ottimo» disse sua madre. «Sarà un bene per te avere qualche amica.»

    Sii gentile, Stevie. Non dire che hai già degli amici. Che hai un sacco di amici. Anche se molti di loro sono persone che hai conosciuto online nei forum sugli omicidi misteriosi. I suoi genitori non sapevano che si potesse incontrare qualcuno all’infuori della scuola e che non era qualcosa di malsano e che Internet era un modo per trovare i propri simili. E comunque aveva amiche anche a scuola, ma mai quelle che ci si aspettava da lei, tutte pigiama party e trucchi e giri al centro commerciale.

    Ora, comunque, non importava più. Il suo futuro era lì, tra le montagne.

    «Di cosa hai detto che s’interessa Janelle?» chiese sua madre.

    «Ingegneria» rispose Stevie. «Costruisce cose. Macchine, dispositivi.»

    Seguì un silenzio scettico.

    «E quel Nate è uno scrittore?»

    «Quel Nate è uno scrittore» confermò Stevie.

    Erano i due ragazzi del primo anno che avrebbero dormito nella stessa casa di Stevie. Gli studenti del secondo anno non venivano comunicati. Anche quelle erano informazioni che circolavano a tavola in casa Bell da settimane: Janelle Franklin veniva da Chicago. Era una portavoce nazionale di Growing Stems, un programma che incoraggiava le ragazzine di colore ad abbracciare materie quali la scienza, la tecnologia, l’ingegneria e la matematica. Stevie aveva scoperto parecchio del suo passato, di come Janelle fosse stata vista aggiustare – con successo – il tostapane quando aveva sei anni. Stevie conosceva tutto ciò che piaceva a Janelle: costruire macchine e gadget, saldare, curare il suo account Pinterest sulle tecniche organizzative, le ragazze con gli occhiali, i romanzi YA, il caffè, i gatti, e più o meno tutti i programmi televisivi.

    Stevie e Janelle si mandavano messaggi regolarmente. Ed era un bene. L’amica numero uno.

    L’altro primino della Minerva era Nate Fisher. Nate parlava di meno e non rispondeva mai ai messaggi, ma c’era qualcosa da sapere su di lui. Nate aveva pubblicato un libro intitolato Le cronache di Moonbright quando aveva quattordici anni: settecento pagine di fantasy epico scritte in pochi mesi, dapprima pubblicato online e poi sotto forma di libro. Il secondo volume doveva essere in corso d’opera.

    Erano studenti del genere che venivano ammessi alla Ellingham Academy.

    «Sembrano ragazzi molto in gamba» aveva detto suo padre. «E anche tu lo sei. Siamo fieri di te. Lo sai.»

    Stevie vi aveva letto tra le righe: anche se ti vogliamo bene, ignoriamo perché sei stata presa in questa scuola, strana figlia che sei.

    Tutta l’estate era stata così, un bizzarro miscuglio di orgoglio dichiarato e dubbio taciuto, rafforzato dalla difficoltà di capire come quella serie di eventi fosse potuta succedere. All’inizio i genitori di Stevie non avevano nemmeno saputo che Stevie aveva fatto domanda per entrare a Ellingham. Non era il genere di posto in cui andava gente come i Bell. Per quasi un secolo la scuola aveva ospitato geni creativi, pensatori radicali e innovatori. Ellingham non aveva procedure per candidarsi, elenchi di requisiti, né dava altre informazioni oltre a questa: Se desideri fare domanda per entrare alla Ellingham Academy, ti preghiamo di metterti in contatto con noi».

    Tutto qui.

    Una sola frase che faceva impazzire qualunque studente ambizioso. Cosa volevano? Che cosa cercavano? Era come un enigma da risolvere in una storia fantasy o una fiaba, la prova a cui ti sottopone il mago prima di ammetterti nella Caverna dei Segreti. In genere le candidature prevedevano elenchi di rigidi requisiti e punteggi e componimenti e lettere di presentazione e magari anche un campione di sangue e qualche battuta di un musical famoso. Ellingham no. Bastava bussare alla porta. Bastava bussare alla porta nel modo giusto e speciale che non veniva spiegato. Bisognava soltanto mettersi in contatto con qualcuno. Lì cercavano una scintilla. Se vedevano in te quella scintilla, potevi essere tra i cinquanta studenti che venivano ammessi ogni anno. Il programma durava soltanto un biennio, l’ultimo di scuola superiore. Non c’erano rette da pagare. Per chi entrava era tutto gratuito. Bastava entrarci.

    Il pullmino imboccò la rampa d’uscita ed entrò in una nuova area di sosta, dove aspettava un’altra famiglia. Una ragazza e i suoi genitori fissavano i loro telefoni. La ragazza era estremamente minuta, con lunghi capelli scuri.

    «Che bei capelli» disse la mamma di Stevie.

    Benché stesse parlando di qualcun altro, era un riferimento a quelli di Stevie che lei si era tagliata in bagno all’inizio della primavera in un impeto di autorinnovamento. Sua madre aveva pianto quando aveva visto i capelli biondi di Stevie nel lavandino e l’aveva portata dal parrucchiere perché li regolasse e desse loro una forma. I capelli erano stati un importante argomento di discussione, tanto che a un certo punto i suoi genitori avevano detto che come punizione non le avrebbero permesso di andare a Ellingham. Ma alla fine si erano ricreduti. Quella minaccia era stata fatta in un momento di forte emotività. Sua madre era molto affezionata ai capelli di Stevie, per questo li aveva tagliati. Tuttavia Stevie pensava soprattutto che le stessero meglio corti.

    Il che era vero. Il caschetto corto le stava bene, ed era facile da curare. Aveva avuto qualche problema quando li aveva tinti di rosa, e blu, e rosa e blu. Ma ora erano tornati alla normalità: corti e biondo cenere.

    Le valigie della ragazza furono caricate nel portabagagli e lei salì con i genitori. Avevano tutti e tre capelli scuri e l’aria studiosa, con grandi occhi incorniciati dagli occhiali. Pareva una famiglia di gufi. Ci si scambiò saluti cortesi e mugugnati, e i nuovi arrivati presero posto dietro ai Bell. Stevie riconobbe la ragazza dalla guida del primo anno, ma non ricordava il suo nome.

    Sua madre le diede un colpetto, che cercò di ignorare. La ragazza stava guardando di nuovo il telefono.

    «Stevie.»

    Stevie espirò rumorosamente dal naso. Avrebbe dovuto allungarsi sopra sua madre e chiamare la ragazza, che era nella fila dietro ma dal lato opposto. Imbarazzante. Ma doveva farlo.

    «Ehi» disse Stevie.

    La ragazza levò lo sguardo.

    «Ehi?» disse.

    «Io sono Stevie Bell.»

    La ragazza socchiuse gli occhi, assimilando l’informazione.

    «Germaine Batt» disse.

    Non aggiunse altro. Stevie tornò con il busto al suo posto, sentendo di aver fatto uno sforzo consistente, ma sua madre le diede un altro colpetto.

    «Fate amicizia» sussurrò.

    Poche parole fanno rabbrividire di più, se messe insieme, di fate amicizia. L’ordine di legarsi a quella ragazza la gelò. Lei voleva i massi che cadevano. Ma sapeva che cosa sarebbe successo se non si fosse messa a far conversazione: lo avrebbero fatto i suoi genitori. E se attaccavano loro, sarebbe potuto succedere di tutto.

    «Vieni da lontano?» chiese Stevie.

    «No» rispose Germaine, alzando lo sguardo dal telefono.

    «Noi venivamo da Pittsburgh.»

    «Oh» disse Germaine.

    Stevie si appoggiò allo schienale, guardò sua madre e scrollò le spalle. Non riusciva a far parlare Germaine. Sua madre le diede un’occhiata del genere be’, ci hai provato. Un punto per lo sforzo.

    Il pullmino uscì dall’autostrada e tra gli scossoni imboccò una strada più stretta e accidentata, fiancheggiata da negozi e fattorie e manifesti che reclamizzavano lo sci, la soffiatura del vetro e le caramelle allo sciroppo d’acero. Poi le costruzioni si ridussero e i campi si moltiplicarono, percorsi da vecchi trattori rossi e un cavallo occasionale.

    Salivano sempre più su tra i boschi.

    A un tratto il pullmino fece una curva a gomito ed entrò in una radura, scaraventando Stevie sul lato e quasi fuori dal sedile. In basso c’era un piccolo cartello rosso scuro con una scritta dorata: era l’ingresso della Ellingham Academy, così dimesso da far sembrare che la scuola volesse nascondersi.

    La strada che imboccarono era a stento una strada. Sarebbe stato generoso chiamarlo sterrato. In realtà era uno squarcio artificiale nel paesaggio, uno sfregio serpeggiante nella foresta. Sulle prime scendeva molto ripida verso uno dei ruscelli che correvano lungo la proprietà. In fondo si trovava una struttura che solo per scherzo si sarebbe potuta chiamare ponte, fatta di legno, corda e sogni. Le sponde erano alte trenta centimetri e sembrava che dovesse crollare se ci fosse andato sopra qualcosa di più pesante di una bistecca.

    Il pullmino lo attraversò di slancio. Il ponte si scosse con forza, strappando un brontolio al sedile di Stevie.

    Poi ripresero a salire, con un’inclinazione solitamente riservata agli ski-lift o agli aerei che decollano. Non c’era niente che potesse fermare il pullmino. L’ombra degli alberi immergeva la strada nell’oscurità. I rami si allungavano ai lati come decine di unghie. Il mezzo emetteva cigolii e sembrava arrancare lungo la strada sempre più stretta. Stevie sapeva che non c’era niente di cui preoccuparsi, ma il pullmino pareva lottare contro le stesse forze dell’universo mentre saliva lungo lo sterrato. Era improbabile che il viaggio finisse lì, con lei e i suoi genitori a bordo, che il pullmino cedesse e tornasse giù da dove era venuto, precipitando in caduta libera e schiantandosi alla cieca nel ruscello e poi in un dolce, freddo e umido oblio… Ma non si poteva mai sapere.

    Poi il terreno cominciò a farsi meno scosceso e gli alberi lasciarono il passo a una strada più liscia e alla vista aperta dei prati verdi. Il pullmino si avvicinò a un cancello protetto da due statue su piedistalli, creature alate con volti sorridenti e occhi vuoti, quattro zampe e una coda.

    «Che strani angeli» disse la madre di Stevie, stirando il collo per vedere.

    «Non sono angeli» replicò Stevie. «Sono sfingi. Sono mitiche creature che ti pongono un enigma prima di lasciarti entrare in un luogo. Se sbagli ti mangiano. Come in Edipo Re. L’enigma della sfinge. In latino Sphinx. Da non confondere con Spanx, che è l’arma del complesso creato dall’industria della dieta.»

    Sua madre le scoccò di nuovo quell’occhiata del genere: ne avremmo preferita una del tipo uscite-shopping-ballo della scuola, e invece ci siamo ritrovati questa qui, stramba e inquietante, le vogliamo bene, eh, ma di cosa parla tutto il tempo?

    Certe volte a Stevie dispiaceva per i suoi genitori. La loro idea di interessante era così limitata. Non si sarebbero mai divertiti quanto lei.

    Germaine allungò lo sguardo verso Stevie con grandi occhi luminosi. Aveva il viso impassibile come quello delle sfingi.

    In quel momento la coltre del dubbio occultò tutto ciò che c’era nella mente di Stevie. Non avrebbe dovuto essere ammessa. La lettera era arrivata nella casa sbagliata, alla Stevie sbagliata. Era un inganno, uno scherzo, un errore cosmico. Niente di tutto ciò poteva essere reale.

    Ma ormai era troppo tardi, anche se fosse stato vero, perché erano arrivati alla Ellingham Academy.

    2

    La prima cosa che Stevie vide fu il prato all’inglese circolare con una fontana al centro, una statua di Nettuno in piedi che accoglieva i nuovi arrivati tra gli zampilli d’acqua. Una fitta cortina di alberi circondava il prato. Tra i rami facevano capolino scorci di edifici, sprazzi di mattone e pietra e vetro. In cima al prato, a farla da padrona, c’era un’imponente casa: la Villa, una dimora gotica con decine di vetrate, quattro archi intorno alla porta e un tetto tutto guglie.

    Stevie rimase a bocca aperta per un momento. Aveva visto centinaia di fotografie della tenuta di Ellingham. Ne conosceva le mappe, le prospettive e le vedute. Ma trovarsi lì, nell’aria fresca e sottile, sentire gli spruzzi della fontana di Nettuno e il sole sul viso mentre si trovava sull’ampio prato… Trovarsi lì la rendeva euforica.

    L’autista scaricò le valigie di Stevie dal ventre del pullmino, insieme ai tre sacchetti di provviste che i suoi genitori avevano insistito a portare. Avevano un peso imbarazzante, stracolmi com’erano di scatole in plastica di burro di arachidi, tè freddo in polvere, e tonnellate di gel doccia, prodotti per la pulizia e altri articoli comprati in sconto.

    «Bisogna dargli la mancia?» chiese sua madre a bassa voce, mentre tutta la roba veniva scaricata dal pullmino.

    «No» rispose Stevie, impostando una voce sicura. Non aveva idea se si dovesse dare la mancia all’autista dell’autobus scolastico. Non era emerso dalle sue ricerche.

    «Stai bene?» chiese suo padre.

    «Sì» rispose lei, appoggiandosi alla valigia per mantenere l’equilibrio. «È solo che… è così bello.»

    «È notevole» disse lui. «Non lo si può negare.»

    Una grande auto da golf percorse il viale circolare e si fermò accanto a loro. Un uomo che era a bordo li salutò. Era più giovane dell’autista, sulla trentina forse, robusto e muscoloso, e indossava un paio di bermuda con le tasche laterali e una polo della Ellingham. Era il tipo di persona a modo che faceva rilassare i suoi genitori, quindi Stevie si rilassò.

    «Stephanie Bell?» chiese.

    «Stevie» lo corresse lei.

    «Sono Mark Parsons» disse lui. «Sono responsabile della manutenzione. Tu starai a Minerva. Bella casa.»

    La roba di Stevie e i tre Bell furono caricati sul mezzo. Germaine e la sua famiglia vennero messi su un altro veicolo e spediti nella direzione opposta.

    «Tutti vogliono Minerva» aggiunse Mark quando furono fuori portata d’orecchio. «È la casa migliore.»

    Il parco era pieno di vialetti di pietra che serpeggiavano tra i boschi. Viaggiarono in una densa ombrosità, e Stevie e i suoi genitori furono ridotti a un silenzio emozionato dagli edifici della scuola. Ce n’erano alcuni grandi e maestosi di pietra e mattoni rossi, collegati da arcate gotiche e torrette che ne addolcivano gli angoli. Alcuni erano spogli e grandiosi, mentre altri erano tanto ricoperti di edera che sembravano doni presentati a qualche dio della foresta. Quella scuola non aveva nulla a che vedere con il liceo di quartiere. Era chiaramente un tempio del sapere.

    C’erano statue greche e romane di fredda pietra bianca dietro gli alberi e da sole nelle radure.

    «Qui c’è qualcuno che ha fatto acquisti in un vivaio» disse suo padre.

    «Oh no» replicò Mark, svoltando intorno a una chiostra di teste, gli occhi vuoti ma l’espressione determinata, che assomigliavano molto a un comitato alle prese con un’importante decisione. «Queste sono tutte originali. Statue che valgono una fortuna lasciate qui all’aperto.»

    A essere onesti, forse ce n’erano fin troppe. Qualcuno avrebbe dovuto fare una chiacchierata con Albert Ellingham e dirgli di rilassarsi un po’ nell’acquisto delle statue. Ma quando si è abbastanza ricchi e famosi, immaginò Stevie, si può fare ciò che si vuole nel proprio rifugio tra le montagne.

    L’auto da golf si fermò davanti a una bassa casa signorile costruita alternando mattoni rossi e dorati. Pareva suddivisa in parti: c’era un’ampia sezione a destra che aveva l’aria di una casa normale, e di fianco una lunga ala che terminava con una torretta. La vite del Canada ricopriva la costruzione, occultando i volti in bassorilievo che facevano capolino dal profilo del tetto e sopra le finestre. La porta era di un blu vivace ed era aperta, lasciando così passare la brezza e le mosche.

    Stevie e i suoi genitori entrarono in quella che si rivelò una sorta di sala comune, con il pavimento di pietra e un ampio camino circondato di sedie a dondolo. La sala era fresca e immersa nell’ombra, e odorava di legna e fuochi passati. Aveva una tappezzeria di velluto rosso un po’ claustrofobica ed era ornata dalla testa di un alce che portava una corona di luci decorative. C’era una poltrona sospesa a lato del camino, un mucchio di cuscini da pavimento, un divano viola, logoro ma dall’aspetto esageratamente comodo, e un massiccio tavolo rustico che occupava gran parte della stanza. Sul tavolo si trovava una cassetta porta attrezzi e del materiale per decorare: perle e molte cosine misteriose, di quelle che si usano per lo scrapbooking. Accanto alla porta, otto grossi pioli spuntavano dalla parete. Erano lunghi venti, venticinque centimetri; davvero troppo lunghi per le giacche. Stevie ne toccò uno con la punta del dito come per concretizzare la domanda: cosa sei?

    «Buongiorno.»

    Stevie si voltò e vide una donna che usciva dalla piccola cucina con una tazza di caffè in mano. Aveva la testa rasata coperta da una leggera peluria e il corpo minuto ma molto muscoloso e abbronzato. Le sue braccia erano elegantemente tatuate come maniche fiorite. Indossava una maglietta larga che recitava SCAVO SCAVI e calzoncini con le tasche di lato, che lasciavano scoperte un paio di gambe forti e pelose.

    «Stephanie?» chiese la donna.

    «Stevie» corresse lei di nuovo.

    «Nell Pixwell» disse la donna, allungando una mano verso ogni membro della famiglia. «Chiamatemi Pix. Sono la responsabile di casa Minerva.»

    Stevie guardò meglio i piccoli oggetti accanto alla cassetta per gli attrezzi. A un esame più attento, si rese conto che non era materiale per lavori manuali, bensì denti. Una marea di denti. Lì. Sul tavolo. Non si capiva se fossero veri o finti, e Stevie non era sicura che fosse importante. Un tavolo pieno di denti è un tavolo pieno di denti.

    «Avete fatto buon viaggio?» chiese Pix, suddividendo in fretta i denti rimasti nei diversi scomparti.

    Plink, disse un dente colpendo la plastica. Plink.

    «Scusate, stavo solo riordinando alcune cose. Siete i primi…»

    Plink, disse un molare.

    «Posso farvi un caffè?»

    Il gruppo venne condotto nella piccola cucina della casa, dove furono distribuite le tazze di caffè e Pix ebbe modo di spiegare l’organizzazione dei pasti ai genitori di Stevie. La colazione si faceva in casa, pranzo e cena si consumavano nella sala da pranzo. Gli studenti potevano entrare in cucina a farsi da mangiare quando volevano, e c’era un sistema per ordinare generi alimentari online. Quando tornarono nella sala comune, la madre di Stevie decise di sfidare l’ovvietà.

    «Quelli sono denti?» chiese.

    «Sì» rispose Pix.

    Non seguì una spiegazione, perciò intervenne Stevie.

    «La dottoressa Pixwell è una specialista di bioarcheologia» disse. «Partecipa ad alcuni scavi archeologici in Egitto.»

    «Giusto» disse Pix. «Hai letto il mio curriculum?»

    «No» rispose Stevie. «I denti, la maglietta, l’Occhio di Horus che hai tatuato sul polso, l’infuso di camomilla in cucina con la scatola scritta in arabo, e hai il segno dell’abbronzatura sulla fronte come di un cappello. Ho solo tirato a indovinare.»

    «Davvero notevole» disse Pix, annuendo. Tutti tacquero per un momento. Una mosca ronzò intorno alla testa di Stevie.

    «Stevie crede di essere Sherlock Holmes» disse suo padre. Gli piaceva fare quel tipo di osservazioni che parevano battute, e forse erano innocenti in qualche modo, ma avevano sempre un che di cupo.

    «Chi non vorrebbe essere Sherlock Holmes?» disse Pix, incontrando lo sguardo di Stevie e sorridendo. «Leggevo di più Agatha Christie quand’ero ragazza perché scriveva tanto di archeologia. Ma tutti adorano Sherlock Holmes. Ora vi faccio fare un giro…»

    In quel momento, con quella singola osservazione, Pix si guadagnò l’eterna fedeltà di Stevie.

    Le sei camere per gli studenti della casa Minerva si trovavano tutte nella stessa ala, a sinistra della sala comune: tre stanze giù e tre di sopra. C’era un bagno in comune al pian terreno con piastrelle che dovevano essere originali perché adesso nessuno avrebbe fatto niente di simile. A voler dare un nome a quella tinta, Stevie avrebbe optato per salmone nauseante.

    In fondo al corridoio c’era la torretta con un’ampia porta.

    «Questa è un po’ speciale» disse Pix, aprendola. «Minerva veniva usata dagli ospiti degli Ellingham prima che aprisse la scuola, perciò ha particolari che non si trovano negli altri alloggi…»

    La porta aperta rivelò una maestosa sala circolare, un bagno dal soffitto alto. Il pavimento era piastrellato di un perlaceo grigio-argento. Al centro troneggiava una vasca con piedi a zampa di leone. Sulle lunghe vetrate erano raffigurati fiori stilizzati e viticci che immergevano la stanza in una serie di arcobaleni.

    «Questa stanza è molto gettonata durante gli esami» disse Pix. «Alla gente piace studiare nella vasca, soprattutto quando fa freddo. Altrimenti non viene usata molto perché c’è un po’ un problema di ragni. Ora andiamo a vedere la tua camera.»

    Stevie decise di ignorare ciò che aveva appena sentito sui ragni ed entrò nella sua stanza. Minerva Due. Dall’odore, pareva che avesse cotto a fuoco lento per qualche mese; nell’aria si respirava un puzzo di chiuso, di pittura nuova e vernice per mobili. Una delle due finestre a ghigliottina che davano sulla facciata era stata aperta nel tentativo di arieggiare, ma il vento era pigro. Erano entrate due mosche, che danzavano sotto l’alto soffitto. Le pareti erano di un dolce color crema; un camino nero risaltava per contrasto.

    Mentre portavano dentro la roba di Stevie, si discusse su dove fosse meglio mettere il letto, e se qualcuno potesse entrare da quella finestra e a che ora bisognava essere in casa la sera… Pix rispose con disinvoltura: le finestre si aprivano in alto e avevano tutte buone serrature, e bisognava essere in casa alle dieci durante la settimana e alle undici nel weekend, il tutto monitorato elettronicamente attraverso la tessera studentesca e da Pix in persona.

    Sua madre si accingeva a disfare le valigie di Stevie quando Pix intervenne per proporre un giro personalizzato del campus, lasciando a Stevie un momento di tranquillità. Gli uccelli cinguettavano fuori e la brezza portava con sé qualche voce lontana. Minerva Due scricchiolava appena quando la si attraversava. Stevie fece correre la mano lungo le pareti, sentendo la loro strana consistenza: erano cariche di anni di pittura, uno strato dopo l’altro, per coprire i segni dell’ultimo inquilino. Stevie aveva visto di recente un documentario sui crimini in cui si spiegava che gli strati di pittura potevano essere rimossi, rivelando scritte nascoste per decenni. Da allora le era venuta una gran voglia di passare al vapore e scrostare una parete, tanto per vedere se ci fosse qualcosa sotto.

    Era probabile che quelle pareti racchiudessero delle storie.

    13 aprile 1936, ore 18.45

    La nebbia era arrivata presto quel giorno: la mattina era sbocciata, luminosa e tersa, ma poco dopo le quattro una coltre di fumo blu-grigio era calata sulla terra. In molti si sarebbero ricordati della nebbia. Al crepuscolo ormai tutto era avvolto in un’oscurità perlacea ed era difficile vedere a qualche spanna da sé. La Rolls-Royce Phantom si muoveva lentamente nella nebbia, risalendo il pericoloso viale della tenuta degli Ellingham. Arrivò a metà della strada circolare davanti alla Villa. Si fermava sempre a metà. Ad Albert Ellingham piaceva camminare quando usciva dall’auto per esaminare il suo regno montano. Aprì la portiera posteriore e scese prima che la macchina fosse del tutto ferma. Il suo segretario, Robert Mackenzie, attese qualche secondo prima di uscire.

    «Dovrebbe andare a Philadelphia» disse Robert alla schiena del suo datore di lavoro.

    «Nessuno deve andare a Philadelphia, Robert.»

    «Lei sì. E dovrebbe anche trascorrere almeno due giorni nell’ufficio di New York.»

    L’ultimo autobus carico di operai che lavoravano alle fasi finali della costruzione passò loro accanto, diretto a Burlington e alle varie cittadine sulla strada. Rallentò in modo che i passeggeri potessero alzare le mani per salutare il padrone e si allontanò.

    «Bel lavoro oggi!» gridò loro Albert Ellingham. «Ci vediamo domani!»

    Il maggiordomo aprì la porta, e i due uomini entrarono nel sontuoso ingresso della casa. Ogni volta che entrava, Ellingham si compiaceva dell’effetto prodotto da quel luogo, i giochi della luce che si rifletteva su ogni pezzo di cristallo, colorata da vetrate scozzesi valse una fortuna ben spesa.

    «’sera, Montgomery» disse Ellingham. La sua voce tonante echeggiò nell’ampio atrio.

    «Buonasera, signore» disse il maggiordomo, prendendo giacche e cappelli. «Buonasera, Mr Mackenzie. Spero che il viaggio non sia stato troppo difficoltoso con questa nebbia.»

    «Ci abbiamo messo un’eternità» rispose Ellingham. «Robert non ha smesso di parlare di riunioni per tutto il tragitto.»

    «Per favore, di’ a Mr Ellingham che deve andare a Philadelphia» disse Robert, porgendo il proprio cappello.

    «Mr Mackenzie mi prega di informarla che…»

    «Sto morendo di fame, Montgomery» disse Ellingham. «Cosa c’è stasera?»

    «Come zuppa crème de céleri, poi filet de saule con sauce amandine, seguito da

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