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Racconti di sonno bianco
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E-book234 pagine3 ore

Racconti di sonno bianco

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Info su questo ebook

Racconti di sonno bianco è una raccolta di sette racconti in cui l'autore indaga alcune sfumature della realtà umana spesso tesa fra realtà e sogno.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2019
ISBN9788831613842
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    Anteprima del libro

    Racconti di sonno bianco - Laura Oskene

    bianco

    Il fantasma di legno

    Se ne stava seduta a un tavolo del bar, i capelli mossi raccolti indietro, una camicia bianca e una gonna lunga grigia che le arrivava fin quasi alle caviglie.

    Sembrava non badare a nessuno con l'espressione assorta dipinta sul volto, il busto piegato in avanti sul tavolino e un gomito poggiato in parte.

    Con una tazza di tè davanti, attorcigliava fra le dita alcune ciocche di capelli che sfuggivano da dietro, come attendendo qualcuno, qualcosa o semplicemente pensando.

    Piegata sul bordo della sedia leggermente tirata indietro, la posizione insolita e l'altro braccio steso in parte lungo il fianco, pareva più come fosse a casa che in un luogo pubblico.

    Era restata così ancora un poco, poi riemergendo dai suoi pensieri si raddrizzò e toccandosi un'ultima volta la nuca, posò lo sguardo sul posto vuoto di fianco a sé come ci fosse stato qualcuno seduto.

    - Eccola, la bella – disse un tipo più avanti fra la porta e il bancone.

    - Eh sì – gli fece eco un altro.

    - Mah a mi mi somee un tic strane. (Mah a me sembra un poco strana.)

    - Ma tas cidin macaco, ce capistu tu di feminis. (Ma stai zitto macaco, cosa capisci tu di donne.)

    - Vegnistu a ballâ qualchi viaç? No ti si viôt mai a tor. (Vieni a ballare qualche volta? Non ti si vede mai in giro.)

    - Non mi va di ballare - rispose lei alzandosi – e comunque non vi bastano le vostre ragazze? Io chiedo solo di essere lasciata in pace.

    - E cumò dulà vatu? (E ora dove vai?)

    - A casa - disse e con un salto dalla finestra aperta si allontanò verso la strada, fra il vociare indistinto che riempiva alle sue spalle le pareti del locale.

    In quel momento un ragazzo che era dentro e non aveva parlato venne fuori dall'altra parte correndole incontro.

    - Rachele!

    - Vi ho detto di lasciarmi in pace – gridò lei incespicando coi tacchi nei buchi sull'erba.

    Quello si fermò - ma dai, non far così. Con gli altri va bene, lo capisco. Ma noi ci conosciamo, con me puoi parlare.

    Lei smettendo di camminare, lo guardò a sua volta sollevando una mano sulla fronte.

    - Sì con te sì Gianni, si può. Ma perchè perdi tempo con me, non hai già Agata? vi ho visti qualche volta, è una bella e brava ragazza, state bene assieme.

    Lui sorrise - grazie. Sì in effetti sì, devo partire per Milano, volevo dirtelo. Sai la scuola di giornalismo. Forse là avrò più opportunità di farcela.

    - Bravo. Mi auguro il meglio per te. Viene anche Agata a Milano?

    - Sì, a meno che non voglia venire tu con me.

    - No Gianni io no, è meglio che resti qua. Però sono contenta che voi andiate, ti ci vedo a scrivere su un giornale, eri una buona penna già a scuola. E anche lei sicuramente in una città così grande troverà qualcosa di cui occuparsi.

    - E tu cosa pensi di fare?

    - Vedremo non lo so ancora. Ma c'è ancora tempo per decidere, no?

    Lui abbassò gli occhi – sì.

    Rachele scrollò le spalle inclinando il capo.

    - Lo so Gianni, anche tu mi mancherai.

    - Forse ci rivedremo di nuovo.

    - Forse - rispose lei indietreggiando di qualche passo - intanto auguri.

    - Ciao Rachele.

    La ragazza sollevò una mano e con un timido cenno del mento, voltandosi corse via.

    Entrando in casa vide sua madre in piedi di fianco al lavello intenta a sciacquare le verdure.

    - Ciao Mamma.

    Quella le fece cenno di avvicinarsi col gomito.

    - Rachele aiutami con le cipolle qua, che devo fare il minestrone ed è già tardi.

    - Va bene – rispose lei rimboccandosi le maniche, raccogliendo il tagliere dalla credenza.

    - Tutto bene per il resto?

    - Sì.

    - Al bar hai incontrato qualcuno?

    - Ah le solite persone - scosse le spalle - ma penso non ci andrò più, non mi va di vedere gente, sono sempre quelli e poi non so, non ho nulla da condividere con loro.

    - Forse potresti provare a legare con qualche ragazza, non hai amiche. Non capisco perchè, sei così chiusa. Va', parlaci ogni tanto.

    - Mamma le conosco tutte da una vita, sono stupide, che ci parlo a fare. Mi guardano anche male.

    - Perchè?

    - Ah beh, come io penso che loro sono cretine, loro penseranno di me che sono strana, ma va bene così.

    - E Gianni? Quello è un bravo ragazzo, gli piacevi.

    - Gianni si trasferisce a Milano con Agata, me l'ha detto prima.

    - Con Agata - ripetè la donna versando le carote nella pentola - ma era innamorato di te, che peccato, un bel e bravo ragazzo, avessi trovato uno così io da giovane. Quanto mi sarebbe piaciuto vi foste sposati.

    - Non sarebbe stato giusto per lui mamma, ha le sue ambizioni e fa bene ad assecondarle. Qua non sarebbe felice.

    - Oh sciocchezze. Ho visto ben come ti guarda, andrebbe a pulire le scale ridendo per te.

    - Ma io non voglio. Mi ha anche chiesto se volevo seguirlo a Milano, non so se fosse serio ma..

    - E perché tu non ci vai?

    - Primo perché ha già una fidanzata e io non voglio mettermi in mezzo, secondo perchè non sono sicura, ecco. Non mi va di decidere tutto sulla base di qualcosa di vago, di una simpatia. E se poi non funzionasse? No guarda, non c'è neanche da pensarci, sarebbe troppo egoista. Li vedi, stanno bene assieme. E se lui la lasciasse lei che farebbe? No, no, non si fa. E poi io lo sai, sono un tipo particolare. Comunque non sono innamorata di lui, non lo sono di nessuno, forse non sono neppure adatta a stare con un uomo e se così è starò da sola tutta la vita che importa. Ma non dovrai sopportarmi ancora a lungo se è quello che temi, prima o poi troverò anch'io la mia strada e me ne andrò.

    - Vedrai che arriverà quello giusto devi solo aspettare. Del resto sei così bella e giovane, come può essere che tu resti da sola.

    Lei sospirò asciugandosi gli occhi – chissà. Ecco, qua ho finito, hai bisogno ancora di qualcosa?

    - No grazie, vai, ti chiamo io quand'è pronto.

    - Va bene.

    Andò in camera sua a riposare. Entrando poggiò la borsetta sulla sedia di fianco alla porta, si tolse le scarpe, sbuffò e si stese sul letto.

    Subito due occhi azzurri si aprirono su di lei - dove sei stata?

    - Al bar.

    - Lo sai che non mi piace tu vada là da sola.

    Lei tirò a sé le gambe rannicchiandosi di spalle.

    - E infatti ho deciso che non ci andrò più.

    L'uomo rimase un attimo in silenzio carezzandole il capo con le dita. La ragazza voltandosi sollevò gli occhi sui suoi come da dietro due finestre aperte e sorrise. C'era sempre qualcosa di dolce in quel mare e un canto di uccelli e le ombre delle loro ali che ci passavano sopra.

    - Perchè? - le chiese.

    Inclinando il viso di lato, con una gamba piegata in basso, Rachele poggiò le mani su quelle di lui ferme sul suo petto e gliele baciò.

    - Perché voglio star da sola con te. Wilhelm.

    - Sì.

    - Mi sa che devo scrivere.

    - Vai.

    Alzandosi si avvicinò al tavolo di legno scuro su cui teneva i fogli. La finestra era aperta, s'era dimenticata di chiuderla uscendo ma aveva le tende tirate e non c'era vento, quindi nulla si era mosso, le carte erano ancora tutte lì dove le aveva lasciate.

    Le guardò un po’ poi ne prese una e sedendosi col calamaio e l'inchiostro davanti si mise al lavoro.

    Era uscita quel pomeriggio solo perché i suoi avevano insistito. Lei certo non ne avrebbe avuto alcun bisogno. Non si sentiva a suo agio cogli altri, era come se ne fosse sempre in qualche modo separata. Non condivideva i loro interessi, le loro risate, ciò di cui parlavano, tutto era come non la riguardasse. Forse avevano ragione loro a considerarla un poco strana, ma anche fosse stato, così era, non poteva certo cambiarsi. E poi non era proprio vero che non andava d'accordo con nessuno. C'era quel professore con la poliomelite che viveva nell'appartamento sopra di loro che aveva sempre apprezzato ciò che scriveva e con cui a volte s'era intrattenuta a parlare. Quella era una persona seria che aveva studiato, se anche lui provava piacere a passare del tempo con lei voleva dire che non era proprio una stupida. Poi era morto, così aveva perso anche quell'unica fonte di dialogo. Le restavano i suoi genitori, con cui però parlava a malapena e certo sì Gianni, anche lui l'apprezzava come diceva sua madre, ma da lì a poco se ne sarebbe andato e in ogni caso non è che avesse molto da dire neppure a lui.

    Girandosi un attimo, come riemergendo dai suoi pensieri scosse la testa e tornò a guardare il foglio in basso corrugando la fronte. Sapeva di non dover fare spesso quel gesto, anche sua madre glielo diceva sempre di smetterla chè poi le sarebbero venute le rughe. La Linea Gotica la chiamava lei, ma che poteva farci, le veniva naturale e ricordando quell'espressione si mise quasi a ridere.

    Poi c'era lui, Wilhelm, che stava sempre lì con lei da anni e aveva un volto e degli occhi e ogni cosa in sé che pareva mischiarsi alle sue carte e all'inchiostro senza consumarsi mai come un mistero inesauribile e per lei era quasi come un marito. Beh marito, le venne da pensare correggendosi, ora non esageriamo, rise e girandosi a guardarlo le parve quasi che lui la fissasse con rimprovero, come le avesse letto nella mente.

    C'era in quella figura qualcosa che non sapeva, come un ideale che se qualcuno nella realtà a parte lui avesse rispecchiato l'avrebbe fatta innamorare di certo ed era così dolce, sensibile, perfetto che se fosse esistito davvero, gli avrebbe dato tutto di sé, ogni respiro, ogni cosa.

    Anche il suo volto, il suo corpo, le sarebbe bastato trovare qualcuno di simile a lui, ma più che simile, lui, che era ciò che voleva. Perciò non poteva impegnarsi, chè se un giorno l'avesse visto passare così come se lo era immaginata, sarebbe morta al pensiero di essersi sbagliata e non averlo atteso.

    Perché lei lo sapeva, c'era, esisteva da qualche parte. Lo vedeva chiaramente. Ne era sicura. L'unico limite appunto è che non lo poteva trovare. Non sapeva disegnare e di certo non avrebbe potuto fargli una foto da appendere sui muri di tutta Italia col numero di telefono sotto. Che poi anche fosse stato possibile, che gesto sarebbe mai stato quello, una donna che si mette in cerca di un uomo, che assurdità.

    Eh....sospirò unendo le mani davanti al volto con i gomiti poggiati sullo scrittoio che era già quasi il tramonto.

    Sentendo un peso alle spalle e alla schiena mollò tutto e si alzò.

    - Ho scritto abbastanza per oggi. Eppoi sta scurendo, forse è meglio che vada di là - pensò stiracchiandosi e se ne andò a dare una mano a sua madre che stava finendo di preparare la cena.

    Dopo mangiato, tornata nella stanza si stese a letto con le finestre aperte, il vento tiepido e odoroso della sera che sollevava di poco le tende alle sue spalle e lui davanti che le teneva la mano.

    Restò un po' così a pensare finché chiuse gli occhi e con la notte scese anche il sonno.

    Alla fine il tempo passò e con le stagioni se ne andarono anche gli anni.

    Gianni era tornato con Agata al paese per sposarsi e lei guardandoli dalla finestra si disse che aveva fatto bene a non intromettersi, erano così felici assieme, di certo anche lui col tempo se n'era reso conto.

    Lei invece. Beh lei era ancora lì, con qualche capello bianco che sbucava fra i ciuffi scuri ma aveva anche venticinque anni. Sua madre era grigia già a trenta, forse sarebbe stato lo stesso anche per lei, ma chissà, allora avrebbe pensato a tingersi oppure si sarebbe tenuta così, tanto a Wilhelm piaceva lo stesso.

    Nel frattempo aveva scritto qualche libro e per il resto aiutava i suoi in casa dando ripetizioni di latino, storia e italiano, in fondo almeno il liceo classico l'aveva completato, doveva pur valere qualcosa.

    I suoi continuavano a dirle di uscire, di mostrarsi, conoscere gente ché non era possibile che una ragazza così stesse sempre chiusa in casa come fosse in clausura. Doveva darsi da fare a trovare marito sennò nessuno si sarebbe preso cura di lei.

    Ma lei pensava, non posso far da me? E poi chi l'ha detto che io debba vivere tanto a lungo. Le scrittrici che conosceva erano tutte morte giovani e poi chi avrebbe mai accettato Wilhelm o semplicemente una moglie come lei che ai figli non ci pensava e passava le giornate a scrivere e a dare una mano con le faccende di casa.

    Nessuno degli uomini che conosceva e che vedeva passare dalla finestra l'avrebbe mai accettata per quello che era. E poi si diceva, i suoi prima o poi si sarebbero rassegnati. Mano a mano lì intorno si sposavano tutti e presto non ci sarebbe rimasto più nessuno tranne gli scarti e certo, quelli neppure i suoi glieli avrebbero mai proposti.

    Che poi mica era l'unica zitella. C'era Gina nella casa di là, dall'altra parte della piazza e poi Lina, ah no, quella era vedova, ma lo era rimasta da giovane, suo marito era morto al fronte molti anni prima, durante la campagna di Russia se non ricordava male e non era più ritornato. Non le aveva lasciato figli e lei non s'era più rifatta una vita. C'era poi una così grande differenza tra di loro?

    Ma soprattutto, che doveva fare. Sposarsi perché un estraneo si sostituisse ai suoi a dirle che era matta e magari che aveva un debito con lui perché portava i soldi a casa e perciò doveva sentirsi in colpa e agire sempre e comunque come l’altro voleva rinunciando a sé stessa?

    Ma va'. Poi che chiedeva, solo di starsene lì tranquilla nella sua stanza a scrivere.

    No, no. Il matrimonio non faceva per lei. Almeno non quello di ripiego. E se l'avesse fatto, se avesse dato retta ai suoi e lui fosse davvero arrivato?

    No, no, quello sarebbe stato peggio che morire, ne era certa. Allora non restava che rimanere così, con quel fantasma seduto alle sue spalle che le appariva così bello e reale da non credere.

    Qualche volta sentendo di là i suoi gridare si irrigidiva un poco come fosse in imbarazzo e gli occhi gli tremavano ma poi tornava il sereno e il silenzio, allora poggiava una mano sulla sua e le sorrideva.

    - Anche tu sei bella – le diceva e lei abbassando il capo rabbrividiva sentendo un calore accendersi nel suo petto come fosse stato di fiamma.

    C'era un gruppetto che conosceva dai tempi in cui ancora frequentava il bar che viveva in un paese vicino e si fermava spesso fuori dal cancello di casa con la scusa di parlare. Se ne accorgeva ogni volta che si affacciava alla finestra e li vedeva guardar sù. Perciò cercava di andare al balcone il meno possibile e quando capitava, notandoli si ritraeva subito dicendo - oddio.

    Wilhelm dietro le sorrideva – dai fanno così, non sono cattivi ragazzi. Anch'io farei lo stesso fossi in loro.

    - Con me?

    Lui abbassava gli occhi, arrossendo su quel volto pallido che pareva gli mancasse il fiato e non rispondeva.

    - E sentiamo – gli aveva detto lei una volta muovendosi piano nella sua direzione – cosa dovrei fare io, scendere da basso?

    Lui l'aveva guardata di sbieco con le mani unite in grembo come non sapendo che dire.

    Allora Rachele gli si era fermata davanti con le fiamme scure e accese degli occhi puntati contro, il rosso intorno che pareva sbucare da dietro, come ci fosse stato uno in piedi a coprire con la sua sagoma un fuoco.

    - Wilhelm, rispondimi – aveva insistito sbottonandosi con calma la camicia.

    Lui non l'aveva mai sfiorata con quell'intento, come non osasse neppure da fantasma mancarle di rispetto. Anche in quel caso, davanti ai seni che affioravano dalla camicia aperta e la pelle bianca del collo sotto i capelli raccolti della ragazza, non s'era mosso e l’aveva guardata con occhi lucidi e tremanti, che pareva un velo di brina fosse sceso sull'azzurro del catino stretto fra le palpebre e la cera avesse preso il posto della carne sul volto.

    Piano aveva sollevato una mano sul petto ma senza arrivare a toccarlo.

    Lei non aspettando oltre era salita con le ginocchia ai bordi del letto e l'aveva spinto giù sulle coperte.

    – Wilhelm io voglio che tu mi prenda, voglio essere tua - e s'era tolta la camicia. Lui le aveva poggiato le punte delle dita sulle guance e in quel momento qualcuno aveva bussato alla porta.

    - Rachele muoviti che è pronta la cena.

    Lei si era tirata su. - Sì mamma arrivo – aveva gridato e tutta arrossata si era rivestita in fretta ed era uscita.

    Quella sera mettendosi a letto, l'aveva sentito stendersi alle sue spalle di fianco e come fosse stata l'aria che veniva dalla finestra aveva preso a carezzarla sotto la gonna e a baciarle il viso e il collo.

    Lei guardando fisso davanti a sé con le braccia stese di fianco aveva sospirato - fosse vero - e abbassando le ciglia s'era tolta di nuovo la camicia prima di girarsi sulla schiena aprendo di poco le gambe.

    - Wilhelm sono tua – aveva sussurrato col volto inclinato in parte e le braccia aperte ai lati e in quel momento le era parso ci fosse del sangue all'angolo della sua bocca e le campane suonassero fuori come fosse stato di nuovo giorno.

    Poi non sentendo più nulla, rinvenendo aveva aperto gli occhi e guardando in giro non aveva più visto nessuno.

    - Wilhelm.

    - Sono qua – le aveva detto lui di fianco – ora dormi.

    Lei annuendo aveva abbassato le palpebre e s'era abbandonata di nuovo al sonno.

    Un giorno andando alla finestra per prendere della roba

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