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Storie in poltrona
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E-book100 pagine1 ora

Storie in poltrona

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Una raccolta di racconti compresa in un arco temporale di cinquant’anni tra spunti autobiografici e di pura fantasia che nasce prevalentemente durante i numerosi viaggi aerei dell’autore. Storie apparentemente autonome e slegate tra di loro ma che nella testa e nel cuore dell’autore percorrono un filo comune con due temi di fondo che hanno animato ed arricchito fin qui la vita dell’autore stesso: L’amicizia e la solidarietà verso il prossimo. Fanno da cornice alle storie, con diverse sfumature, l’amata terra natia di Sicilia, Milano come città eletta e tra le righe la donna amata da sempre, citata volutamente con nomi diversi, con cui condivide ancora oggi cinquant’anni di cammino.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2021
ISBN9791220803663
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    Anteprima del libro

    Storie in poltrona - Francesco Rubino

    gdsbookstore.it

    UN ANNO DA DIMENTICARE

    Siamo così arrivati al sessantesimo giorno che restiamo chiusi in casa in balia tra vita e morte, aspettando che questo flagello che ha colpito il mondo intero allenti la presa su tutta l’umanità. Noi tutti fermi mentre la natura incurante delle vicende umane prosegue il suo cammino e maggio con la fioritura delle rose ci annuncia che l’estate duemila venti bussa alle porte. Questo mostro subdolo, invisibile che gli scienziati hanno battezzato con lo stupido nome di Covid 19 con un silenzio minaccioso si è impadronito all’improvviso delle nostre vite. In pochi giorni ha seminato migliaia e migliaia di morti e ci ha sbattuto in faccia senza alcun ritegno lo spettro della malattia, della morte, delle nostre fragilità e contemporaneamente ci mostra qual è il bene più prezioso di cui disponiamo e come dobbiamo difenderlo. Unica alternativa rimasta per cercare di non incontrarlo sulla nostra strada è stata solo quella di chiuderci in casa lontani da qualunque affetto, conoscenza, amicizia e con la prospettiva di tanta solitudine e di giornate interminabili da affrontare. Il silenzio della città a cui non eravamo abituati diventa dentro di noi un rumore assordante che continuamente suscita paura come tutte le cose sconosciute, finte e innaturali. Vorresti così riempiere di auto, di gente, di negozi aperti quelle strade vuote delle quali ora scorgi la fine lontana che prima non riuscivi mai a vedere. Sono una novità assoluta le voci dei vicini di palazzo che ascolti distintamente mentre prima si dissolvevano in quel rumore che sapeva di vita. Tutto ti sembra finto così come questa pseudo vita di cui non avevi mai avuto contezza. E così ti ritrovi dietro i vetri dopo infiniti andirivieni da una stanza all’altra a pensare al nulla, a quel vuoto che ti circonda, a tracciare inevitabilmente i bilanci della tua esistenza prima che questo mostro maledetto stravolgesse l’esistenza di tutti. L’unica certezza assoluta della rotta che stai percorrendo è che il tempo di fronte a te è di certo molto meno di quello che hai nascosto alle tue spalle, per cui diventa ancor più importante spenderlo con oculatezza, non perderne neanche uno spicciolo, viverlo con maggiore intensità di quello già vissuto, anche perché la prospettiva della fine non restringe mai alcuna esistenza. I miei settanta anni non sono certo pochi ma oggi che la scienza è riuscita ad allungare la vita media oltre gli ottanta ho la speranza che mi resti ancora un altro bel pezzo da percorrere, godere ancora degli affetti e delle bellezze che mi circondano da cui non vorrei mai separarmi. Il pensiero della morte e del distacco in noi anziani diventa ricorrente, quasi giornaliero, ma non sempre è spaventoso come forse erroneamente pensa la maggior parte delle persone. Molto dipende dalla sensibilità di ognuno di noi verso l’argomento o anche dallo stato d’animo del momento ma in fondo ci si abitua, ci si convive come quando accanto a te sull’aereo o sul tram c’è una persona non tanto bella, antipatica e con l’alito pesante, insomma che non ti piace, ma che non puoi certo cacciare via. Ai nostri giorni tutti abbiamo la convinzione di essere molto più giovani della nostra età anagrafica anche grazie al marketing delle multinazionali e ai media che hanno inculcato nella psiche collettiva l’utopia dell’eterna giovinezza. Il mondo produttivo non esita a far soldi con le nostre insicurezze. Aiutato dalla pubblicità fa nascere dei miti subdoli che alterano la visione del mondo e fanno sì che si materializzi l’illusione che tutto sia rinviabile nel tempo comprese la malattia e la morte. Tutto deve essere bello, giovane, scattante, competitivo   e con i vecchi sempre più soli ed emarginati. Penso che la nostra generazione abbia contribuito molto a creare questo mostro che aleggia tra di noi e che riempie anche le facoltà di medicina di tanti aspiranti chirurghi estetici. Le rughe un tempo sinonimo di saggezza, di esperienza, così come l’imbiancare dei capelli oggi sono vissuti come un dramma, non come l’evolversi naturale della vita. L’aggiornamento degli armadi fatto con veloce frenesia per noi maschietti si concretizza in jeans attillatissimi a tubino e giacche ridottissime di qualche taglia in meno. Per le femminucce fa sì che tre, se non quattro generazioni vestano tutte allo stesso modo: fuseaux fascianti, maglie lunghe a parziale copertura del lato B, t-shirt che lasciando scoperta una spalla mettono in mostra improbabili tatuaggi. Preferisco stendere un velo pietoso su certi volti di donna, ma anche di uomini, con zigomi a pompon e labbra canotto, che nella mia mente di altri tempi evocano le maschere sarde dei Mamuthones del carnevale di Mamoiada. Una vera violenza perpetrata alla bellezza naturale dei corpi e alle leggi del tempo, che accrescerà sempre più nei giovani l’idea che il -fuori- conti sempre più del -dentro- al pari delle arance lucidate o delle carni di certi supermercati fatte diventare chimicamente più rosse e più belle, incuranti poi del loro sapore e della salubrità. Riflettendo bene sui pensieri che mi stanno   accompagnando in questa parte di vita sotto la dittatura del Coronavirus noto che sono diventato alquanto severo con i miei coetanei, quindi indirettamente anche con me stesso. L’acredine di certi giudizi, l’ipercriticismo tipico degli anziani dimostra chiaramente che sto invecchiando ma soprattutto mi rendo conto di vivere in una grande delusione compresa quella di non essere riuscito con la mia generazione a realizzare, nonostante il- Sessantotto-, il tavolo da gioco della vita senza nessun baro seduto allo stesso tavolo.  Capisco così che è l’amara ammissione di una parziale sconfitta. Questa non vita ti lascia molto spazio per pensare e quando il tuo smartphone che è rimasto uno dei pochi mezzi di contatto con il mondo comincia a squillare il cuore sobbalza, sale in gola per paura di qualche brutta notizia o al pensare alla gioia che ti darà nel sentire quella voce che aspetti di sentire. Poi arriva un giorno e un’amica ti avvisa: - Pippone ci ha lasciati per sempre e da Bergamo non tornerà mai più- Già da Bergamo! Quella bellissima città che lui ha tanto amato non solo perché gli aveva dato la possibilità di realizzarsi professionalmente ma soprattutto perché gli aveva dato in dono la Carla, così ormai la citava dopo essersi "settentrionalizzato", con gli occhi che gli brillavano ogni qualvolta pronunciasse il nome dell’unico grande amore della sua vita. Resto senza parole e inizio così a pensare intensamente a lui, al come, al quando e al luogo dove ci eravamo conosciuti. Tutto quanto fatto insieme sorridendo allegramente e anche agli inevitabili litigi che accompagnano sempre qualunque rapporto affettivo. I rimorsi per quanto fatto o non fatto nei suoi confronti, le occasioni mancate, le parole che avrei voluto dirgli e non ho detto per superficialità, leggerezza o mancanza di tempo. Il cuore allora cerca giustificazioni che non trova e cerco di illudere me stesso pensando che mi abbiano comunicato una falsa notizia. Vorrei riparlare con lui, abbracciarlo, baciarlo. Ma la ragione mi riporta velocemente alla realtà e so che non ne avrò più la possibilità. Mi angoscia ancora di più pensare che sia morto da solo in un anonimo letto di un anonimo reparto di rianimazione, senza un parente, un amico, un’amica, un affetto che gli regalasse una ultima carezza o una mano pietosa che stringesse la sua in segno di conforto ma anche di cristiana ultima benedizione. Continuo a dannarmi pensando che proprio lui, tra tutta quanta l’umanità, non meritasse di certo quest’ ultima triste sorte infame, soprattutto lui che a differenza di tant’altre, era una anima buona, generosa, caritatevole. Ma in fondo so che tutte queste qualità che gli attribuisco forse non siano esattamente tutte vere ma le penso solo perché era soprattutto il mio amico del cuore e agli amici che sono parte intrinseca di quel sentimento chiamato amore gli si perdona sempre tutto volentieri. Con la mente vado indietro nel tempo per acclarare queste sue virtù e arrivo fino al momento in cui

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