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Come uccidere la tua famiglia
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E-book425 pagine14 ore

Come uccidere la tua famiglia

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Info su questo ebook

DICONO CHE NON PUOI SCEGLIERE LA TUA FAMIGLIA. MA PUOI SEMPRE UCCIDERLA.

“Una delle migliori antieroine mai create.” Observer

“Esilarante e dark.”Elle

“Un romanzo sulle famiglie disfunzionali e l’ossessione mediatica per i casi di cronaca nera. Si legge d’un fiato, e si ride.”Sunday Times

“Una satira intelligente e divertentissima.” Grazia

Mi chiamo Grace Bernard e, con ogni probabilità, il mio nome non vi dice proprio niente. Nessuno mi conosce perché languisco dietro le sbarre per l’unico crimine che non ho commesso. Eppure, se devo dire la verità nient’altro che la verità, ho ucciso diverse persone, alcune in modo brutale, altre con maggior delicatezza – vale la pena specificarlo, perché fa un’enorme differenza agli occhi giudicanti della gente. Quando ripenso a ciò che ho fatto, avverto persino una punta di tristezza, giusto una fitta trascurabile, al pensiero che nessuno verrà mai a conoscenza del mio strabiliante piano. Un piano che ho architettato per anni, sacrificando tutto in nome della vendetta. Ora vi chiederete: perché ostinarsi a vuotare il sacco se la si può passare liscia? Avete ragione, la libertà non ha prezzo. Però non riesco a smettere di immaginare l’istante in cui, dopo la mia morte, qualcuno aprirà una cassaforte e troverà la mia confessione. Esatto, proprio questa che sto scrivendo nei pochi giorni che mi separano dalla libertà. Scommetto che quel qualcuno non potrà fare a meno di restare a bocca aperta e pensare a me con ammirazione. Perché chi sarà mai in grado di capire come una persona, a soli ventotto anni, possa aver ucciso a sangue freddo sei membri della sua famiglia per poi andare avanti come se niente fosse, senza neppure l’ombra di un rimpianto?

Tagliente, onesto, graffiante, divertentissimo. Come uccidere la tua famiglia è tutto quello che non ti aspetti: una potente commedia nera, una satira bruciante sulle famiglie disfunzionali e sui privilegi di classe, nonché una critica feroce all’ossessione dei media per l’universo del crimine e alle falle di un sistema che non ammette deviazioni dalla norma. Bella Mackie ha scritto un fenomeno editoriale senza precedenti: da più di un anno in vetta alle classifiche inglesi e venduto in tutto il mondo, è adorato all’unanimità da lettori, librai e critica.

LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2023
ISBN9788830592025
Come uccidere la tua famiglia
Autore

Bella Mackie

ha scritto per the Guardian, Vogue and Vice. Vive a Londra. Come uccidere la tua famiglia è il suo primo romanzo.

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    Anteprima del libro

    Come uccidere la tua famiglia - Bella Mackie

    PROLOGO

    La prigione di Limehouse, come potete immaginare, è orrenda. Se invece non riuscite a immaginarlo (probabile), dovete sapere che qui non ci sono videogiochi né tv a schermo piatto, nonostante i giornali sostengano il contrario. Non si respira un’aria di amichevole condivisione, non c’è nessuna alleanza fra sorelle: in genere l’atmosfera è tesa, caotica, e le risse sono sempre dietro l’angolo. Da quando ho messo piede qui dentro cerco di non dare nell’occhio. Fra i pasti, che con una buona dose di ottimismo potrei definire occasionalmente digeribili, esco il meno possibile dalla cella e tento di evitare la mia coinquilina (adora farsi chiamare così, per quanto mi dia sui nervi).

    A Kelly piace chiacchierare. Il giorno in cui sono arrivata, quattordici lunghissimi mesi fa, si è seduta sulla mia brandina, mi ha conficcato le unghie acuminate nel ginocchio e mi ha detto che sapeva cosa avevo fatto e lo trovava fantastico. Quel complimento è stato una piacevole sorpresa, dato che mi aspettavo di essere travolta da un’ondata di violenza non appena avessi varcato il cancello minaccioso di questo posto ignobile. Ah, l’innocenza di chi si è fatto un’idea della prigione guardando serie tv scadenti! Dopo quella presentazione, Kelly ha stabilito che ero la sua nuova migliore amica e, peggio ancora, un trofeo da esibire. A colazione mi raggiungeva di corsa, mi prendeva sottobraccio e mi bisbigliava all’orecchio come se fossimo impegnate in una conversazione fra amiche. L’ho sentita raccontare alle altre detenute, la voce ridotta a un sussurro, che le avevo confessato i miei crimini nei minimi dettagli. Dalle ragazze vuole deferenza e rispetto, e chi meglio dell’assassina di Caro Morton può farglieli ottenere? Credetemi, ho i nervi a pezzi.

    Ho scritto che Kelly dice di sapere tutto del crimine che ho commesso, ma forse la scelta di parole svilisce un po’ quello che ho fatto. Alle mie orecchie il termine crimine suona scialbo, poco elegante e banale. I taccheggiatori commettono crimini. Chi sfiora i sessanta chilometri all’ora in una zona dove il limite di velocità è trenta per bere un ultimo caffè al volo prima di iniziare l’ennesima, noiosa giornata in ufficio commette un crimine. Io ho fatto qualcosa di molto più ambizioso: ho escogitato e poi messo in atto un piano complesso e accurato nato da motivazioni sorte ben prima delle spiacevoli circostanze legate alla mia nascita. E, visto che in questa gabbia deprimente e poco stimolante non ho un granché da fare (una psicologa imprudente mi ha proposto un corso di spoken word, e con mia grande gioia è bastato uno sguardo per farle capire che non era proprio il caso, né allora né mai), ho deciso di raccontare la mia storia. Non ho il portatile su cui scrivo di solito, quindi non sarà un compito facile. Quando un po’ di tempo fa il mio avvocato mi ha mostrato una flebile luce in fondo al tunnel, ho pensato di dare un senso al mio soggiorno in carcere e di mettere nero su bianco alcune delle cose che ho fatto. Una visita allo spaccio, e mi sono ritrovata in mano un bloc-notes sottile e una biro rovinata (e 5 sterline in meno rispetto alle 15,50 di cui dispongo ogni settimana). Dimenticate gli articoli spensierati che consigliano di risparmiare rinunciando al caffè da asporto: se volete mettere da parte dei soldi, concedetevi un soggiorno a Limehouse. Scrivere potrebbe rivelarsi inutile, ma in qualche modo devo contrastare la noia paralizzante di questo posto, e spero che Kelly e il suo sterminato gruppo di signorine, come si ostina a chiamarle, la pianteranno di chiedermi se mi va di guardare un reality nella sala tv mentre sono concentrata. «Scusami, Kelly» dirò, «ma ora non posso, sto scrivendo degli appunti importanti per l’appello. Parliamo più tardi.» Sono sicura che la sola idea che possa raccontarle qualcosa di succoso le farà strizzare l’occhio, ammiccante come il personaggio di un vecchio film, e la convincerà a lasciarmi in pace.

    Naturalmente la mia storia non è per lei. Dubito che riuscirebbe a capire cosa mi ha spinto ad agire come ho fatto. La mia storia è soltanto mia, appunto, ma se venisse pubblicata la gente impazzirebbe. Anche se non accadrà mai, mi consola sapere che avrebbe successo. Sarebbe un bestseller e tutti correrebbero in libreria sperando di scoprire qualcosa di più sull’attraente e tragica giovane donna che è stata capace di compiere un gesto tanto efferato. I tabloid parlano di me da mesi eppure i lettori non si sono ancora stancati degli psicologi da due soldi che provano ad analizzarmi a distanza, né dell’occasionale provocatore che mi difende per fare scalpore su Twitter. Le mie gesta esercitano un tale fascino che la gente si è sorbita persino il documentario raffazzonato di Channel 5 in cui compariva anche un astrologo grasso secondo cui il mio tema natale aveva previsto il futuro che mi sarebbe toccato in sorte. Peccato che abbia sbagliato la data di nascita.

    Insomma, so che penderebbero tutti dalle mie labbra. Il mio caso è diventato famoso senza che dessi spiegazioni particolari. E, per ironia della sorte, senza che nessuno sappia cos’ho fatto davvero. Il sistema giudiziario di questo paese è ridicolo, e quello che sto per dire ne è la prova schiacciante: ho ucciso diverse persone (alcune in modo brutale, altre con maggior delicatezza), ma mi trovo in prigione per un omicidio che non ho commesso.

    Se venissero scoperti, i crimini che ho orchestrato mi assicurerebbero la fama per decenni, forse addirittura secoli… sempre che il genere umano riesca a sopravvivere tanto a lungo. Il dottor Crippen, Fred West, Ted Bundy, Lizzie Borden e infine io, Grace Bernard. Devo dire che un po’ mi dispiace. Non sono una dilettante né un’idiota. Fuori di qui, attiravo gli sguardi ammirati dei passanti per strada. E forse è per questo che Kelly mi sta addosso, anziché pestarmi senza pietà come mi aspettavo. Persino qui dentro conservo una certa eleganza, e una freddezza che quelle più deboli di me desiderano disperatamente incrinare. Mi dicono che, malgrado ciò che ho fatto, ricevo un sacco di lettere traboccanti d’amore e stima, o che mi chiedono dove ho comprato il vestito che avevo il primo giorno del processo (è di Roksanda, per la cronaca. Purtroppo l’orribile moglie del primo ministro ha indossato un capo molto simile appena un mese dopo). Ma ci sono anche parecchi messaggi pieni d’odio. E poi lettere assurde di folli convinti che io comunichi con loro telepaticamente. A quanto pare la gente vuole conoscermi sul serio, ci tiene a fare colpo su di me, a imitarmi, se non nei gesti almeno nel guardaroba. Non ha importanza, comunque, perché non le leggo nemmeno, quelle lettere: il mio avvocato le raccoglie e le porta via. Non mi interessa cosa rappresento agli occhi di sconosciuti così frustrati da scrivermi.

    Forse sono troppo magnanima con queste persone e mi illudo che provino emozioni complesse quando la realtà è ben diversa. È possibile che l’interesse prolungato e frenetico suscitato dal mio caso si spieghi con il rasoio di Occam, secondo cui la risposta più semplice è di solito quella giusta. In tal caso il mio nome mi sopravvivrà a lungo, e per il motivo più prosaico del mondo: l’idea di un triangolo amoroso è incredibilmente appassionante e scabrosa. Quando però rifletto su ciò che ho fatto davvero, mi rendo conto che nessuno conoscerà mai l’intricata pianificazione che ha richiesto. Farla franca è ovviamente la prospettiva più allettante, ma magari un giorno, molto tempo dopo la mia morte, qualcuno aprirà una vecchia cassaforte e troverà questa confessione. Resterebbero tutti a bocca aperta. In fondo, quasi nessuno è in grado di capire come una persona di appena ventotto anni possa uccidere senza battere ciglio sei membri della sua famiglia. E poi continuare a vivere come se niente fosse, senza neppure l’ombra di un rimpianto.

    1

    Scendo dall’aereo e vengo accolta da una folata della magnifica aria calda che fa sospirare gli inglesi non appena atterrano in una qualsiasi località mite e si ricordano che quasi tutto il resto del mondo gode di un clima che non conosce solo freddo e grigiore. Attraverso sempre in fretta gli aeroporti, ma oggi più del solito, perché voglio evitare a tutti i costi il tizio che ho avuto la sfortuna di avere accanto durante il volo. Amir si è presentato nell’istante in cui ho finito di allacciarmi la cintura. Sui trentacinque anni, con una camicia tesa all’inverosimile sui pettorali così gonfi da sembrare finti, inspiegabilmente abbinata a pantaloni della tuta di acetato lucido. L’elemento peggiore dell’outfit, la ciliegina su quella torta disastrosa, erano le ciabatte da piscina. Di Gucci, con calzini coordinati. Dio santo. Avrei voluto chiedere di cambiare posto, ma dell’hostess non c’era traccia e al decollo sono rimasta bloccata tra quel belloccio palestrato e il finestrino.

    Amir era diretto a Puerto Banús, come me, anche se non gliel’avrei mai confessato. Per la precisione di anni ne aveva trentotto, si occupava di locali notturni e adorava ripetere che gli piaceva strafare. Ho chiuso gli occhi mentre mi annoiava parlando della vita a Marbella e mi spiegava quanto fosse difficile farsi spedire le sue auto preferite per l’estate. Il mio vicino non si è arreso, ha ignorato tutti i chiari segnali che gli stavo mandando, e alla fine ho ceduto. Gli ho detto che stavo andando a trovare la mia migliore amica. No, non a Puerto Banús, abitava più verso l’interno, e probabilmente non ci saremmo avventurate in città per scoprire le delizie offerte da un locale chiamato Glitter.

    «Vi serve una macchina?» mi ha chiesto quella montagna d’uomo. «Potrei farvi avere un bolide niente male, basta una parola e vi trovo una bella Mercedes per le vacanze.» Ho rifiutato con tutta l’educazione di cui sono capace, prima di annunciare decisa che dovevo lavorare un po’ prima di atterrare.

    Appena iniziata la discesa, Amir non si è lasciato sfuggire l’occasione di ricordarmi che dovevo chiudere il portatile. E così mi sono trovata di nuovo invischiata nella conversazione, attenta a non rivelare accidentalmente il mio nome e a non rivelargli nessuna informazione riservata. Quelle attenzioni mi irritavano da morire: avevo scelto apposta dei pantaloni neri e una camicetta semplice, e avevo evitato di truccarmi per non dare nell’occhio. Niente gioielli, niente tocchi personali, niente che potesse restare impresso nei ricordi di un passeggero, casomai fosse stato interrogato. E non sarebbe successo; d’altronde ero solo una ragazza come tante che quell’estate andava in vacanza a Marbella. Amir mi avrebbe conosciuta soltanto come compagna di viaggio, ed era già troppo.

    Adesso mi infilo in mezzo alla gente, rivolgo sorrisi a tutti mentre spingo per arrivare in testa alla fila del controllo passaporti e puntare dritto al ritiro bagagli. Mi nascondo dietro una colonna e tiro fuori il telefono mentre la sala si riempie. Pochi minuti ed ecco la valigia, la prendo al volo, giro sui tacchi e cammino decisa verso l’uscita. Poi mi viene in mente una cosa e mi fermo di colpo.

    Quando Amir esce, mi trova appoggiata alle transenne dell’aeroporto.

    Si illumina tutto, tira in dentro la pancia e gonfia i pettorali. «Ti stavo proprio cercando!» esclama gesticolando, e noto che porta un massiccio orologio d’oro.

    «Sì, scusami, devo scappare a pranzo con la mia amica, ma non potevo andarmene senza salutarti» rispondo.

    «Allora organizziamo una serata, dammi il tuo numero e ci becchiamo.»

    Nemmeno per idea, però devo tenerlo buono per ottenere quello che mi serve. «L’ho appena cambiato, Amir, e non lo so ancora a memoria. Dammi il tuo e mi faccio viva io, che ne dici?» Sorrido e gli sfioro il braccio. Salvo il numero, rifiuto il passaggio che mi offre e lo saluto con la mano. Poi aggiungo, mentre si allontana: «Amir, la proposta di un’auto è ancora valida?».

    Meno di due ore più tardi, dopo un tragitto tutto sommato indolore dall’aeroporto sull’auto a noleggio, arrivo alla casa che ho preso in affitto. L’ho trovata su Airbnb e ho chiesto alla proprietaria di pagare in contanti in modo che il mio nome non fosse associato al pagamento; quando le ho offerto il doppio della tariffa, non si è opposta a una prenotazione privata. Costa un patrimonio, anche perché siamo in alta stagione, ma ho preso solo questa settimana di ferie e non vedo l’ora di procedere con il piano; quindi, risolvo i problemi con i soldi. L’appartamento è piccolo e soffocante, l’arredo ricorda molto una clinica estetica degli anni Ottanta con l’aggiunta di bambole di porcellana. Vorrei solo vedere il mare e sgranchirmi le gambe, però ho poco tempo e del lavoro da sbrigare.

    Mi sono documentata, per quanto possibile nel caso di due vecchi bigotti che su internet praticamente non esistono, e ho un’idea abbastanza precisa di dove saranno stasera. Da quello che ho potuto scoprire dalla pagina Facebook di Kathleen (che tenera, ha un profilo pubblico! Per fortuna esistono gli anziani e la loro totale ignoranza delle impostazioni sulla privacy), gli attempati signori Artemis trascorrono le giornate lamentandosi della quantità di spagnoli che vivono in Spagna e dividendosi fra il ristorante Villa Bianca, affacciato sulla spiaggia, e il casinò Dinero, appena fuori città. Ho prenotato un tavolo al ristorante per cena.

    Voglio essere molto chiara: non ho la minima idea di cosa sto facendo. Ho ventiquattro anni, è da parecchio tempo che rifletto sul modo migliore per vendicare mia madre e questo è il passo più importante che abbia compiuto finora. Per il resto ho provato a costruirmi una carriera, a risparmiare, a informarmi su questa famiglia e a trovarmi in una posizione che mi permettesse di avvicinarla. È stato utile ma noioso. Ovviamente sono più che disposta a fare qualche sacrificio per raggiungere l’obiettivo finale, però non sapete quant’è difficile fingermi interessata ai sondaggi sulla soddisfazione dei clienti e partecipare agli aperitivi facoltativi (leggi: obbligatori) del venerdì sera per fraternizzare con i colleghi. Se avessi saputo che avrei dovuto bere shot di Jägermeister e Red Bull con gente che è felice di lavorare nel marketing, mi sarei documentata più a fondo sui benefici della lobotomia. Forse è per questo che ho anticipato il grande passo, per dimostrare a me stessa che ci sono stati dei progressi e che sono in grado di fare ciò che progetto da quando ho tredici anni. Eppure sono terribilmente impreparata. Credevo che sarei arrivata a Marbella con un piano ben definito, un itinerario e una tabella di marcia preparati con cura, che avrei investito in un travestimento inattaccabile. E invece eccomi rintanata in una casa che puzza di candeggina: immaginate che il criceto di famiglia sia morto sotto un armadio, che vostra madre non sia riuscita a trovarlo e, impazzita per l’odore, abbia disinfettato tutto. Per mesi.

    Sì, ho in mente un piano, ma non so se riuscirò a portarlo a termine. Ho comprato una parrucca in un negozio a Finsbury Park: sotto le luci al neon sembrava abbastanza convincente, però temo possa rivelarsi infiammabile sotto il sole della Spagna. Nonostante l’ansia generalizzata per la scarsa organizzazione, sono su di giri. Mentre mi trucco e sistemo la parrucca, ho l’impressione di prepararmi per un appuntamento grandioso, e non per l’omicidio dei miei nonni.

    Okay, è stata un’uscita un po’ eccessiva. Non li ucciderò stasera, sarebbe una mossa stupida. Prima devo osservarli, ascoltare le loro conversazioni, cogliere eventuali indizi sui loro progetti per la settimana. Devo percorrere più volte la strada che porta alla loro villa e, soprattutto, recuperare l’auto che Amir mi ha promesso. La macchina è il segno che mi dice di rimandare tutto perché il piano è incredibilmente sconclusionato, oppure un piccolo dono da parte di una divinità ignota? Non vedo l’ora di scoprirlo!

    Ho deciso molto tempo fa che Kathleen e Jeremy Artemis sarebbero stati i primi a lasciarci, per varie ragioni. Innanzitutto perché sono vecchi, perciò non ha molta importanza se scompaiono dalla faccia della terra: per quanto mi riguarda, gli anziani che non fanno altro che prosciugare la pensione e rimbambirsi sulla loro poltrona preferita non sono una grande pubblicità per il genere umano. È fantastico che la scienza abbia capito come farci vivere più a lungo grazie a farmaci e abitudini più salutari, peccato che poi la gente si parcheggi in un letto e diventi sempre più meschina e abietta, fino a trasformarsi in bestie da soma intolleranti che occupano la stanza che avresti voluto convertire in uno studio.

    Non fate quella faccia, so benissimo che la pensate così anche voi. Godetevi la vita e abbandonate le spoglie mortali intorno ai settant’anni; solo le persone più noiose aspirano al traguardo dei cento, un’impresa premiata da una breve lettera impersonale della regina. Quindi sto facendo un favore al mondo, in un certo senso. Gli Artemis sono vecchi e sacrificabili, conducono esistenze di un’inutilità sconcertante: vino a pranzo, riposino pomeridiano, un giro nei negozi del centro per comprare gioielli mostruosi e orologi pacchiani. Lui gioca a golf, lei passa un sacco di tempo a farsi iniettare sostanze in faccia che le danno lo strano aspetto di una bambina inspiegabilmente vecchia. Uno spreco di vita, e non vi ho ancora detto quanto sono razzisti. Oh, ’fanculo, credo che possiate intuirlo: vivono a Marbella e non parlano spagnolo. Ci siamo capiti, non serve aggiungere altro.

    È chiaro che ho degli interessi personali in questa storia. Non sono Harold Shipman, non vado in giro ad ammazzare tutti gli ottuagenari che incontro. Voglio farne fuori soltanto due, gli altri possono continuare a guardare soap opera e a fare regali orrendi a nipoti che non sopportano le loro visite noiose. Quei due tecnicamente sono i miei nonni, ma non li ho mai incontrati e non mi hanno mai regalato neppure una tavoletta di cioccolato. Tuttavia sanno che esisto; lo sanno eccome.

    Lasciate che vi spieghi. Per molto tempo ho vissuto nella convinzione che Simon, mio padre, fosse riuscito a mantenere segreta la mia esistenza; ma di recente è venuta a trovarmi Helene, la vecchia amica di mia madre. Dopo una bottiglia di vino mi ha confessato di aver fatto visita a Kathleen e Jeremy, tanti anni prima. Stava per trasferirsi a Parigi senza di me, e lasciandomi a Londra le sembrava di deludere la mia splendida mamma. La povera Marie, passata a miglior vita. Così Helene aveva fatto l’unica cosa che le era venuta in mente per alleviare il senso di colpa, e con qualche ricerca online aveva scovato l’indirizzo londinese dei miei nonni. Io non stavo nella pelle all’idea di scoprire cosa le avessero detto, di registrare quella nuova informazione. Ovviamente ero stata a casa loro in diverse occasioni, prima che traslocassero in pianta stabile in Spagna. Avevo trascorso ore lì fuori, a osservare, ad aspettare, a volte li seguivo quando uscivano in macchina con tanto di autista. Ma parlare con loro era tutta un’altra storia, ed ero combattuta fra l’ammirazione per Helene e la rabbia nei suoi confronti: perché non mi aveva raccontato prima di quell’incontro?

    Lei era riluttante, non voleva dirmi quant’era andata male e ha evitato il mio sguardo quando ha ammesso che le avevano sbattuto la porta in faccia. Lei però non si era arresa, e alla fine l’avevano fatta entrare e informata con freddezza che sapevano tutto di me e della mia pessima madre. Mentre assimilavo quelle parole ho sentito un ronzio nelle orecchie e mi sono grattata furiosamente il collo, in attesa che arrivasse l’immancabile nodo in gola. Avevano sempre saputo di me, mi ha spiegato Helene, fin dalla sera in cui il loro povero figlio era tornato inaspettatamente tardi e si era messo a camminare nervoso in soggiorno, per poi confessare di essersi cacciato in un brutto guaio. Secondo Jeremy, il solo a parlare mentre Kathleen sedeva impettita sul divano sorseggiando un generoso gin tonic, Simon chiese loro un consiglio su come confessare la verità alla moglie Janine, e disse al padre che avrebbe provveduto a me, almeno a livello economico.

    «Quindi in un certo senso voleva fare la cosa giusta» ha osservato Helene, quasi volesse scusarsi, bevendo il vino e giocherellando con una ciocca di capelli. Io ho ignorato il commento e le ho chiesto di proseguire. I patetici tentativi di quell’uomo di mettersi la coscienza a posto non mi interessavano minimamente.

    Tutto orgoglioso, Jeremy aveva detto a Helene che avevano cercato per ore di fargli cambiare idea, di fargli capire che Marie l’aveva incastrato per i soldi, che Janine non si sarebbe mai ripresa. «Simon ha commesso uno stupido errore, come capita a tanti ragazzi» le aveva spiegato, «e mi dispiace che quella bambina sia cresciuta senza genitori, ma ci sono catastrofi peggiori.» Helene aveva protestato, urlando che Marie non aveva teso una trappola a Simon e aveva saputo del suo patrimonio, e pure del suo matrimonio, solo in seguito. Ma loro non avevano voluto sentire ragioni. «Quella donna ha cercato di rovinare mio figlio per i soldi!» aveva gridato Kathleen, alzandosi all’improvviso. «E se lei crede che quella ragazzina possa ritirare fuori la faccenda, è un’illusa proprio come lo era la sua amica.» La cosa era più o meno finita lì. Stando a Helene, che nel frattempo aveva finito il vino e gesticolava come una matta, Kathleen era scoppiata in singhiozzi e aveva tempestato di pugni il petto del marito. Lui le aveva afferrato i polsi per spingerla di nuovo sul divano, prima di voltarsi verso Helene, che era sconvolta e in piedi accanto alla porta. «Ha messo in agitazione mia moglie e rovinato la nostra serata. Se ne vada subito da casa nostra, e non pensi neppure di disturbare mio figlio con queste stronzate. Se ci proverà, i nostri avvocati le saranno addosso in un istante, e lei si ritroverà in mezzo a una strada prima ancora di affrontarci in tribunale.»

    «A quel punto ho avuto paura» ha detto Helene, «perché sembrava davvero furibondo. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e i capelli bianchi, prima in perfetto ordine, spettinati. Ma la cosa più strana era il suo accento, che era cambiato completamente. All’inizio parlava come il classico gentiluomo inglese, ma quando me ne sono andata la sua voce era dura e roca, mi ricordava gli uomini del mercato della città in cui sono cresciuta. Mi dispiace tanto. Ci ho provato, pensavo che i genitori di tuo padre fossero più gentili, più empatici. Pensavo che volessero conoscere la loro splendida nipote, accidenti! E invece no. Malgrado la loro ricchezza, Grace, sono soltanto dei farabutti.»

    Insomma, sono vecchi, meschini e occupano spazio prezioso su questa terra. Sarebbe già una ragione sufficiente per far sì che lascino questo mondo in modo più sgradevole di quanto era scritto nei loro destini. Se devo essere del tutto sincera, però, la cosa più grave è che sapevano. Sapevano di mia madre. Sapevano di me. E non si sono limitati a incrociare le braccia e a non fare nulla, no; hanno fatto pressioni sul figlio, hanno incolpato Marie, Helene, i locali notturni, gli amici di Simon che l’avevano portato sulla cattiva strada. Hanno incolpato tutti tranne Simon, che con il loro aiuto si è sottratto ai suoi doveri di padre. Pensavo ignorassero che aveva ripudiato la figlia e la donna che l’aveva data alla luce, ma in realtà hanno semplicemente deciso di lavarsene le mani. E, alla fine, è stato questo a influenzare la mia decisione. Sì, sarebbero stati i primi a morire.

    Arrivo al ristorante sulla spiaggia alle diciotto perché immagino che, come quasi tutti gli anziani, anche i miei nonni cenino presto. Ho chiesto un tavolo in terrazza, ma sembra che il locale sia molto più grande di quanto apparisse sul sito e ho paura di essere troppo lontana e di non sentire nulla di utile. Ordino un bicchiere di vino bianco (non vado alla cieca: la famiglia Latimer ha sempre avuto ottimi gusti in fatto di vini, e così prendo un Rioja) e mi costringo ad aprire il libro che mi aiuterà a passare inosservata quando comincerò a origliare la loro conversazione. È Il conte di Montecristo, una scelta decisamente scontata che però mi è sembrata divertente mentre preparavo le valigie. L’attesa non dura a lungo. Sono a pagina 2 quando colgo dei movimenti con la coda dell’occhio: due camerieri accompagnano quattro anziani oltre il bancone del bar, verso la veranda. Rimango immobile, mi proibisco di alzare lo sguardo, ma mi accorgo lo stesso che si stanno avvicinando. Una forte voce femminile esclama: «No, Andreas, non quel tavolo. È proprio sotto il sole. Facci sedere lì». Il gruppetto fa dietrofront e si dirige all’altro capo del ristorante. Fottiti, Kathleen.

    Una volta che si sono sistemati e hanno ordinato da bere, mettendoci un’eternità dato che si lamentavano del vento e non sapevano cosa prendere, azzardo un rapido sguardo. Gli anziani coniugi Artemis sono rivolti verso di me, i loro amici mi danno le spalle. La pettinatura di Kathleen farebbe sputare sangue a Joan Collins: i capelli biondo platino non sono semplicemente acconciati, formano una specie di impalcatura, così rigida che il vento che tanto la preoccupa non riuscirà neppure a scalfirli. I ritocchi estetici al viso si vedono lontano un chilometro, e gli occhi hanno un’espressione leggermente stupita che vorrebbe farla apparire maliziosa ma le dà un’aria da psicopatica. Indossa un caftano beige su pantaloni in tinta, la borsa Chanel grande come una casa è posata sul tavolo. Il collo è impreziosito da una massiccia collana di… non riesco a distinguere le pietre, ma sospetto che non si tratti di zirconi. Sono talmente concentrati sul menu che mi concedo il lusso di fissarli. Chissà se ho qualcosa in comune con questa donna dalla puzza sotto il naso, che ora solleva le mani e le congiunge. Noto le unghie, appuntite e con il classico smalto rosso da cassetta delle lettere. Eccoci qui, Kathleen. Le mie mani, che stringono il libro ormai dimenticato, al contrario delle tue sono lunghe ed esili. Le mie unghie, però… le mie unghie sono rosso acceso e appuntite come le tue.

    Dopo qualche minuto in cui fingo di essere immersa nella lettura, chiamo il cameriere e chiedo di spostarmi a un tavolo all’ombra. Ho resistito il più possibile, però ora temo davvero che la parrucca possa sciogliersi. La terrazza è affollata ma non al completo, e mi ritrovo seduta proprio dietro i miei obiettivi. Molto meglio. Voglio sentire di cosa parlano. Non scoprirò nulla di profondo o interessante su di loro, sono troppo limitati; tuttavia, potrei farmi un’idea dei loro progetti per la settimana. Resterò qui altri cinque giorni soltanto, non avevo altre ferie disponibili, perciò ho poco tempo. Ordino un secondo calice di vino e tapas assortite, poi riapro il libro. Jeremy mi fissa, mi rivolge lo sguardo che ogni donna conosce. Quel vecchio porco mi sta valutando, apprezza la mia giovane età, non si rende minimamente conto di quanto sia patetico. Gli sorrido per un istante, un po’ perché è comico vedere mio nonno che mi squadra, un po’ per fargli credere di sentirmi lusingata. Il momento viene interrotto dal cameriere che arriva a servirli. Non l’ho visto scrivere un ordine vero e proprio, e alla luce dei piatti capisco perché: hanno preso tutti bistecca e patatine. Dev’essere l’unica cosa che mangiano. Bistecca e patatine, mai addentrarsi in terra straniera, mai fare qualcosa di diverso, si rischia di perdere il proprio status, di abbrutirsi. Se ho dedotto tutto ciò da una semplice bistecca, pensate cosa potrei scoprire guardando le loro librerie. Ma no, scherzo. Scommetto che in casa non hanno libri.

    Non la finiscono più di parlare degli amici del golf club, si soffermano su un tale Brian che di recente si è coperto di vergogna all’asta di beneficenza (povero Brian, immaginate che disonore essere bandito dalla comunità dei vecchi espatriati). Kathleen e la sua amica, che le assomiglia parecchio ma ha un girovita più ampio e una Chanel più piccola, insultano una parrucchiera troppo lenta che lo scorso lunedì non ha trovato un buco per ricevere una loro conoscente. La mia attenzione vacilla. Sono decisa a scoprire il più possibile, ma giuro che questa gente sta facendo di tutto per impedirmelo.

    Se bevo un altro bicchiere di vino, rovinerò questa missione preliminare? Oh, pazienza. Ordino il calice e mangiucchio quello che resta delle tapas. Forse il gruppetto che tengo d’occhio non aveva tutti i torti riguardo alla bistecca. Il cibo che ho di fronte è stranamente gommoso, e più che arrivare dal mare sembra sia stato allevato in un magazzino lungo l’autostrada. I vecchi ora sono al caffè e Kathleen fa un sacco di storie per una macchia sulla cravatta di Jeremy, che sembra appartenere a un qualche circolo. Scommetto che è un massone, sarebbe perfetto. Il marito dell’amica grassa chiede quando torneranno al casinò e parla di una serata cocktail il prossimo giovedì.

    «Sì, ci saremo» dice Jeremy in tono affettato, scostando con la mano il tovagliolo che gli porge Kathleen. «Ceniamo alle sette e mezzo con i Beresford, poi facciamo un salto tornando a casa.»

    Vorrei urlare: DOVE PENSATE DI CENARE?, ma anziché aggiungere dettagli chiede il conto attirando bruscamente l’attenzione del cameriere.

    L’altro tizio afferra il piattino al volo e fa un cenno ai miei nonni. «Offriamo noi, sono sicuro che sia il nostro turno… No, davvero, insisto.»

    Sul tavolo compare una carta di credito dorata che Jeremy ignora, girandosi di nuovo verso di me. Questa volta distolgo lo sguardo. Non voglio che si fissi su di me o che ricordi troppi dettagli del mio viso. In realtà non sono preoccupata, immagino passi un sacco di tempo a squadrare ragazze abbastanza giovani da poter essere sue nipoti. Forse non tutte lo sono, ma visti i trascorsi di Simon non posso esserne sicura, no?

    Quando si alzano guardo meglio la cravatta di Jeremy. Mi sono sbagliata, non è un massone. C’è uno stemma verde e giallo, con il monogramma RC. Un rapido giro su Google e scopro che è la cravatta ufficiale del Regency Club, un circolo privato di Mayfair inaugurato nel 1788 per consentire a uomini, membri della famiglia reale e riccastri di divertirsi senza le rispettive mogli. Per poco non scoppio a ridere. Jeremy, so benissimo quali sono le tue origini. Sei cresciuto in un bilocale a Bethnal Green, con una madre sarta e un padre che si è levato di torno senza lasciare tracce prima del tuo quinto compleanno. Nelle interviste Simon lo racconta con orgoglio per dimostrare quanto la tua famiglia abbia faticato per arrivare al successo. E ora eccoti qui, con una cravatta che di sicuro consideri un segno del tuo pedigree… un pedigree che ti sei comprato. Qualcuno potrebbe trovarlo ammirevole. Anch’io, in fondo, dato che sto cercando di fare la stessa cosa, ovvero uscire dalla povertà e lasciarmi alle spalle le condizioni in cui sono nata. Ma ti conosco. So quanto detesti le tue radici, a prescindere dalla storia che ti sei inventato. Le hai riviste in me e, quando ti è stato chiesto di aiutare il sangue del tuo sangue ad abbandonare una realtà simile, hai rifiutato senza pensarci due volte. Helene aveva ragione: sei soltanto un farabutto, e non bastano i circoli privati e i vestiti costosi a nasconderlo. Ma continua pure a indossare la tua cravatta. Manca poco a giovedì.

    Tornando a casa ammiro la via principale di Puerto Banús. Le boutique sono piene di donne che ammirano abiti elaborati davanti allo specchio mentre chiacchierano con le amiche. Incrocio ragazzine che discutono animatamente della loro abbronzatura. Mi chiedo se anch’io, crescendo nell’ovile della famiglia Artemis, sarei diventata un guscio vuoto. Leggo libri, seguo le notizie internazionali, ho opinioni su argomenti che esulano dalle scarpe e dai golf club. Sono migliore di loro, su questo non ci piove. Eppure sembrano persone felici, malgrado l’ignoranza. Anzi, forse lo sono proprio per via della loro ignoranza. Di cosa mai dovrebbero preoccuparsi? Questi idioti non parlano di riscaldamento globale, pensano solo a cosa indossare alla prossima gita in yacht. Sono però uno spettacolo affascinante, e ho poco tempo per assistervi. Una volta finito il lavoro, non tornerò in questo parco giochi per osservare gli arricchiti. Forse dovrei prendere un souvenir. Guardo le vetrine dei negozi e le cianfrusaglie dai prezzi esagerati. Non ho i soldi né la voglia di comprare un caftano dalle maniche bordate di pelliccia, nemmeno per scherzo. E poi credo di sapere già quale sarà il mio ricordino, e non mi costerà un centesimo.

    L’indomani, dopo una rapida corsa sulla spiaggia, vado a casa loro in macchina. È una villa enorme in un complesso residenziale lontano dalla plebe incolta, protetto da grandi cancelli e da un addetto alla sicurezza che si annoia nel gabbiotto; immagino che debba verificare l’identità dei visitatori, ma mi lascia passare senza fare domande quando dico che devo consegnare un abito alla signora Lyle, al numero 8, per conto della boutique Afterdark. Suppongo che il flusso di consegne sia regolare, che le donne in quelle case immacolate non sappiano come ammazzare il tempo e non facciano che ordinare nuovi vestiti o chiamare con scarso preavviso delle estetiste a domicilio. Ovviamente non ho detto che ero diretta alla villa degli Artemis; non voglio lasciare tracce scontate, in caso qualcuno più avanti faccia domande.

    La loro casa è la numero 9, pressoché identica alla 8 e alla 10: stucco bianco, vialetto in cotto che conduce alla porta d’ingresso. Palme ai due lati della veranda. Praticello perfetto e verdissimo, nonostante il caldo soffocante. Immagino non ci siano limiti alla quantità di acqua che si può utilizzare per le piante, quando si vive in un complesso scollegato dal resto della società. Procedo a passo lento, però non c’è un granché da vedere. Sulle vie ampie non incontro anima viva, nemmeno un dog sitter o una madre che spinge il passeggino. Una ricchezza sconfinata che può comprare soltanto il silenzio. Cosa che, tra parentesi, apprezzo. Nessuno cresce in una delle strade più trafficate di Londra senza sognare il giorno in cui abiterà in una casa da cui non si sentono i vicini scopare arrabbiati o singhiozzare sulle note di Les Misérables. Eppure questa calma è artificiale, piatta e monotona, sembra fatta per creare un ambiente che annulla la rumorosa realtà della vita umana. La scelta degli Artemis di vivere in un posto simile non mi dice niente su di loro. È una casa costruita per gente ricca a cui, più che il design, interessano la sicurezza e il prestigio. Lynn e Brian hanno comprato una villa in questo complesso? Be’, compriamone una più grande! Tutto qui. Nessun tocco personale, nessun cenno di vita, solo conformismo sanificato. Me ne vado un po’ depressa. Ho lo stesso DNA di queste persone: anch’io, prima o poi, desidererò ardentemente moquette beige e una cameriera da maltrattare? Okay, una cameriera non sarebbe male, ma l’inevitabile tristezza dei domestici mi risulta un po’ opprimente. Per Kathleen invece dev’essere piacevole avere a che fare quotidianamente con una donna più infelice di lei.

    Dal complesso residenziale mi sposto al casinò, a circa mezz’ora di auto lungo una strada abbastanza impervia. Lo strapiombo da un lato porta dritto a… una gola? Un burrone? Chissà. Come ho detto, sono cresciuta in città e ho sempre nutrito una salutare diffidenza nei confronti dei grandi spazi aperti. La campagna mi confonde, e se fossi a Londra non sprecherei tempo per raggiungere un posto che richiede un tragitto in auto di mezz’ora. A volte sento l’esigenza di divertirmi senza impegno con un uomo (sì, sto parlando di sesso, abbassate quel sopracciglio) o di distrarmi guardando i profili sulle app di dating. Esamino ruffiani in posa davanti alle BMW, come fossero il segnale

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